Prima delle nozze fra Peugeot e Fca, il Comitato per la sicurezza denunciò il rischio deindustrializzazione. Ma il Conte bis rimase indifferente. Oggi si può cambiare marcia con il golden power sugli stabilimenti e su Iveco, quasi finita in mani cinesi.
Prima delle nozze fra Peugeot e Fca, il Comitato per la sicurezza denunciò il rischio deindustrializzazione. Ma il Conte bis rimase indifferente. Oggi si può cambiare marcia con il golden power sugli stabilimenti e su Iveco, quasi finita in mani cinesi.«I benefici dell’operazione proposta non si otterrebbero con la chiusura di stabilimenti», spiegava con una nota ufficiale Fca il 27 maggio del 2019, «ma deriverebbero da investimenti più efficienti in termini di utilizzo del capitale in piattaforme globali dei veicoli, in architetture, in sistemi di propulsione e in tecnologie». «Nessun impatto, non ci sono chiusure di stabilimento», ribadiva il presidente John Elkann. «Siamo molto incoraggiati da quello che si potrà fare insieme», concludeva Elkann spiegando che come con Chrysler «abbiamo voluto partire con coraggio. Esattamente come abbiamo fatto nel 2009». Al di là delle promesse mancate, l celebrazioni sono durate un mese. Perché già a giugno del 2019 l’operazione di fusione Fca e Renault salta. Motivo? Il governo francese mette paletti così evidenti da far capire che Fca deve prendere un’altra strada. Parigi con il modello Fca-Renault (tanto più con sinergie in Giappone) non avrebbe avuto le stesse leve di controllo e di potere che invece avrebbe consentito la partnership con Peugeot. Quel matrimonio sarebbe invece stato quasi paritetico. Sarebbe nata una società più avanti sull’elettrico e con una grande forza commerciale in Asia. Un bene anche per l’Italia. Invece nulla. Anzi, detto fatto e i desideri di Emmanuel Macron e del deep State francese si realizzano. Un anno e mezzo dopo Fca viene acquisita dal gruppo Psa che fornisce allo Stato francese quelle garanzie che Renault non avrebbe certificato. Il 16 gennaio 2021 nasce così Stellantis, gruppo che detiene 14 marchi in giro per il mondo e fattura in un solo trimestre qualcosa come 45 miliardi. Lo Stato francese è azionista assieme alla famiglia Peugeot con il 7%, ma inutile dirlo pesa (a livello politico e strategico) più della Exor degli Elkann. Sul fronte italiano invece in quei mesi cruciali si è dormito. Ministro dello Sviluppo economico, se così si può definire, era Stefano Patuanelli. Lui e il premier Giuseppe Conte tacciono o sono distratti da altro. Eppure dal nostro comparto di intelligence e soprattutto dal Comitato parlamentare per la sicurezza (Copasir) arrivano allarmi pesanti. Sintetizzabili così: l’operazione Stellantis può deindustrializzare il Paese. A cose fatte, quando si insedia il governo Draghi il tema viene anche affrontato in Aula. A parlare è Adolfo Urso, allora senatore di Fdi e vice presidente del Copasir. Il management Stellantis è di nomina francese, sottolinea il parlamentare: «A fronte di questo sappiamo anche che la stessa holding ha messo in vendita l’Iveco ai cinesi e, nel frattempo, intende vendere Comau e Teksid sempre ad acquirenti asiatici, mentre in questi ultimi tempi ha ceduto piccole e medie aziende della filiera automobilistica». Urso passa la palla al ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti: «Cosa era stato notificato a Palazzo Chigi? La fusione o la vendita? Inoltre, era stato comunicato che lo Stato francese dopo la fusione avrebbe aumentato le quote?». Da lì la richiesta tramite interrogazione perché il governo attivasse Cassa depositi e prestiti allo scopo di farle acquistare una quota pari a quella detenuta dallo Stato francese, in modo di garantire che anche gli stabilimenti italiani e la filiera dell’automotive venissero protetti in caso di ristrutturazioni. Da quel dibattito non è scaturito nulla. Ma dal predominio francese derivano tutte le scelte Stellantis che - è bene ribadirlo - a Exor vanno benissimo visto che rimane l’azionista di maggioranza relativa. All’inizio del Duemila Fiat aveva in Italia più o meno 75.000 dipendenti. A fine dicembre 2023 siamo a 45.000, ma di questi solo 26.000 si occupano di produzione di veicoli. Da febbraio 2021 a oggi (due anni) Stellantis ha lasciato per strada 