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2024-09-23
Un mondo malvagio da rifare. Dietro l’ideologia woke l’eterno ritorno della gnosi
(Getty Images)
Non è più molto difficile sentire parlare di «ideologia woke». Da qualche anno se ne discute ossessivamente negli Stati Uniti, e inevitabilmente il dibattito è rimbalzato anche dalle nostre parti. Più difficile è capire che cosa davvero significhi il termine woke, come sia nato e come si sia evoluto nel tempo. A fornire una serie di possibili risposte provvede un libro molto interessante intitolato La trappola identitaria (Feltrinelli). A firmarlo è Yascha Mounk, docente alla Johns Hopkins University di Washington e commentatore per il New York Times. Uno studioso dalle idee estremamente discutibili: è liberal fino al midollo e pieno di pregiudizi sui movimenti sovranisti e identitari, e il più delle volte appare come un megafono del pensiero unico, solo appena più raffinato della media.
A maggior ragione, è molto suggestivo leggere quel che Mounk scrive a proposito del wokismo, che lui preferisce chiamare «sintesi identitaria». Per prima cosa, la sua è una critica «da sinistra», quindi impermeabile alle consuete accuse che si muovono alle destre quando si occupano delle derive astiose della cultura della cancellazione. Mounk mette in evidenza tutti i pericoli dell’approccio woke, a partire ovviamente dalla minaccia alla libertà di espressione. E coglie quella che forse è la principale conseguenza dell’affermazione di questa ideologia: la frammentazione e l’aumento della tensione sociale. Nei fatti, il wokismo produce microidentità in feroce conflitto tra loro, e distoglie l’attenzione da problemi più ampi. «Certi approcci pedagogici, come l’esortazione ad “abbracciare la razza” che va tanto di moda oggi», scrive Mounk, «incoraggiano i giovani a definirsi nei termini dei vari gruppi razziali, religiosi e sessuali in cui sono nati. Dal canto loro, politiche pubbliche come i protocolli di triage “sensibili alla razza” incentivano fortemente i cittadini a lottare per gli interessi collettivi del proprio gruppo. Insieme, norme e politiche di questo tipo rischiano di creare una società composta da tribù in guerra tra loro, anziché da compatrioti pronti a collaborare, in cui ciascun gruppo è impegnato in una competizione a somma zero con tutti gli altri».
Fin qui, tuttavia, c’è poco di inedito: non è la prima volta che dal versante liberal arrivano questo tipo di intemerate contro la nuova sinistra microidentitaria. Mounk tenta qualcosa di più ambizioso: prova a ricostruire la genesi del pensiero woke, scavando fino a raggiungerne le fondamenta intellettuali.
Questo lavoro di trivellazione del sostrato culturale porta inevitabilmente al postmoderno, al filosofo francese Michel Foucault, e alla sua idea di demolizione di tutte le «grandi narrazioni». In effetti, è esattamente lì che si sviluppa in embrione l’idea di modificare il linguaggio per cambiare i rapporti di potere all’interno della società. Autori come Edward Said proseguiranno su questa linea, cercando - come nota Mounk - di «rimodellare i discorsi dominanti in modi che potessero aiutare gli oppressi». Come sia andata a finire è noto: sono queste le basi su cui si sviluppano la teoria critica della razza e quella del genere, nascono i concetti di «intersezionalità» (la concezione secondo cui i membri delle minoranze sono discriminati a vari livelli che in qualche modo si intersecano) e di «razzismo sistemico». Nasce qui anche un’altra pericolosissima convinzione: l’idea che l’esperienza individuale sia sovrana. Come scrive Mounk: «Io ho la mia verità; una verità che tu non hai il diritto di mettere in discussione o criticare sulla base di dati teoricamente oggettivi, soprattutto se non appartieni allo stesso gruppo identitario emarginato».
Questo viaggio nella storia delle idee è estremamente affascinante e davvero molto utile. Ma presenta difetti e lacune di cui conviene dare conto. Innanzitutto, Mounk sembra voler gettare il bambino con l’acqua sporca. Se è vero che Foucault e i postmoderni hanno pervertito alcune visioni di Nietzsche e hanno contribuito a stabilire la legge secondo cui nulla è vero e dunque tutto è permesso, è anche vero che la critica della scienza e delle istituzioni portata avanti dagli autori postmoderni ha fornito un controcanto essenziale allo strapotere della ragione tecnica e all’ottimismo del progresso a tutti i costi. La sensazione è che a tratti Mounk - come tanti altri liberal - cerchi di scaricare la paternità del wokismo su una corrente di pensiero eterodossa per assolvere il pensiero progressista più tradizionale. Positivismo, marxismo e pure liberalismo hanno fatto la loro parte, eccome, contribuendo all’emergere della nuova tendenza censoria e liberticida.
Per rendersene conto, tuttavia, bisogna considerare un aspetto della questione che nel lavoro di Mounk manca totalmente, ovvero l’elemento religioso. Il wokismo, come il progressismo in precedenza, è una forma di gnosi. Si basa, cioè, su una visione pessimistica della creazione, e sulla possibilità di correggere quest’ultima tramite una «conoscenza segreta» di cui pochi eletti sono in possesso, attraverso la quale è possibile riscrivere tutte le regole fondamentali del vivere civile oltre che del linguaggio e perfino della biologia.
In fondo, il progressismo a cui lo stesso Mounk si richiama non era poi troppo diverso: pretendeva di rimodellare il mondo tramite la propria geometrica potenza. I woke fanno lo stesso, solo con metodi diversi. Lo ha rimarcato di recente il filosofo Alfonso Lanzieri. «La filosofia woke è permeata di gnosticismo», ha scritto. «Se per lo gnostico il mondo e quanto contiene sono un immenso inganno costruito da un dio maligno, e la missione dell’iniziato consiste nello smascherare la truffa grazie alla conoscenza liberatrice, analogamente per gli odierni illuminati dell’universo woke, la società tutta è solo matrice di oppressioni visibili e invisibili: si tratta di risvegliarsi a tale verità. […] Tutto ciò si chiama anticosmismo, vale a dire la convinzione che questo mondo sia cattivo, che nello gnosticismo è accompagnato dall’antisomatismo, cioè la convinzione che il corpo sia cattivo: difatti, sia detto di passaggio, nella produzione di Judith Butler e altre voci simili, fa capolino un certo androginismo escatologico. Chiaramente, per l’universo woke, il cosmo fonte di sofferenza e angoscia per l’anima che vi è precipitata, non è più quello cui pensavano gli ellenisti, ma è rappresentato dal mondo forgiato dalla società occidentale, democratica-liberale, capitalistica, maschiocentrica ecc. È questo il mondo da cui evadere».
