
Da passione popolare, il pallone è diventato un mero business. Lo salvano solo campioni come Francesco Totti. I tafferugli? Sono sani.L'economia sta, anno dopo anno, svuotando il calcio di quei contenuti identitari, rituali, simbolici, mitici che per più di un secolo hanno fatto la fortuna di questo gioco. Fra tutti questi motivi quello identitario è forse il più cruciale: il riconoscersi in una squadra, nella sua storia, nella sua tradizione, nei suoi colori, nelle sue maglie, nel suo carattere la cui continuità era assicurata dal passaggio di testimone, di generazione in generazione, fra gli «anziani» e i giovani del vivaio e della Primavera.C'erano inoltre, a cementare questa identità, alcuni giocatori-simbolo, inamovibili, intoccabili, come Rivera, Mazzola, Bulgarelli, Antognoni, Riva e il cui ultimo esponente è stato Francesco Totti, forse il più grande giocatore italiano del dopoguerra insieme allo stesso Rivera, a Giampiero Boniperti, a Roberto Baggio, che «romano de Roma» non ha mai voluto lasciare la squadra della capitale, ha rinunciato a trofei e ingaggi tenendo alta, anche se sempre più affievolita, la fiaccola del calcio d'antan. E non è certamente un caso che, per nostalgia di quel calcio, Totti sia stato amato da tutti, anche dai tifosi delle squadre avversarie. Un po' come in Spagna Andrés Iniesta, Don Andrés, che ogni volta che usciva dal campo, anche non quello del Barcellona, era accolto da una standing ovation. Iniesta è stato il mio ultimo grande amore. Un campione in campo e fuori. Mi faceva impazzire cosa riusciva a fare con quel suo fisico e quel suo aspetto da impiegatuccio. I giocatori del Barça quando volevano prendersi in giro dicevano «sei pallido come Iniesta». Ma signore anche fuori dal campo. Modesto, riservato, nessun atteggiamento da fenomeno. Il contrario di Cristiano Ronaldo. Qualche anno fa, quando era al massimo della carriera e tutti i grandi club lo corteggiavano, si incontrò con i dirigenti del Barcellona che stavano rinnovando il contratto ad alcuni dei loro giocatori. Ne uscì dicendo «non devo essere molto bravo a trattare perché gli ho detto che comunque volevo finire la mia carriera al Barcellona». E così è stato.Il caso ha voluto che mi trovassi a Barcellona la domenica in cui Iniesta dava l'addio al Barça nella partita con la Real Sociedad. Il match (1-0) naturalmente non contava nulla. Era la partita dell'addio di Iniesta. Lo stadio era tappezzato di striscioni «Infinit Iniesta», così come dalle finestre e dai balconi dell'intera città pendevano le bandiere gialle e rosse a linee orizzontali dell'indipendentismo catalano. Eravamo riusciti a entrare al Camp Nou, zeppo fino all'ultimo posto, grazie a mio figlio che a Barcellona è di casa e vi ha dei misteriosi giri. L'allenatore, Ernesto Valverde, lo fece uscire a un quarto d'ora dalla fine per una standing ovation che durò una decina di minuti che l'arbitro nemmeno recuperò. Guardavo il viso di Iniesta seduto in panchina, pallido, ancora più pallido di sempre. Pareva impassibile, ma si capiva benissimo che nella sua mente passavano le immagini dei ventiquattro anni vissuti al Barça dove era entrato bambino. Nell'ultimo decennio il Pallone d'oro se lo sono divisi Messi e Ronaldo. Nell'assegnarlo si guarda quasi sempre agli attaccanti. Ma Messi con l'Argentina, senza Iniesta e Xavi alle spalle, ha sempre combinato poco. Però Xavi e Iniesta, pilastri della Spagna e di quel Barcellona che proprio in questi dieci anni è stata di fatto la squadra migliore e affascinante del mondo, il Pallone d'oro non lo hanno visto mai. Lo scorso