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2019-01-04
I sindaci che violano la legge sugli immigrati rischiano la rimozione
Ansa
Da Milano a Palermo, passando per Napoli, la rivolta dei sindaci nei confronti del decreto sicurezza infiamma questo gelido inizio d'anno. La polemica tra i primi cittadini e il ministro dell'Interno, Matteo Salvini, è ben lungi dal placarsi e rischia di trasformare l'iniziativa in un inedito, quanto potenzialmente esplosivo, conflitto istituzionale. Il capofila della rivolta è il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, che mercoledì con una decisione unilaterale ha dato disposizione agli uffici comunali di continuare a concedere l'iscrizione all'anagrafe ai cittadini con permesso umanitario scaduto. Il decreto «costituisce un esempio di provvedimento disumano e criminogeno», ha dichiarato Orlando ai giornalisti, che «eliminando la protezione umanitaria toglie ogni residuo di comprensione del dramma delle persone che sono i migranti». Motivando la sua scelta, il primo cittadino di Palermo ha spiegato che non si tratta «né di protesta, né di disubbidienza, né di obiezione di coscienza: ho assolto alle mie funzioni istituzionali di sindaco».
Secondo della fila è Luigi De Magistris, sindaco di Napoli, che prima ha spiegato che nella sua città si applicano «solo in maniera conforme alla Costituzione» e poi ha annunciato la volontà di aprire il porto partenopeo all'attracco della Sea Watch 3, la nave che da giorni erra nel Mediterrano con 32 migranti a bordo: «Mi auguro che questa barca si avvicini al porto di Napoli», ha dichiarato De Magistris, «sarò il primo a guidare le azioni di salvataggio». Piccolo dettaglio: da ben 48 ore l'imbarcazione ha ricevuto riparo e assistenza da parte di Malta nelle proprie acque territoriali.
Da segnalare le adesioni del fiorentino Dario Nardella («come Comune ci prenderemo l'impegno di non lasciare nessuno in mezzo alla strada»), del parmigiano Federico Pizzarotti («il decreto provoca problemi alle città») e del milanese Beppe Sala («Salvini riveda il decreto»). Nel corso della giornata di ieri si sono succedute a vario titolo dichiarazioni a sostegno della proposta da parte, tra gli altri, di Giuseppe Falcomatà (Reggio Calabria, Pd), Adriano Zuccalà (Pomezia, M5s), Marco Alessandrini (Pescara, Pd), Nicola Sanna (Sassari, Pd), Massimo Zedda (Cagliari, ex Sel). La protesta viene cavalcata in modo particolare dal Pd, come dimostrano le manifestazioni di solidarietà da parte di Nicola Zingaretti e Maurizio Martina. Dal momento che il decreto sicurezza è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 4 ottobre scorso, viene da chiedersi tuttavia come mai la questione sia stata sollevata solo dopo tre mesi dall'entrata in vigore della legge. Non mancano, però, sindaci critici con i colleghi riottosi: secondo Guido Castelli (Ascoli Piceno, Forza Italia), i ribelli «sbagliano, il decreto Salvini non è criminogeno», mentre Alessandro Canelli (Novara, Lega) considera la legge «uno strumento fondamentale per il controllo del territorio e della sicurezza dei cittadini». Controcorrente anche il sindaco di Benevento, Clemente Mastella, che pur giudicando negativamente il provvedimento dichiara di non condividere la scelta di Orlando e dei suoi seguaci. Al fianco dei sindaci si è invece schierata l'Anci, con la presidente Chiara Nespolo che ha dichiarato «coraggiosa» la decisione di non dare attuazione ad alcuni contenuti del decreto. La reazione del ministro Salvini all'insurrezione delle fasce tricolori non si è fatta attendere: «Col Pd caos e clandestini, con la Lega ordine e rispetto. Certi sindaci rimpiangono i bei tempi andati sull'immigrazione, ma anche per loro è finita la pacchia», ha scritto il vicepremier su Twitter. «Se c'è qualche sindaco che non è d'accordo si dimetta», ha poi dichiarato in diretta Facebook. Per l'altro vicepremier, Luigi Di Maio, l'insurrezione dei sindaci è «solo campagna elettorale». E rischia di avere gravi conseguenze, e non solo sul piano dei rapporti istituzionali. Se per Salvini i ribelli «ne risponderanno personalmente, legalmente, penalmente e civilmente perché è una legge dello Stato che mette ordine e regole», per il ministro della Pubblica amministrazione, Giulia Bongiorno, «le leggi, piacciano o no, vanno applicate, non può esistere il fai da te». Duro anche il premier Giuseppe Conte, che pur aprendo a un incontro con l'Anci bolla come «inaccettabili le posizioni degli amministratori che hanno pubblicamente dichiarato che non intendono applicare una legge dello Stato». A prescindere dall'eventuale giudizio di incostituzionalità sulla legge, i riottosi rischiano denunce per abuso in atti d'ufficio e - nei casi più gravi - la rimozione.
Nessun razzismo. Via permessi facili e soldi alle coop
Soldi, propaganda e demagogia: la nuova Spd all'italiana, quel «partito dei sindaci ribelli» che sta cercando di mettere i bastoni tra le ruote al governo, boicottando il decreto sicurezza, nasconde - dietro i proclami buonisti - un bieco interesse politico e una ancora più bieca volontà di difendere il sistema dell'accoglienza così come si è strutturato negli ultimi anni, ovvero con una pioggia di soldi nelle casse di associazioni, enti e cooperative sociali sempre e soltanto politicamente vicini alla sinistra.