In fondo, ci troviamo di fronte a sostitutivi della religione. La matrice del wokismo è la stessa del marxismo e del liberalismo oggi imperante. È la stessa che ha prodotto la liberazione sessuale e la rivoluzione digitale. Comprenderlo è fondamentale per evitare un errore grave, ovvero il tentativo di sostituire una gnosi con un’altra. Combattere gli illuminati woke in nome della ragione progressista è più che inutile: è dannoso. Ciò che deve preoccupare è il tentativo, comune a tutte queste visioni, di trasformare l’uomo in un dio, attribuendogli il potere di plasmare la realtà a suo piacimento. La storia ci ha insegnato come tutti questi progetti di creazione del paradiso in terra finiscano allo stesso modo: con una poco simpatica gita all’inferno.
«Dal leninismo alla Silicon Valley, il mito di una élite che ci salverà»
Giovanni Filoramo è uno dei maggiori storici della religione europei, forte di una imponente bibliografia. Per l’editore Mimesis esce il satgio Le vie del sacro. Modernità e religione, che dedica alcuni robusti capitoli alla gnosi e alle sue declinazioni contemporanee.
Lei sostiene che la gnosi sia una forma religiosa molto adatta alla modernità. Per quale motivo?
«Semplificando, la forma religiosa della gnosi si contrappone alla fede, è una contrapposizione secolare. Si vede già nel cristianesimo antico: gnosi significa conoscenza e lo gnostico pretende - attraverso vari strumenti - di avere una conoscenza assoluta della verità e questa conoscenza è diversa dalla fede».
In che modo?
«Il paradigma della fede nella tradizione ebraica, poi ebraico-cristiana, è la figura di Abramo. Il suo Dio dice di sacrificare il figlio e lui è pronto a sacrificare il figlio: non c’è nessuna forma di conoscenza in questo caso, c’è una accettazione. In questo senso succede un po’ come nell’islam, che è più vicino all’ebraismo di quanto possa apparire a prima vista».
Quindi c’è una contrapposizione tra fede e conoscenza.
«La gnosi è un tipo di conoscenza che, differenziandosi dalla fede, è disponibile a cercare un dialogo con la ragione, trovando delle mediazioni. Si vede già nel Quattrocento e Cinquecento, agli inizi del mondo moderno e poi nelle tradizioni esoteriche».
A me pare che la questione essenziale sia la centralità dell’individuo. Lo gnostico si salva da solo tramite una conoscenza segreta, non ha bisogno di altre mediazioni. Questa idea mi sembra molto adatta all’individualismo moderno.
«Certo. Qui potrei fare ancora un confronto con la tradizione ebraico-cristiana. Parliamo di Abramo: Abramo è la storia del popolo eletto, non è solo l’individuo Abramo che si confronta con Dio e si riconosce in questo Dio attraverso la fede. Abramo è il capostipite di un popolo, dunque sta in una dimensione comunitaria, collettiva. La gnosi è una forma di religione più individualistica. Ovviamente il concetto di individuo, se pensiamo allo gnosticismo cristiano del secondo o terzo secolo, è radicalmente diverso da quello moderno. Però, certamente, nella storia delle correnti gnostiche la dimensione individuale è decisiva».
Al di là dell’aspetto religioso, esiste anche una sorta di approdo politico della gnosi, che è stato approfondito da studiosi come Luciano Pellicani. Esistono secondo lei gnosi politiche? E quali?
«Dietro la visione di Pellicani c’è uno studioso, Eric Voegelin, un autore molto interessante, che cercava di rileggere la storia di tutta una serie di tradizioni politiche in chiave gnostica. Per Voegelin la gnosi era un elemento pericoloso. Già del 1938 studiava la religioni politiche e per lui il caso classico era quello del leninismo. In che cosa consisteva l’elemento gnostico? Nell’idea di essere un gruppo di salvati in vita grazie alla chiave politica che, in questo caso, Lenin portava avanti. E, di conseguenza, questo elemento collettivo più che individuale era un elemento fortemente politico. È una lettura interessante: qui è il gruppo che possiede una conoscenza assoluta che può portare alla salvezza, attraverso una determinata idea politica e una determinata lotta».
Questo elemento gnostico sembra essere molto presente anche in altri fenomeni. Ad esempio nella cosiddetta rivoluzione tecnologica. A tale riguardo esiste un bel saggio di Erik Davis intitolato Techgnosis, appena ripubblicato in Italia da Nero edizioni. La sua idea è che la rivoluzione tecnologica sia una forma di gnosi, di conoscenza che permette la salvezza attraverso la tecnica.
«Davis ripercorre la storia della tecnologia per secoli. Egli trova in questa conoscenza tecnologica una chiave decisiva per dominare il mondo».
Lei ha studiato molto la cosiddetta New Age. È suggestivo il fatto che la cosiddetta rivoluzione tecnologica si manifesti proprio nella Silicon Valley, in California, cioè proprio dove la New Age - in fondo una forma di gnosi - è fiorita.
«Certamente ci sono degli incroci. Alcune figure fondamentali della rivoluzione tecnologica sono state molto interessate alla mistica orientale, un filone che è centrale nella New Age. Questo è interessante perché la spiritualità orientale - il buddismo, per esempio - si è dimostrato molto aperto all’incontro con la scienza. In Occidente, la tradizione cristiana è stata a lungo in conflitto con la scienza, e la scienza è stata in conflitto con la Chiesa. Le cose sono cambiate solo recentemente, direi dopo il Concilio Vaticano II. La New Age era aperta a una mistica che poteva favorire una lettura in chiave tecnologico-scientifica del rapporto scienza-religione. Abbiamo esempi anche recenti».
Quali?
«Anthony Levandowski, ex ingegnere di Google, ha fondato una sorta di Chiesa dell’algoritmo. Ma ci sono tante alternative mistiche fondate nella spiritualità orientale che si possono sposare bene con la mentalità moderno-tecnologica. Pensi al Tao della Fisica di Capra, un libro uscito ormai tanti anni fa».
Mi pare di capire che al cuore di tutto ci sia l’idea che l’uomo basti a sé stesso, o meglio che egli possa diventare dio.
«Questa è la grande revisione dell’umanità, introdotta da Comte due secoli fa, che ritorna continuamente. Ho citato prima Voegelin. Nel suo libro sulle religioni politiche la teoria di fondo è che i totalitarismi - che hanno uno sfondo gnostico per Voegelin negativo - siano religioni dell’uomo. La gnosi è una forma di religione incentrata essenzialmente sull’uomo: l’uomo Dio però, l’uomo divinizzato».
«È qui la radice dell’ecologismo»
Paolo Riberi ha dedicato gran parte della sua produzione saggistica allo studio dello gnosticismo e della gnosi. Fra i suoi ultimi lavori c'è I profeti dell'apocalisse (Lindau) scritto con Giancarlo Genta, dedicato all'influenza della gnosi sull'ecologismo contemporaneo.
Che definizione daresti della gnosi?
«Gnosis, in greco antico, significava “conoscenza”. Per la precisione, una conoscenza iniziatica, riservata a un ristretto numero di eletti. Tra il primo e il terzo secolo dopo Cristo, in Medio Oriente fiorirono numerose correnti “gnostiche” cristiane e pagane, che rivendicavano di essere detentrici della gnosis, la conoscenza ultraterrena. Non si trattava, come potremmo pensare oggi, del semplice possesso di un’informazione o di una nozione: la gnosis era una conoscenza salvifica, una sorta di “terzo occhio” che consentiva una comunione diretta e immediata con il regno divino. La gnosis non era un semplice bagaglio di informazioni ed esperienze, bensì una condizione acquisita e permanente: lo gnostico beneficiava della capacità di vedere oltre il confine del mondo, e pertanto possedeva una conoscenza assoluta che sorgeva dal suo legame diretto con Dio, senza intermediari».