anno si è finalmente cambiato strada assegnando il premio a un centrocampista, Luka Modric del Madrid, ritornando a un più giusto equilibrio fra cannonieri e quelli che i gol li fanno segnare agli altri: in passato era stato dato a Suarez, a Masopust, a Beckenbauer, a Matthaus, a Sammer, a Nedved. Fra i difensori puri il premio è stato dato solo a Fabio Cannavaro, ed è l'ultimo prima del dominio del binomio Messi-Ronaldo, per la sua straordinaria e decisiva prestazione ai campionati del mondo del 2006 vinti dall'Italia. Unico è anche il premio assegnato a un portiere, Jasin, dell'allora Unione Sovietica nel 1963. Lo vidi giocare a San Siro contro l'Italia e fare una parata strepitosa a terra – che sono le più difficili per un portiere soprattutto se è molto alto – su un fulmine di Bianchi. Esultai. Da dietro una voce un po' incattivita disse: «Ecco i comunisti di casa nostra». Mi voltai. «Ma io sono di madre russa» e quello si zittì. Che mia madre sia russa è vero, ma questo stratagemma l'ho usato tutte le volte che una squadra italiana giocava con una straniera in quella che un tempo si chiamava Coppa dei Campioni. Sono stato quindi di volta in volta di madre scozzese, inglese e persino finlandese. [...]Nel frattempo la politica degli abbonamenti (denaro che si incassa in anticipo) e dei prezzi ha tolto al calcio da stadio il suo connotato interclassista: la suburra va dietro le porte e nelle curve, gli altri, a seconda del loro status, nelle diverse tribune. Questo ha eliminato dal calcio l'elemento comunitario, di festa di tutti. Funzione che ha perso ogni senso anche perché le partite non si giocano più ritualmente la domenica, alla stessa ora, ma anche nei due anticipi del sabato, nel posticipo del lunedì, mentre nella stessa domenica si gioca in orari diversi: a mezzogiorno c'è una partita di cartello, il pomeriggio giocano le squadre più scadenti, la sera c'è la partita clou.Non solo: gli orari dei più importanti campionati continentali sono congegnati in modo da non confliggere fra di loro, la Premier League inglese si gioca in genere in tarda mattinata, la Liga spagnola di sera, tutto ciò per favorire la pay tv e la pay per view. È scomparso di fatto anche il subrito del sabato quando si andava a giocare al bar la schedina. Non solamente perché la schedina si gioca ormai on line ma perché il Totocalcio ha perso ogni appeal ed è precipitato da un montepremi che andava dai trenta-quaranta miliardi di lire degli «anni d'oro», gli Ottanta e Novanta, a duecentomila euro. Adesso, per farla finita del tutto, il Totocalcio è stato tolto di mezzo a favore di una misteriosa e fantomatica «Sport e Salute». Non si esagera se si afferma che in un mondo completamente desacralizzato e materialista il calcio fosse rimasto l'ultimo luogo dedicato al sacro sostituendo altri riti caduti in disuso. Visto dalla parte del tifoso, il calcio è una passione totalmente gratuita. Esulta come un bambino se la sua squadra vince, piange come un bambino se perde. Ma a lui personalmente non viene in tasca nulla. Se si costringono dietro le porte tutti i ragazzotti che prima si diluivano anche in altre parti dello stadio è ipocrita scandalizzarsi se questi poi a ogni buona o cattiva occasione fanno casino. Peraltro qualche tafferuglio è utile. Tutte le culture che hanno preceduto la nostra, illuminista, astratta, che pensa l'uomo come dovrebbe essere e non come concretamente è, non hanno mai cercato di eliminare del tutto l'aggressività. […] Nel 1992 andai ad Amsterdam col fido Matteo per vedere il ritorno della finale di Coppa Uefa con l'Ajax. Io