7.000 operai. Tutti italiani. Quelli francesi sono tutelati. Ogni due per tre Melfi interrompe la produzione perché mancano i rifornimenti, l’indotto protesta perché non vuole delocalizzare seguendo le indicazioni del board guidato da Carlos Tavares.Adesso i buoi sono però scappati dalla stalla. Che fare? Il premier Giorgia Meloni ha detto ieri in Aula che serve un partner disposto a investire in Italia. Chiaramente non è Stellantis. Non ci risulta che al momento vi siano però alternative. Ne segue che in qualche modo il gruppo degli Elkann debba rispondere delle proprie scelte. Fa sorridere la pubblicità su vari giornali, soprattutto quelli di proprietà, che sbandiera i bonus tricolore. Questi andrebbero subito bloccati. Purtroppo non è possibile incentivare solo le vetture prodotte in Italia. È contrario alle norme Ue sugli aiuti di Stato. Sono norme sbagliate. Su questo bisogna intervenire subito. Al tempo non è stato usato il golden power. Lo Stato francese lo applica invece al 69% delle aziende. È intervenuto anche per proteggere Carrefour dai canadesi. Noi dovremmo iniziare a usare il golden power per fissare i livelli minimi di investimento. Vale per gli stabilimenti italiani di Stellantis e soprattutto per Iveco, il gioiello dei camion in mano a Exor. Per un pelo non è stato venduto ai cinesi. Adesso, facendo leva sulla parte militare, andrebbero concordate strategie e linee di sviluppo future. Basta scherzare sull’industria pesante. È il futuro del Paese.
Kaja Kallas (Ansa)
Nella Commissione Ue si deplora il livello «rivoltante» di corruzione in Ucraina. Lo scandalo mazzette rafforza la posizione di Orbán e il veto belga sull’uso degli asset russi. Kallas invece rimane coi paraocchi.
In Europa faticano ad ammetterlo e c’è pure chi - tipo Kaja Kallas, che smania per farci indossare gli elmetti - tiene su i paraocchi. Ma la verità è che lo scandalo delle mazzette in Ucraina ha rotto qualcosa nell’idillio tra Kiev e Bruxelles. Con l’opinione pubblica già stressata dall’ossessiva evocazione di un grande conflitto contro la Russia, messa di fronte alla prospettiva di un riarmo a tappe forzate, anche al prezzo della macelleria sociale, diventa complicato giustificare altre liberali elargizioni a Volodymyr Zelensky, con la storiella degli eroi che si battono anche per i nostri valori.
Volodymyr Zelensky (Ansa)
S’incrina il favore di cancellerie e media. Che fingevano che il presidente fosse un santo.
Per troppo tempo ci siamo illusi che la retorica bastasse: Putin era il cattivo della storia e quindi il dibattito si chiudeva già sul nascere, prima che a qualcuno saltasse in testa di ricordare che le intenzioni del cattivo di rifare la Grande Russia erano note e noi, quel cattivo, lo avevamo trasformato nel player energetico pressoché unico. Insomma la politica internazionale è un pochino meno lineare delle linee dritte che tiriamo con il righello della morale.
L’Unesco si appresta a conferire alla cucina italiana il riconoscimento di patrimonio immateriale dell’umanità. La cosa particolare è che non vengono premiati i piatti – data l’enorme biodiversità della nostra gastronomia – ma il valore culturale della nostra cucina fatta di tradizioni e rapporto con il rurale e il naturale.
Antonio Tajani (Ansa)
Il ministro degli Esteri annuncia il dodicesimo pacchetto: «Comitato parlamentare informato». Poco dopo l’organo smentisce: «Nessuna comunicazione». Salvini insiste: «Sconcerto per la destinazione delle nostre risorse, la priorità è fermare il conflitto».
Non c’è intesa all’interno della maggioranza sulla fornitura di armi a Kiev. Un tema sul quale i tre partiti di centrodestra non si sono ancora mai spaccati nelle circostanze che contano (quindi al momento del voto), trovando sempre una sintesi. Ma se fin qui la convergenza è sempre finita su un sì agli aiuti militari, da qualche settimana la questione sembrerebbe aver preso un’altra piega. Il vicepremier Matteo Salvini riflette a fondo sull’opportunità di inviare nuove forniture: «Mandare aiuti umanitari, militari ed economici per difendere i civili e per aiutare i bambini e sapere che una parte di questi aiuti finisce in ville all’estero, in conti in Svizzera e in gabinetti d’oro, è preoccupante e sconcertate».