In che modo la gnosi passa dal piano religioso a quello politico?
«A occuparsi di gnosi e di gnostici sono gli storici delle religioni, quindi il fenomeno viene fisiologicamente classificato come una realtà spirituale e filosofica. In realtà, la gnosi ha sempre avuto anche una dimensione politica molto marcata, fin dai primi inizi: le sette gnostiche nascono in aperto conflitto con uno status quo che non condividono, e che intendono sovvertire. Come ci confermano le fonti storiche, gli gnostici sono eredi diretti delle frange giudaiche radicali che si erano ribellate all’autorità di Roma, fallendo nel loro intento. Venuto meno il terreno dell’affermazione politico-militare, e vedendosi precluse le vie democratiche, gli gnostici inaugurano un’altra via: quella della verità rivelata, che ha valore di per sé a prescindere dai numeri. Per gli gnostici, essere in minoranza è fisiologico: la stragrande maggioranza del genere umano è considerata “dormiente”, un po’ come i prigionieri della caverna di Platone».
Quali sono esempi di movimenti politici gnostici contemporanei?
«Ne I profeti dell’apocalisse io e Giancarlo Genta proviamo a tracciare una mappa della resurrezione contemporanea di questi fenomeni, ritornati quantomai attuali. Oggi ovviamente il terreno non è più ammantato di spiritualità, ma le forme restano le medesime: si pensi al mondo della cosiddetta cultura woke, o alla cancel culture. Certo, l’idea di politically correct esiste da decenni, ma queste nuove ideologie hanno riformulato la questione in termini marcatamente gnostici, assolutizzandola. Il mondo del cinema e dello spettacolo sono emblematici: come si determina se un individuo debba essere o meno moralmente “censurato”, o se un prodotto di intrattenimento sia “corretto” o meno? A decidere non sono più i giudici o gli esperti della settima arte, bensì i guru della cultura woke: alla lettera, i “risvegliati” del nuovo millennio. Per costoro, poco importa se il resto del mondo è “dormiente”: è il fascino carismatico e autenticamente profetico di influencer e opinion maker a dettare l’agenda politica, a prescindere da ogni contenuto. È il tema su cui si sofferma anche la serie-evento Disclaimer di Alfonso Cuaron, di prossima uscita su Apple Tv+: quand’è che una “verità” costruita a tavolino diventa “la Verità”? Per me e Giancarlo Genta, quando entra di mezzo il carisma dei moderni “profeti dell’Apocalisse”. Nel nostro libro proviamo a offrire una confutazione ragionata delle loro tesi più ricorrenti, che rinnegano completamente l’identità dell’Occidente fin dalle sue radici più antiche».
Il vostro libro è dedicato soprattutto all’ambientalismo. Esiste una gnosi ecologista? Che caratteristiche ha?
«Mai come nell’ambito dell’ecologismo - fenomeno distante anni luce dalla sana ecologia - si può percepire in maniera evidente l’affermarsi delle dinamiche neo-gnostiche. In un contesto fortemente secolarizzato, dove Dio è scomparso dallo scenario, il suo posto viene preso dalla Natura: un’entità impersonale, aliena e del tutto idealizzata. Non è questione di evitare gli eccessi: per la cosiddetta Deep Ecology, la Natura è un bene assoluto, un valore da tutelare a prescindere, di fronte al quale qualsiasi diritto del genere umano deve cedere il passo. Gli antichi gnostici contestavano la realtà materiale, ritenendola uno specchio distorto del mondo reale, ultraterreno. I nuovi gnostici fanno altrettanto, e nel mirino hanno il cosiddetto Antropocene: al suo posto, deve sorgere “un’età della terra”, lo Cthulucene, in cui l’uomo dovrà limitarsi a essere grato di sopravvivere, cercando di ridurre a zero il proprio “impatto”. Dall’antispecismo si passa così a un vero e proprio antiumanesimo: non soltanto l’uomo non è più il centro dell’universo, ma diviene un microbo la cui sopravvivenza non è assicurata, e non ha alcuna importanza. Una prospettiva inquietante, che cancella con un colpo di spugna l’intera storia occidentale».
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La cancel culture preoccupa sempre più anche la sinistra. Che però non ne coglie la natura religiosa: l’uomo che vuol farsi dio per «correggere» la creazione.Lo storico Giovanni Filoramo: «Questa forma di spiritualità contrappone la propria conoscenza alla fede tradizionale. E ripudia i legami comunitari in nome dell’individualismo: ecco perché è adatta alla modernità».Il saggista Paolo Riberi: «Gli attivisti vogliono togliere l’umanità dal centro dell’universo per fare spazio a una nuova «età della terra». Così si stravolge l’identità dell’Occidente».Lo speciale contiene tre articoli.Non è più molto difficile sentire parlare di «ideologia woke». Da qualche anno se ne discute ossessivamente negli Stati Uniti, e inevitabilmente il dibattito è rimbalzato anche dalle nostre parti. Più difficile è capire che cosa davvero significhi il termine woke, come sia nato e come si sia evoluto nel tempo. A fornire una serie di possibili risposte provvede un libro molto interessante intitolato La trappola identitaria (Feltrinelli). A firmarlo è Yascha Mounk, docente alla Johns Hopkins University di Washington e commentatore per il New York Times. Uno studioso dalle idee estremamente discutibili: è liberal fino al midollo e pieno di pregiudizi sui movimenti sovranisti e identitari, e il più delle volte appare come un megafono del pensiero unico, solo appena più raffinato della media. A maggior ragione, è molto suggestivo leggere quel che Mounk scrive a proposito del wokismo, che lui preferisce chiamare «sintesi identitaria». Per prima cosa, la sua è una critica «da sinistra», quindi impermeabile alle consuete accuse che si muovono alle destre quando si occupano delle derive astiose della cultura della cancellazione. Mounk mette in evidenza tutti i pericoli dell’approccio woke, a partire ovviamente dalla minaccia alla libertà di espressione. E coglie quella che forse è la principale conseguenza dell’affermazione di questa ideologia: la frammentazione e l’aumento della tensione sociale. Nei fatti, il wokismo produce microidentità in feroce conflitto tra loro, e distoglie l’attenzione da problemi più ampi. «Certi approcci pedagogici, come l’esortazione ad “abbracciare la razza” che va tanto di moda oggi», scrive Mounk, «incoraggiano i giovani a definirsi nei termini dei vari gruppi razziali, religiosi e sessuali in cui sono nati. Dal canto loro, politiche pubbliche come i protocolli di triage “sensibili alla razza” incentivano fortemente i cittadini a lottare per gli interessi collettivi del proprio gruppo. Insieme, norme e politiche di questo tipo rischiano di creare una società composta da tribù in guerra tra loro, anziché da compatrioti pronti a collaborare, in cui ciascun gruppo è impegnato in una competizione a somma zero con tutti gli altri». Fin qui, tuttavia, c’è poco di inedito: non è la prima volta che dal