
Reti colabrodo: sprechiamo 110.000 litri al secondo. Le infrastrutture sono vecchie, ma le partecipate per ammodernarle investono appena 32 euro l'anno per abitante, meno della metà della media europea. Le tariffe aumentano soltanto per distribuire utili ai soci.In Italia non si paga l'acqua, ma il servizio che la eroga. In bolletta finiscono i costi della distribuzione e, soprattutto, quelli della dispersione idrica. Quante volte vi siete sentiti dire che i rubinetti sono a secco per colpa dei cambiamenti climatici che prosciugano i nostri fiumi e rendono le piogge un evento sempre più raro? Certo, quello della desertificazione è un problema reale: nell'inverno scorso in alcune zone d'Italia si è registrato il 50% delle piogge in meno rispetto alla media del periodo. Eppure, mentre ce ne stiamo con la testa all'insù in attesa che arrivi la pioggia, l'acqua, quella che c'è già e che scorre nei nostri acquedotti, ce la perdiamo per strada. il sahara a campobassoLa stima, fornita dalla Federazione nazionale dei Verdi, fa una certa impressione: 110.000 litri di acqua potabile al secondo si perdono per via delle reti colabrodo. In sostanza, ogni anno 3,5 miliardi di metri cubi non arrivano a destinazione. Pensate, si perde per strada una quantità d'acqua che potrebbe soddisfare 40 milioni di persone. E questo avviene in un Paese dove 2,6 milioni di famiglie hanno un'erogazione idrica razionata o irregolare. Ci sono zone d'Italia in cui l'acqua arriva ogni 15 giorni; in altre, per averne un filo bisogna comprarla dalle autobotti e metterla sui tetti. Le tubature sono così vecchie che ogni 100 litri immessi se ne perdono quasi 40. Secondo Cittadinanzattiva, che ha elaborato i dati forniti da Legambiente, c'è chi riesce a fare addirittura peggio: in Molise, la dispersione idrica arriva al 68%, quasi il doppio rispetto alla media nazionale. In sostanza, a Campobasso l'acqua in casa è un miraggio, neanche fossimo nel profondo Sahara. E anche in Sardegna il servizio, è proprio il caso di dirlo, fa acqua da tutte le parti. Tutte le province dell'isola superano abbondantemente le percentuali nazionali: a Nuoro si disperde il 65% di quello che passa nei tubi, a Oristano il 62%, a Sassari il 58%. E se questi numeri sono già abbastanza impietosi, nulla a confronto con quel che accade a Vibo Valentia: qui si perde il 71% dell'acqua che attraversa le condutture. Peggio, in Italia, riesce a fare solo Frosinone, dove ne sparisce il 75%. zero stanziamenti«La Ciociaria è una zona ricca d'acqua», spiega alla Verità Severo Lutrario, per anni referente provinciale del Forum italiano dei movimenti per l'acqua. «Il livello di dispersione è lo stesso del 1999: se solo il 25% dell'acqua raggiunge i contatori significa che gli investimenti non sono funzionali alla soluzione del problema». Reti vecchie e investimenti insufficienti, se non inesistenti. Il problema dell'acqua in Italia si trascina da anni: il 60% delle infrastrutture è stato messo in posa oltre 30 anni fa, percentuale che sale al 70% nei grandi centri urbani. Eppure, ce ne accorgiamo solo di fronte all'emergenza. I rubinetti di Roma restano a secco? Fioccano polemiche e discussioni. Scatta l'allarme siccità? Corrono veloci le raccomandazioni per razionare l'acqua. E quando è il momento di pianificare investimenti per prevenire i rischi, che si fa? Poco, o nulla. Sapete quanto si investe per rimodernare i 500.000 chilometri di rete? Appena 32 euro l'anno per abitante, meno della metà rispetto agli altri Paesi europei. I dati di Utilitalia, la Federazione che riunisce le aziende operanti nell'idrico, parlano chiaro: la vicina Francia investe 88 euro per abitante, il Regno Unito 102, la Danimarca 129. Per oltre 20 anni la quota degli investimenti destinati alla rete idrica non ha superato i 500 milioni l'anno. Oggi, con la competenza in mano all'Autorità di regolazione dell'energia, reti e ambiente (Arera), le stime sono leggermente migliorate: dal 2012 la spesa complessiva annua è di 2 miliardi di euro. Eppure non basta: per avere una rete efficiente, di miliardi ne servirebbero almeno 5. È stato calcolato che, con questi ritmi, ci vorranno 250 anni prima di rinnovare l'intera rete. Nel frattempo, i nuovi pezzi saranno già dei cimeli e le tariffe saranno arrivate alle stelle. Se è vero, infatti, che in Italia l'acqua è meno cara rispetto agli altri paesi europei, è altrettanto vero che negli ultimi anni i costi del servizio idrico sono cresciuti a dismisura, in proporzione molto più rispetto a rifiuti, gas e luce. Dal 2011 a oggi, un balzo del 46,9%. Se qualche anno fa le famiglie italiane sostenevano una spesa media di 290 euro, oggi per avere l'acqua in casa la bolletta è molto più salata: in media, il costo si aggira intorno ai 426 euro l'anno. E se vi sembra già abbastanza, sappiate che ci sono zone d'Italia in cui la situazione è addirittura peggiore. e noi paghiamoA Enna, per esempio, il costo annuo è di 715 euro, 12 volte in più rispetto a Milano