e mio figlio abbiamo lo stesso modo di visitare una città: andiamo a zonzo senza un obiettivo preciso. Lo abbiamo fatto anche a Tokyo girandola quasi tutta a piedi, certo se poi ci trovavamo davanti un tempio Shinto ci fermavamo e una volta abbiamo fatto anche le abluzioni di rito. […] Attraversando Amsterdam cominciammo a vedere, nel pomeriggio, gruppi di tifosi olandesi che si recavano allo stadio. Avevano i visi dipinti di rosso e di bianco, i colori dell'Ajax, dei «lancieri» come venivano chiamati allora. Cantavano. All'Olympisch Stadion il clima era da kermesse, un po' come quello che avevo respirato in Italia negli anni Cinquanta. Noi ci trovammo in mezzo proprio a questi tifosi. Ma non avemmo problemi, potevamo fare tranquillamente il tifo per la nostra squadra senza che nessuno ci guardasse storto.Fu una partita sfigatissima. Proprio da Toro. All'andata a Torino avevamo fatto 1 a 1 con un gol in rimonta dell'olandese Van de Korput, nomen omen, che, beffa delle beffe, era stato nostro fino all'anno precedente. Per vincere la Coppa ci sarebbe bastato un gol senza subirne. Prendemmo tre pali, l'ultimo a pochi minuti dalla fine, di Sordo che riuscì dalla linea dell'area piccola a sparare sulla traversa.
Monica Marangoni (Ansa)
La giornalista Monica Marangoni affronta il tema della nudità in un saggio che tocca anche il caso delle piattaforme sessiste. «È il tempo del relativismo estetico che asseconda solo l’io e le sue voglie, persino con immagini artefatte».
Giornalista e conduttrice televisiva, laureata in Filosofia all’università Cattolica del Sacro cuore a Milano, Monica Marangoni ha condotto diversi programmi non solo in Rai. Nudo tra sacro e profano - Dall’età dell’innocenza all’epoca di Onlyfans (Cantagalli), con postfazione dello stesso editore David Cantagalli, è il suo primo saggio. Una riflessione particolarmente attuale dopo la scoperta, e la chiusura, di alcuni siti che, con l’Intelligenza artificiale, abbinano corpi nudi femminili a volti noti del mondo dell’informazione, dello sport e della politica.
Effetto Trump: dazi, tagli alla ricerca e revisione dei protocolli sanitari stanno frenando il comparto (-4%). A pesare, pure la scadenza dei brevetti. Cresce la fiducia, invece, nei processi tecnologici contro le malattie.
Il settore farmaceutico globale attraversa una fase di incertezza che si riflette sui listini. Da inizio anno il comparto mondiale segna un -4%, zavorrato anche dall’effetto cambio, mentre in Europa l’andamento complessivo resta vicino alla parità ma con forti turbolenze. Il paradosso è evidente: a fronte di una domanda sanitaria in crescita e di progressi clinici straordinari, gli investitori hanno preferito spostarsi su altri temi.
Donna, ingegnere aerospaziale dell'Esa e disabile. La tedesca Michaela Benthaus, 33 anni, prenderà parte ad una missione suborbitale sul razzo New Shepard di Blue Origin. Paraplegica dal 2018 in seguito ad un incidente in mountain bike, non ha rinunciato ai suoi obiettivi, nonostante le difficoltà della sua nuova condizione. Intervistata a Bruxelles, ha raccontato la sua esperienza con un discorso motivazionale: «Non abbandonate mai i vostri sogni, ma prendetevi il giusto tempo per realizzarli».
Luca Marinelli (Ansa)
L’antica arte partenopea del piagnisteo strategico ha in Italia interpreti di alto livello: frignano, inteneriscono e incassano.
Venghino, siori, venghino, qui si narrano le gesta di una sempiterna compagnia di ventura.
L’inossidabile categoria dei cultori del piagnisteo.
Che fa del vittimismo una posa.
Per una buona causa: la loro.