versante liberal arrivano questo tipo di intemerate contro la nuova sinistra microidentitaria. Mounk tenta qualcosa di più ambizioso: prova a ricostruire la genesi del pensiero woke, scavando fino a raggiungerne le fondamenta intellettuali. Questo lavoro di trivellazione del sostrato culturale porta inevitabilmente al postmoderno, al filosofo francese Michel Foucault, e alla sua idea di demolizione di tutte le «grandi narrazioni». In effetti, è esattamente lì che si sviluppa in embrione l’idea di modificare il linguaggio per cambiare i rapporti di potere all’interno della società. Autori come Edward Said proseguiranno su questa linea, cercando - come nota Mounk - di «rimodellare i discorsi dominanti in modi che potessero aiutare gli oppressi». Come sia andata a finire è noto: sono queste le basi su cui si sviluppano la teoria critica della razza e quella del genere, nascono i concetti di «intersezionalità» (la concezione secondo cui i membri delle minoranze sono discriminati a vari livelli che in qualche modo si intersecano) e di «razzismo sistemico». Nasce qui anche un’altra pericolosissima convinzione: l’idea che l’esperienza individuale sia sovrana. Come scrive Mounk: «Io ho la mia verità; una verità che tu non hai il diritto di mettere in discussione o criticare sulla base di dati teoricamente oggettivi, soprattutto se non appartieni allo stesso gruppo identitario emarginato». Questo viaggio nella storia delle idee è estremamente affascinante e davvero molto utile. Ma presenta difetti e lacune di cui conviene dare conto. Innanzitutto, Mounk sembra voler gettare il bambino con l’acqua sporca. Se è vero che Foucault e i postmoderni hanno pervertito alcune visioni di Nietzsche e hanno contribuito a stabilire la legge secondo cui nulla è vero e dunque tutto è permesso, è anche vero che la critica della scienza e delle istituzioni portata avanti dagli autori postmoderni ha fornito un controcanto essenziale allo strapotere della ragione tecnica e all’ottimismo del progresso a tutti i costi. La sensazione è che a tratti Mounk - come tanti altri liberal - cerchi di scaricare la paternità del wokismo su una corrente di pensiero eterodossa per assolvere il pensiero progressista più tradizionale. Positivismo, marxismo e pure liberalismo hanno fatto la loro parte, eccome, contribuendo all’emergere della nuova tendenza censoria e liberticida. Per rendersene conto, tuttavia, bisogna considerare un aspetto della questione che nel lavoro di Mounk manca totalmente, ovvero l’elemento religioso. Il wokismo, come il progressismo in precedenza, è una forma di gnosi. Si basa, cioè, su una visione pessimistica della creazione, e sulla possibilità di correggere quest’ultima tramite una «conoscenza segreta» di cui pochi eletti sono in possesso, attraverso la quale è possibile riscrivere tutte le regole fondamentali del vivere civile oltre che del linguaggio e perfino della biologia. In fondo, il progressismo a cui lo stesso Mounk si richiama non era poi troppo diverso: pretendeva di rimodellare il mondo tramite la propria geometrica potenza. I woke fanno lo stesso, solo con metodi diversi. Lo ha rimarcato di recente il filosofo Alfonso Lanzieri. «La filosofia woke è permeata di gnosticismo», ha scritto. «Se per lo gnostico il mondo e quanto contiene sono un immenso inganno costruito da un dio maligno, e la missione dell’iniziato consiste nello smascherare la truffa grazie alla conoscenza liberatrice, analogamente per gli odierni illuminati dell’universo woke, la società tutta è solo matrice di oppressioni visibili e invisibili: si tratta di risvegliarsi a tale verità. […] Tutto ciò si chiama anticosmismo, vale a dire la convinzione che questo mondo sia cattivo, che nello gnosticismo è accompagnato dall’antisomatismo, cioè la convinzione che il corpo sia cattivo: difatti, sia detto di passaggio, nella produzione di Judith Butler e altre voci simili, fa capolino un certo androginismo escatologico. Chiaramente, per l’universo woke, il cosmo fonte di sofferenza e angoscia per l’anima che vi è precipitata, non è più quello cui pensavano gli ellenisti, ma è rappresentato dal mondo forgiato dalla società occidentale, democratica-liberale, capitalistica, maschiocentrica ecc. È questo il mondo da cui evadere». In fondo, ci troviamo di fronte a sostitutivi della religione. La matrice del wokismo è la stessa del marxismo e del liberalismo oggi imperante. È la stessa che ha prodotto la liberazione sessuale e la rivoluzione digitale. Comprenderlo è fondamentale per evitare un errore grave, ovvero il tentativo di sostituire una gnosi con un’altra. Combattere gli illuminati woke in nome della ragione progressista è più che inutile: è dannoso. Ciò che deve preoccupare è il tentativo, comune a tutte queste visioni, di trasformare l’uomo in un dio, attribuendogli il potere di plasmare la realtà a suo piacimento. La storia ci ha insegnato come tutti questi progetti di creazione del paradiso in terra finiscano allo stesso modo: con una poco simpatica gita all’inferno.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/ideologia-woke-sinistra-2669252904.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="dal-leninismo-alla-silicon-valley-il-mito-di-una-elite-che-ci-salvera" data-post-id="2669252904" data-published-at="1727085087" data-use-pagination="False"> «Dal leninismo alla Silicon Valley, il mito di una élite che ci salverà» Giovanni Filoramo è uno dei maggiori storici della religione europei, forte di una imponente bibliografia. Per l’editore Mimesis esce il satgio Le vie del sacro. Modernità e religione, che dedica alcuni robusti capitoli alla gnosi e alle sue declinazioni contemporanee. Lei sostiene che la gnosi sia una forma religiosa molto adatta alla modernità. Per quale motivo? «Semplificando, la forma religiosa della gnosi si contrappone alla fede, è una contrapposizione secolare. Si vede già nel cristianesimo antico: gnosi significa conoscenza e lo gnostico pretende - attraverso vari strumenti - di avere una conoscenza assoluta della verità e questa conoscenza è diversa dalla fede». In che modo? «Il paradigma della fede nella tradizione ebraica, poi ebraico-cristiana, è la figura di Abramo. Il suo Dio dice di sacrificare il figlio e lui è pronto a sacrificare il figlio: non c’è nessuna forma di conoscenza in questo caso, c’è una accettazione. In questo senso succede un po’ come nell’islam, che è più vicino all’ebraismo di quanto possa apparire a prima vista». Quindi c’è una contrapposizione tra fede e conoscenza. «La gnosi è un tipo di conoscenza che, differenziandosi dalla fede, è disponibile a cercare un dialogo con la ragione, trovando delle mediazioni. Si vede già nel Quattrocento e Cinquecento, agli inizi del mondo moderno e poi nelle tradizioni esoteriche». A me pare che la questione essenziale sia la centralità dell’individuo. Lo gnostico si