e addirittura tre volte in più rispetto a quanto si spende a Catania, che da Enna dista poco più di un'ora di macchina. Ma il record spetta alla Toscana: qui, la spesa media non scende sotto i 676 euro. Nella classifica delle 10 città italiane in cui si spende di più, 8 sono toscane. A Grosseto, l'acqua è un salasso: 753 euro di spesa l'anno. Qui, la depurazione e la fognatura arrivano a costare fino a 9 volte in più rispetto ad altre zone d'Italia, come Trento. In compenso, direte voi, il servizio sarà efficientissimo. Macché: in Maremma si perde più della metà dell'acqua che viene immessa nei tubi. E anche a Firenze, non si scherza mica: nel 2018, il costo del servizio per una famiglia media ha raggiunto i 710 euro, il 5% in più rispetto al 2017. E allora, vi chiederete: dove finiscono tutti questi soldi? Nel piano di sviluppo della rete? Non proprio. In una strategia di ammodernamento delle tubature? Sbagliato. Abbiamo ancora in mente le immagini del Lungarno di Firenze che collassa su sé stesso, inghiottendo asfalto e auto in sosta. Era il maggio del 2016: il Comune accusò Publiacqua, la società che gestisce la rete, che a sua volte respinse ogni addebito. Per quella vicenda, stando alle parole con cui il gip Francesco Bagnai ha archiviato l'inchiesta, è impossibile individuare responsabilità penali. Tuttavia, si legge nel provvedimento, a provocare il collasso sarebbe stata con molta probabilità «una consistente infiltrazione d'acqua determinata dalla rottura di una vecchia tubatura in ghisa risalente agli anni Cinquanta». Dopo un disastro del genere, ci si aspetterebbe almeno che il gestore provveda a un importante piano di rinnovamento. E invece, leggendo le relazioni annuali dell'Autorità idrica toscana (Ait), si scopre che la percentuale di investimento è addirittura diminuita. Nel 2017, Publiacqua ha realizzato investimenti per 78 milioni di euro, il 14% in meno rispetto a quanto aveva programmato. Per la sostituzione massiva delle reti idriche sono state impiegate le briciole: appena 1,5 milioni di euro, l'1,6% del totale. «Negli ultimi 10 anni», spiega alla Verità Rosella Michelotti, referente regionale del Forum italiano dei movimenti per l'acqua, «la somma degli investimenti non realizzati sfiora i 167 milioni di euro. Nel 2017, una buona parte dei soldi destinati al Fondo nuovi investimenti (Foni) ha contribuito in maniera rilevante alla distribuzione degli utili». logica privatisticaDi utile, in effetti, Publiacqua ne ha generato parecchio lo scorso anno: più di 24 milioni di euro, il 75% dei quali è stato distribuito tra i soci. Considerato che il 40% del capitale della società è in mano a Acque Blu fiorentine Spa, di cui fanno parte aziende come Acea Spa, la multinazionale Suez e Monte dei Paschi Spa, si fa presto a concludere che i soldi dei cittadini hanno contribuito anche a gonfiare le tasche dei signori dell'acqua. «La gestione della rete è sì pubblica, ma segue una logica prettamente privatistica», ragionano ancora alcuni membri del Forum dei movimenti per l'acqua. «Lo scopo principale è l'utile e dividerlo tra i soci». Insomma, il bene è pubblico, il guadagno è privato, nonostante il referendum del 2011, con il quale gli italiani si sono dichiarati contrati alla privatizzazione. il caso sicilianoIn Italia, capita addirittura che l'acqua sia affidata ai privati non una, ma ben due volte. In Sicilia, per esempio, le sorgenti sono proprietà di Siciliacque Spa, partecipata dalla Regione al 25%, ma di fatto in mano ai privati di Idrosicilia Spa, che ne detengono il 75%. La convenzione stipulata nel 2004 con il governo Cuffaro le permette di gestire la rete fino al 2044. Il gioco funziona così: Siciliacque versa una quota annuale alla Regione, in cambio gestisce acquedotti, invasi, pozzi come fossero suoi. E vende l'acqua all'ingrosso a un prezzo che può arrivare fino a 10 volte quello pagato per comprarla alla fonte. E chi sono gli acquirenti? Altri privati, ovviamente. Che a loro volta rivendono agli utenti: nel doppio passaggio, il prezzo può pure triplicare. «Le tariffe», ci spiegano dalla Regione, «sono decise dall'autorità pubblica e devono coprire i costi del servizio». Certo, anche se il servizio non può dirsi propriamente efficiente: sull'isola, ogni 100 litri di acqua immessi nella rete, ne spariscono oltre 40. E allora, per supplire alla dispersione, si può arrivare ad acquistare fino al doppio dell'acqua necessaria. Con la conseguenza, poi, che i costi finiscano per essere scaricati in bolletta. Facile, non vi pare? Tenetelo a mente quando sentirete dire che l'acqua in Italia è un problema. Lo è, certamente, ma è anche un ottimo affare.
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Nella sua prima intervista, il Papa si conferma non etichettabile: parla di disuguaglianze e cita l’esempio di Musk, ma per rimarcare come la perdita del senso della vita porti all’idolatria del denaro. E chiarisce: il sinodo non deve diventare il parlamento del clero.