salva da solo tramite una conoscenza segreta, non ha bisogno di altre mediazioni. Questa idea mi sembra molto adatta all’individualismo moderno. «Certo. Qui potrei fare ancora un confronto con la tradizione ebraico-cristiana. Parliamo di Abramo: Abramo è la storia del popolo eletto, non è solo l’individuo Abramo che si confronta con Dio e si riconosce in questo Dio attraverso la fede. Abramo è il capostipite di un popolo, dunque sta in una dimensione comunitaria, collettiva. La gnosi è una forma di religione più individualistica. Ovviamente il concetto di individuo, se pensiamo allo gnosticismo cristiano del secondo o terzo secolo, è radicalmente diverso da quello moderno. Però, certamente, nella storia delle correnti gnostiche la dimensione individuale è decisiva». Al di là dell’aspetto religioso, esiste anche una sorta di approdo politico della gnosi, che è stato approfondito da studiosi come Luciano Pellicani. Esistono secondo lei gnosi politiche? E quali? «Dietro la visione di Pellicani c’è uno studioso, Eric Voegelin, un autore molto interessante, che cercava di rileggere la storia di tutta una serie di tradizioni politiche in chiave gnostica. Per Voegelin la gnosi era un elemento pericoloso. Già del 1938 studiava la religioni politiche e per lui il caso classico era quello del leninismo. In che cosa consisteva l’elemento gnostico? Nell’idea di essere un gruppo di salvati in vita grazie alla chiave politica che, in questo caso, Lenin portava avanti. E, di conseguenza, questo elemento collettivo più che individuale era un elemento fortemente politico. È una lettura interessante: qui è il gruppo che possiede una conoscenza assoluta che può portare alla salvezza, attraverso una determinata idea politica e una determinata lotta». Questo elemento gnostico sembra essere molto presente anche in altri fenomeni. Ad esempio nella cosiddetta rivoluzione tecnologica. A tale riguardo esiste un bel saggio di Erik Davis intitolato Techgnosis, appena ripubblicato in Italia da Nero edizioni. La sua idea è che la rivoluzione tecnologica sia una forma di gnosi, di conoscenza che permette la salvezza attraverso la tecnica. «Davis ripercorre la storia della tecnologia per secoli. Egli trova in questa conoscenza tecnologica una chiave decisiva per dominare il mondo». Lei ha studiato molto la cosiddetta New Age. È suggestivo il fatto che la cosiddetta rivoluzione tecnologica si manifesti proprio nella Silicon Valley, in California, cioè proprio dove la New Age - in fondo una forma di gnosi - è fiorita. «Certamente ci sono degli incroci. Alcune figure fondamentali della rivoluzione tecnologica sono state molto interessate alla mistica orientale, un filone che è centrale nella New Age. Questo è interessante perché la spiritualità orientale - il buddismo, per esempio - si è dimostrato molto aperto all’incontro con la scienza. In Occidente, la tradizione cristiana è stata a lungo in conflitto con la scienza, e la scienza è stata in conflitto con la Chiesa. Le cose sono cambiate solo recentemente, direi dopo il Concilio Vaticano II. La New Age era aperta a una mistica che poteva favorire una lettura in chiave tecnologico-scientifica del rapporto scienza-religione. Abbiamo esempi anche recenti». Quali? «Anthony Levandowski, ex ingegnere di Google, ha fondato una sorta di Chiesa dell’algoritmo. Ma ci sono tante alternative mistiche fondate nella spiritualità orientale che si possono sposare bene con la mentalità moderno-tecnologica. Pensi al Tao della Fisica di Capra, un libro uscito ormai tanti anni fa». Mi pare di capire che al cuore di tutto ci sia l’idea che l’uomo basti a sé stesso, o meglio che egli possa diventare dio. «Questa è la grande revisione dell’umanità, introdotta da Comte due secoli fa, che ritorna continuamente. Ho citato prima Voegelin. Nel suo libro sulle religioni politiche la teoria di fondo è che i totalitarismi - che hanno uno sfondo gnostico per Voegelin negativo - siano religioni dell’uomo. La gnosi è una forma di religione incentrata essenzialmente sull’uomo: l’uomo Dio però, l’uomo divinizzato». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/ideologia-woke-sinistra-2669252904.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="e-qui-la-radice-dellecologismo" data-post-id="2669252904" data-published-at="1727085087" data-use-pagination="False"> «È qui la radice dell’ecologismo» Paolo Riberi ha dedicato gran parte della sua produzione saggistica allo studio dello gnosticismo e della gnosi. Fra i suoi ultimi lavori c'è I profeti dell'apocalisse (Lindau) scritto con Giancarlo Genta, dedicato all'influenza della gnosi sull'ecologismo contemporaneo. Che definizione daresti della gnosi? «Gnosis, in greco antico, significava “conoscenza”. Per la precisione, una conoscenza iniziatica, riservata a un ristretto numero di eletti. Tra il primo e il terzo secolo dopo Cristo, in Medio Oriente fiorirono numerose correnti “gnostiche” cristiane e pagane, che rivendicavano di essere detentrici della gnosis, la conoscenza ultraterrena. Non si trattava, come potremmo pensare oggi, del semplice possesso di un’informazione o di una nozione: la gnosis era una conoscenza salvifica, una sorta di “terzo occhio” che consentiva una comunione diretta e immediata con il regno divino. La gnosis non era un semplice bagaglio di informazioni ed esperienze, bensì una condizione acquisita e permanente: lo gnostico beneficiava della capacità di vedere oltre il confine del mondo, e pertanto possedeva una conoscenza assoluta che sorgeva dal suo legame diretto con Dio, senza intermediari». In che modo la gnosi passa dal piano religioso a quello politico? «A occuparsi di gnosi e di gnostici sono gli storici delle religioni, quindi il fenomeno viene fisiologicamente classificato come una realtà spirituale e filosofica. In realtà, la gnosi ha sempre avuto anche una dimensione politica molto marcata, fin dai primi inizi: le sette gnostiche nascono in aperto conflitto con uno status quo che non condividono, e che intendono sovvertire. Come ci confermano le fonti storiche, gli gnostici sono eredi diretti delle frange giudaiche radicali che si erano ribellate all’autorità di Roma, fallendo nel loro intento. Venuto meno il terreno dell’affermazione politico-militare, e vedendosi precluse le vie democratiche, gli gnostici inaugurano un’altra via: quella della verità rivelata, che ha valore di per sé a prescindere dai numeri. Per gli gnostici, essere in minoranza è fisiologico: la stragrande maggioranza del genere umano è considerata “dormiente”, un po’ come i prigionieri della caverna di Platone». Quali sono esempi di movimenti politici gnostici contemporanei? «Ne I profeti dell’apocalisse io e Giancarlo Genta proviamo a tracciare una mappa della resurrezione contemporanea di questi fenomeni, ritornati quantomai attuali. Oggi ovviamente il terreno non è più ammantato di spiritualità, ma le forme restano le medesime: si pensi al mondo della cosiddetta cultura woke, o alla cancel culture. Certo, l’idea di politically correct esiste da decenni, ma queste nuove ideologie hanno riformulato la questione in termini marcatamente gnostici, assolutizzandola. Il mondo del cinema e dello spettacolo sono emblematici: come si determina se un individuo debba essere o meno moralmente “censurato”, o se un prodotto di intrattenimento sia “corretto” o meno? A decidere non sono più i giudici o gli esperti della settima arte, bensì i guru della cultura woke: alla lettera, i “risvegliati” del nuovo millennio. Per costoro, poco importa se il resto del mondo è “dormiente”: è il fascino carismatico e autenticamente profetico di influencer e opinion maker a dettare l’agenda politica, a prescindere da ogni contenuto. È il tema su cui si sofferma anche la serie-evento Disclaimer di Alfonso Cuaron, di prossima uscita su Apple Tv+: quand’è che una “verità” costruita a tavolino diventa “la Verità”? Per me e Giancarlo Genta, quando entra di mezzo il carisma dei moderni “profeti dell’Apocalisse”. Nel nostro libro proviamo a offrire una confutazione ragionata delle loro tesi più ricorrenti, che rinnegano completamente l’identità dell’Occidente fin dalle sue radici più antiche». Il vostro libro è dedicato soprattutto all’ambientalismo. Esiste una gnosi ecologista? Che caratteristiche ha? «Mai come nell’ambito dell’ecologismo - fenomeno distante anni luce dalla sana ecologia - si può percepire in maniera evidente l’affermarsi delle dinamiche neo-gnostiche. In un contesto fortemente secolarizzato, dove Dio è scomparso dallo scenario, il suo posto viene preso dalla Natura: un’entità impersonale, aliena e del tutto idealizzata. Non è questione di evitare gli eccessi: per la cosiddetta Deep Ecology, la Natura è un bene assoluto, un valore da tutelare a prescindere, di fronte al quale qualsiasi diritto del genere umano deve cedere il passo. Gli antichi gnostici contestavano la realtà materiale, ritenendola uno specchio distorto del mondo reale, ultraterreno. I nuovi gnostici fanno altrettanto, e nel mirino hanno il cosiddetto Antropocene: al suo posto, deve sorgere “un’età della terra”, lo Cthulucene, in cui l’uomo dovrà limitarsi a essere grato di sopravvivere, cercando di ridurre a zero il proprio “impatto”. Dall’antispecismo si passa così a un vero e proprio antiumanesimo: non soltanto l’uomo non è più il centro dell’universo, ma diviene un microbo la cui sopravvivenza non è assicurata, e non ha alcuna importanza. Una prospettiva inquietante, che cancella con un colpo di spugna l’intera storia occidentale».
«Il governo belga si sta opponendo all’utilizzo dei fondi russi per timore di dover rimborsare l’intero importo qualora la Russia tentasse di recuperare il denaro», ha riferito Politico, per poi aggiungere: «Ma, a complicare ulteriormente la situazione, altri quattro Paesi - Italia, Malta, Bulgaria e Repubblica Ceca - hanno appoggiato la richiesta del Belgio di valutare finanziamenti alternativi per l’Ucraina, come il debito congiunto». A favore dell’uso dei beni russi congelati si è invece detta la Germania, che si è al contempo espressa contro il ricorso alla condivisione del debito. «Non illudiamoci. Se non ci riusciremo, la capacità di agire dell’Unione europea sarà gravemente compromessa per anni, se non per un periodo più lungo», ha dichiarato lunedì Friedrich Merz, riferendosi all’uso degli asset russi. Più sfumata appare invece la posizione della Francia, che non sembrerebbe del tutto ostile all’idea di ricorrere agli Eurobond. Nel frattempo, ieri Reuters ha riferito che i parlamentari italiani di maggioranza hanno stilato un documento, in cui si esorta il governo «a chiedere alla Commissione europea di condurre un esame approfondito degli aspetti legali e finanziari di tutte le opzioni di finanziamento sul tavolo». Si tratta di una risoluzione che dovrebbe essere votata nella giornata di oggi.
Come che sia, un diplomatico dell’Ue ha fatto sapere a Politico che sulla questione degli asset russi «non ci sarà alcun accordo fino al Consiglio europeo», che prenderà il via domani. «La Commissione europea ha presentato, tramite testo legislativo, due opzioni. Una era l’opzione per le riparazioni, che può essere attuata tramite la proposta legislativa presentata dalla Commissione a maggioranza qualificata. L’altra è l’opzione di un prestito, utilizzando come garanzia il margine di manovra del bilancio europeo. Questa opzione richiede l’unanimità», ha dichiarato un alto funzionario europeo. «È stato molto chiaro fin dal primo dibattito svoltosi tra gli ambasciatori che non c’era l’unanimità per quella seconda opzione, che è stata quindi messa da parte per concentrarsi sul prestito di riparazione. Non è un segreto che il prestito di riparazione sia la soluzione preferita da una considerevole maggioranza degli Stati membri», ha continuato. «Spetta ai leader decidere, ma credo che tutti i leader siano ben consapevoli della posta in gioco sproporzionata del Belgio in una soluzione basata sul prestito di riparazione. E questo viene preso in considerazione da tutti i leader e certamente il presidente del Consiglio europeo ne è ben consapevole», ha affermato un’altra fonte dell’Ue, che ha proseguito: «Tra l’altro, il negoziato sul prestito di riparazione si è svolto principalmente e soprattutto in base alle preoccupazioni del Belgio. E penso che questo sia anche un segno che tutti intorno al tavolo - gli Stati membri e certamente i leader - riconoscono la posta in gioco per il Belgio. Quindi il negoziato è in gran parte incentrato sulla condivisione di qualsiasi rischio o costo derivante da questa soluzione con il Belgio». Nell’Ue, se non panico, c’è «un senso di urgenza», come hanno detto ieri alcune fonti di Bruxelles. «Una decisione va presa».
Ricordiamo che i beni russi congelati sono detenuti da Euroclear Bank, che ha sede in Belgio. E proprio contro questo istituto ha fatto recentemente causa, davanti al Tribunale commerciale di Mosca, la banca centrale russa, chiedendo 230 miliardi di dollari di danni. «Se la banca centrale vincesse, potrebbe chiedere l’esecuzione forzata degli asset di Euroclear in altre giurisdizioni, in particolare quelle considerate ’amichevoli’ dalla Russia», ha sottolineato Reuters l’altro ieri. «Alcuni gestori di fondi avvertono che un’eventuale decisione di utilizzare i beni congelati aumenterebbe i rischi politici legati al possesso di asset in euro e metterebbe persino in dubbio il loro status di rifugio globale», aveva inoltre riportato, dieci giorni fa, il Financial Times. D’altronde, secondo il sito australiano The Conversation, «se gli operatori di mercato temessero sequestri di beni per motivi politici, potrebbero trasferire le proprie attività in giurisdizioni ritenute più sicure».
Insomma, la questione è insidiosa sul fronte tecnico. E poi emerge il nodo politico. Per l’ennesima volta, ci troviamo di fronte a un’Unione europea spaccata. Il dossier degli asset è scivoloso. Ed è tutto da dimostrare che il Consiglio europeo riuscirà a trovare una quadra su di esso.
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Da sinistra: Friedrich Merz, Keir Starmer, Volodymyr Zelensky ed Emmanuel Macron (Ansa)
Mentre il summit europeo di Berlino sulla pace in Ucraina è stato celebrato come un successo da chi ne ha preso parte, le proposte contenute nella dichiarazione congiunta dei leader dell’Europa sembrano fatte per essere rifiutate. E Mosca ha già iniziato a manifestare i primi segnali di chiusura.
A meno di 24 ore di distanza dal vertice, il Cremlino è convinto che la partecipazione degli europei alle trattative «non promette bene». E anche di fronte alle dichiarazioni del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che intravede la conclusione del conflitto, Mosca resta cauta. Il tycoon, dopo aver parlato lunedì sera con i primi ministri e i capi di Stato europei, aveva subito dichiarato: «Siamo più vicini che mai alla fine della guerra», aggiungendo anche di essere stato in contatto «di recente con Vladimir Putin». A smentire però la telefonata è stato il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov: i due leader non si sono più sentiti dopo il 16 ottobre. Il portavoce ha anche spiegato che Mosca «non ha ricevuto» alcun segnale dopo i round di negoziati a Berlino, e anche per questo dovrà valutare «quello che sarà il risultato dei negoziati che gli americani conducono con gli ucraini, con la partecipazione degli europei». Che Mosca non abbia ancora compreso l’esito dei summit è evidente anche dalle parole del viceministro degli Esteri russo, Sergej Ryabkov: «Non abbiamo idea di cosa succeda lì». Stando a quanto rivelato dal presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, si tratterebbe di una questione di giorni: i piani di pace, che dovrebbero essere finalizzati a breve, saranno poi presentati alla Russia dagli inviati americani.
Ma il niet russo è già arrivato in merito all’impegno europeo per «una forza multinazionale Ucraina a guida europea, composta dai contributi delle nazioni disponibili nell’ambito della coalizione dei Volenterosi e sostenuta dagli Stati Uniti». La posizione di Mosca era già nota, ma ieri il viceministro degli Esteri russo in un’intervista ad Abc News, ha ribadito: «Non sottoscriveremo, accetteremo o saremo nemmeno soddisfatti di alcuna presenza di truppe Nato sul territorio ucraino». Lo stesso rifiuto si applica anche qualora la forza multinazionale fosse parte di una garanzia di sicurezza o della Coalizione dei volenterosi. A intervenire in merito è stato anche Peskov che, affermando che Mosca «non ha visto alcun testo» sulla proposta europea della forza multinazionale, ha precisato: «La nostra posizione è ben nota, coerente e trasparente ed è chiara agli americani».
A ciò si aggiunge il grattacapo dei territori, con nessuna delle due parti che è disposta a cedere. Zelensky, a margine del vertice, ha ripetuto che «l’Ucraina non riconoscerà il Donbass come territorio russo, né de jure né de facto». L’impegno di Kiev è quello di continuare a «discuterne nonostante tutto». Il presidente ucraino pare quindi non prendere ancora sul serio le parole di Trump, che ha confermato che «il territorio del Donbass è già perso» per l’Ucraina. Dall’altra parte, anche la posizione russa resta immutata: Ryabkov ha detto che Mosca non scenderà «a compromessi» su Donetsk, Lugansk, Zaporizhzhia, Kherson e Crimea. Ed è anche in quest’ottica, con i soldati russi che continuano ad avanzare, che il Cremlino ha rifiutato la tregua natalizia avanzata dal cancelliere tedesco, Friedrich Merz. Peskov ha infatti sottolineato: «Vogliamo la pace, non una tregua che dia sollievo agli ucraini e permetta loro di prepararsi a continuare la guerra».
Un altro tassello complicato riguarda Kiev e l’Ue, anche se non dalla prospettiva russa. Nell’ultimo punto della dichiarazione congiunta dei leader europei si afferma: «Il fermo sostegno all’adesione dell’Ucraina all’Unione europea». Ma da parte italiana emergono alcune perplessità. Il ministro della Difesa, Guido Crosetto, ha osservato che ritiene «difficile» l’ingresso dell’Ucraina sia nella Nato sia nell’Ue «non per motivi politici ma agricoli, conoscendo gli agricoltori polacchi, francesi, italiani e tedeschi». A ribadire la sua contrarietà è stato poi il premier ungherese, Viktor Orbàn: «Il popolo ungherese ha detto che non vuole stare in un’Unione con l’Ucraina». Tornando alla linea dell’Italia, riguardo alle garanzie di sicurezza simili all’articolo 5 della Nato di cui «gli americani ne saranno parte», il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha ricordato che si tratta della «proposta italiana» che è stata «accolta» perché «di buon senso». Ma ad essere accolte, sul fronte opposto, sono state anche le dichiarazioni inerenti al riarmo del vicepremier, Matteo Salvini: «Se Hitler e Napoleone non sono riusciti a mettere in ginocchio Mosca con le loro campagne in Russia, è improbabile che Kallas, Macron, Starmer e Merz abbiano successo». Per la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova «il paragone è preciso, la conclusione è indiscutibile».
Nato e referendum sul Donbass: la guerra poteva finire già nel 2022
Il nostro articolo del 27 febbraio 2022 concludeva con queste parole: «Forse si potrebbe auspicare che la Nato dichiari di rinunciare, una volta per tutte, ad «invitare» l’Ucraina a farvi parte; e che le regioni ucraine oggetto del contendere siano sottoposte a nuovo referendum». Dopo quasi quattro anni di guerra, leggiamo che «Volodymyr Zelensky apre: no a Kiev nella Nato».
Inoltre, a chi gli chiedeva se egli sarebbe stato disponibile a concedere territori come parte di un accordo di pace, Zelensky rispondeva che «la cosa non può essere decisa unilateralmente dal governo o dagli alleati, ma deve avere un mandato popolare, cioè il popolo ucraino deve essere coinvolto tramite un qualche processo democratico, nel formato di elezioni o di referendum». Che il nostro auspicio di quattro anni fa coincida con le conclusioni cui sarebbe alla fine pervenuto Zelensky dopo quattro anni, è, a mio parere, l’ulteriore prova della inadeguatezza di un uomo chiamato a gestire una situazione più grande, molto più grande, di lui. E non si tratta solo di inadeguatezza, ma anche di irresponsabilità. Perché le cose - se vogliamo capirle - dobbiamo dirle tutte. Dobbiamo quindi dire che già il 15 marzo 2022 Zelensky dichiarava: «Abbiamo capito che l’Ucraina non diventerà un membro della Nato, e dobbiamo riconoscere che non ci sono porte aperte». Insomma, il dover abbandonare ogni velleità di aderire alla Nato, più che una apertura di questi giorni, era una consapevolezza acquisita già quattro anni fa. Il che impone la cogente domanda: perché ha continuato la guerra e non si arrese quel 15 marzo 2022? Prima o poi, se non da un tribunale, sicuramente dalla Storia, questa domanda gli verrà posta.
Un’altra domanda che gli si dovrà porre è da dove gli è mai venuta l’idea di una Nato dalle «porte aperte». L’art. 10 del Patto Atlantico prevede che i membri «possono, con accordo unanime, invitare qualsiasi altro Stato europeo ad aderire al Trattato»; cosicché per far parte della Nato bisogna 1) essere uno Stato europeo, 2) essere invitati da chi membro lo è già, e 3) essere invitati all’unanimità. È vero che, subito dopo la fine della Guerra fredda, sebbene ci fosse stata da parte dei vertici della Nato una promessa verbale di non espansione a est della Germania, quegli stessi vertici si preoccuparono di far sapere al mondo intero che non ci sarebbero state preclusioni di principio per l’allargamento della Nato. Tuttavia, l’articolo 10 del Trattato è rimasto immutato. Insomma, Zelensky mai poteva allora, né può ora accampare diritti in ordine alla adesione dell’Ucraina alla Nato. E fa sorridere che codesta volontà di adesione sia stata scritta, addirittura, nella Costituzione ucraina, quando la cosa non dipende dalla volontà dell’Ucraina. E fa sorridere ancora di più, perché questa volontà fu addirittura un emendamento del 2019 alla Costituzione del 1996 che invece garantiva l’Ucraina quale Stato militarmente neutrale.
Anche l’altra recente affermazione di Zelensky sul possibile referendum in ordine alla «cessione» dei territori ripropone la sprovvedutezza dell’uomo. Quattro anni fa l’idea poteva sorgere spontanea. E, anzi, doveva sorgere già nel 2014. Allora, in seguito allo spodestamento del presidente Viktor Yanukovich, legittimamente eletto anche col forte sostegno dei voti dei cittadini di Crimea e del Donbass, questi decidevano di separarsi dal governo centrale con un referendum. Il referendum era, ovviamente, illegittimo; ma poneva un problema politico che in un sistema sedicente democratico avrebbe dovuto risolversi in qualche modo. Ma, anziché invocare il principio, sancito dalla Carta Onu, dell’autodeterminazione dei popoli e far ripetere i referendum sotto il controllo internazionale, la comunità internazionale girava le spalle al Donbass che si dichiarava indipendente; e sanzionava la Russia cui la Crimea si era confederata.
L’impressione è che, se fosse assennato, a Zelensky converrebbe mollare la Ue e affidarsi esclusivamente a Donald Trump. Se da un lato questi vorrebbe far finire quanto prima la guerra, e pertanto appare disponibile ad accontentare le pretese di Putin, dall’altro ha interesse a minimizzarne i vantaggi, cosa che indirettamente significa anche minimizzare gli svantaggi per l’Ucraina. Le cui disgrazie sono anche in parte dovute a quel «f**k the Eu» pronunciato - da Victoria Nuland, nel 2014 responsabile americana agli affari euroasiatici - a detrimento dell’Ucraina. Forse è venuto il momento per Zelensky di pronunciare la stessa invettiva a vantaggio del proprio Paese.
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Il viceministro degli Esteri israeliano Sharren Haskel (MFA/Mordehai Gordon)
Viceministro, la pace sembra essere ancora molto lontana in Medioriente.
«La situazione è particolarmente complessa e stiamo lavorando in patria e all’estero per garantire la sicurezza dei cittadini israeliani e di tutti gli ebrei. A Gaza, Hamas non vuole consegnare le armi, bloccando l’inizio della Fase 2, ma la nostra pazienza ha un limite. Nella Striscia serve sicurezza e democrazia, due cose che Hamas combatte da sempre. Io personalmente non ho nessuna fiducia negli attuali leader palestinesi: molti di loro fanno dichiarazioni in arabo contro Israele e poi in inglese si fingono democratici. Glorificano i terroristi e fomentano la violenza. E così fanno solo il male dei palestinesi».
Il presidente statunitense, Donald Trump, vuole inserire anche l’Italia nel cosiddetto Consiglio di pace per Gaza.
«Siamo assolutamente favorevoli a coinvolgere l’Italia. Abbiamo grande fiducia sia nei militari che nei politici italiani. Il governo di Roma si sta adoperando per raggiungere la pace e io personalmente conosco il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, e ne apprezzo la grande capacità diplomatica. Siamo però molto delusi da alcune nazioni europee come la Spagna e l’Irlanda, che hanno deciso di riconoscere la Palestina. Questo riconoscimento non è niente, non esiste e non ha senso che esista. Si tratta di un gravissimo errore politico, non fanno altro che riconoscere Hamas e i suoi crimini. Dopo aver rapito, stuprato e ucciso civili innocenti, i terroristi ne escono rafforzati perché vengono premiati da questi Paesi».
Anche il confine settentrionale resta problematico.
«Non ci fidiamo assolutamente del nuovo regime in Siria. Abu Muhamnad Al Jolani, lo chiamo ancora così perché resta un pericoloso jihadista che ha buttato la tunica e indossato la cravatta, sta uccidendo le minoranze, dagli alawiti ai cristiani, ma soprattutto i drusi che Israele ha deciso di difendere. I drusi israeliani sono parte integrante della nostra società, servono nell’Idf come soldati e sono cittadini a tutti gli effetti. I loro fratelli siriani vengono massacrati solo perché sono una minoranza e noi non lo permetteremo. Hezbollah rimane un pericolo per Israele anche se la sua forza è diminuita, ma grazie ai crimini che commettono con il traffico di droga e armi dal Sud America presto torneranno a essere un pericolo. Stiamo facendo pressioni sul governo libanese perché acceleri il disarmo di Hezbollah, che ancora non è stato fatto nonostante sia ufficialmente iniziato ad agosto. Il presidente del Libano, Joseph Aoun, ha promesso che l’esercito nazionale avrà il monopolio della forza, ma deve ancora dimostrarlo».
L’attentato contro la comunità ebraica a Bondi Beach, in Australia, ha portato l’attenzione ai massimi livelli e l’ambasciatore d’Israele a Roma, Jonathan Peled, ha dichiarato che gli ebrei non si sentono sicuri neanche in Italia.
«Con il governo di Roma c’è una stretta e proficua collaborazione e sappiamo che cerca di garantire sempre la sicurezza degli ebrei in Italia. Ma le parole del nostro ambasciatore derivano dalle manifestazioni che ci sono state nel vostro Paese, dove abbiamo visto molti episodi di antisemitismo, che vanno condannati con maggiore determinazione. Il sostegno alla causa della Palestina è soltanto una scusa per attaccarci e per questo motivo serve particolare attenzione per gli ebrei in tutto il mondo. Israele combatte molti nemici, ma il più pericoloso rimane il pregiudizio nei nostri confronti, che nella storia ha causato tante tragedie».
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Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa podcast del 17 dicembre con Flaminia Camilletti