Non si spiega altrimenti come sia possibile che questi sindaci possano pensare di boicottare un decreto che va incontro alla richiesta di sicurezza che arriva della popolazione che loro stessi amministrano. Considerata la valanga di imprecisioni, bufale e leggende che circolano sugli effetti del decreto, è bene ricordarne i punti salienti.
giro di vite
Partiamo dall'abolizione del permesso di soggiorno umanitario, pilastro del decreto sicurezza. Questo permesso, che aveva la durata di 2 anni e consentiva a chi ne era in possesso di accedere ai servizi sociali e - tra altre cose - di poter ottenere una casa popolare, poteva essere concesso dal questore in presenza di «seri motivi» umanitari , anche a chi non ha diritto alla protezione internazionale. Nel solo 2017 sono stati più di 30.000 i permessi di soggiorno umanitario concessi ad altrettanti immigrati che, pur non avendo i requisiti necessari ad ottenere l'asilo, sono così rimasti tranquillamente sul nostro territorio e hanno avuto accesso ai servizi. La nuova normativa prevede che soltanto in alcuni casi, come ad esempio per le vittime di sfruttamento o violenze, per motivi di salute o perché il proprio Paese d'origine è stato colpito da calamità naturale, possa essere concesso un permesso umanitario, della durata di un anno.
crimini
Il decreto sicurezza, inoltre, per quel che riguarda l'immigrazione, allunga l'elenco dei reati che - in caso di sentenza definitiva - comportano la revoca della protezione internazionale a chi li commette: entrano nell'elenco violenza sessuale, spaccio di droga, rapina ed estorsione. La lista comprende anche mutilazione dei genitali femminili (pratica ad oggi diffusissima in molte aree dell'Africa), resistenza a pubblico ufficiale, lesioni personali gravi e furto aggravato dal porto di armi o narcotici. Per i richiedenti asilo che commettono reati gravi è prevista la sospensione dell'esame della domanda di protezione ed è possibile comminare l'obbligo di lasciare il territorio nazionale. Inoltre, si introduce la possibilità per la commissione territoriale competente di sospendere l'esame della domanda di asilo quando il richiedente abbia in corso un procedimento penale per uno dei reati che, in caso di condanna definitiva, comporterebbero diniego della protezione internazionale (e se ricorrono i presupposti di pericolosità).
basta denaro
C'è un aspetto del decreto sicurezza che manda letteralmente in bestia i sindaci che antepongono il loro intesse politico a quello dei propri cittadini: la forte stretta sul sistema di accoglienza diffuso, lo Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) gestito dai Comuni, che ricevono fondi dal governo e - in qualità di enti capofila - coordinano la realizzazione di piccoli centri d'accoglienza sul territorio. Manco a dirlo, le associazioni e le cooperative sociali cui viene affidata la gestione di questi centri sono quasi sempre politicamente vicine agli stessi sindaci, che così alimentano il proprio consenso.
Il «pacchetto immigrazione» del decreto sicurezza prevede il ridimensionamento dello Sprar, i cui centri potranno accogliere solo chi ha diritto alla protezione internazionale perché proviene da Paesi per i quali è riconosciuta automaticamente, oppure i minori non accompagnati. Mentre - finora - questi centri potevano ospitare anche chi ha richiesto l'asilo ma non ha ancora ottenuto risposta. I richiedenti, d'ora in avanti, potranno essere ospitati solo in centri ad essi dedicati: i Cara (Centri accoglienza per richiedenti asilo). Si prevede inoltre l'obbligo, per le cooperative sociali che si occupano d'accoglienza degli immigrati, di pubblicare ogni tre mesi sui propri siti Web l'elenco dei soggetti a cui vengano versate somme per lo svolgimento di servizi finalizzati ad attività di integrazione, assistenza e protezione sociale. Nel 2017, per comprendere le dimensioni del fenomeno, sono stati 37.000 gli immigrati assorbiti nella rete Sprar: più del 70% di questi, con le nuove norme, non avrebbero potuto accedere al sistema. Considerato che per ciascun immigrato ospitato gli enti ricevono 35 euro al giorno (cifra ridotta, adesso, a una forbice fra un minimo di 19 euro per i centri più grandi a un massimo di 26, per quelli più piccoli), ecco spiegata la resistenza degli eroici sindaci di sinistra ad applicare il decreto sicurezza. Centinaia di milioni di euro ogni anno verranno sottratti alla gestione dei municipi: quanto basta per innervosirsi e boicottare il decreto sicurezza.
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Leoluca Orlando ordina all'anagrafe di Palermo di non rispettare il decreto sicurezza. Altri si accodano, Luigi De Magistris apre il porto di Napoli alle Ong. È tutto illegale.Il testo del decreto sicurezza stringe le maglie sull'asilo e taglia i fondi milionari ai centri. Resta chi ha titolo.Lo speciale contiene due articoli. Da Milano a Palermo, passando per Napoli, la rivolta dei sindaci nei confronti del decreto sicurezza infiamma questo gelido inizio d'anno. La polemica tra i primi cittadini e il ministro dell'Interno, Matteo Salvini, è ben lungi dal placarsi e rischia di trasformare l'iniziativa in un inedito, quanto potenzialmente esplosivo, conflitto istituzionale. Il capofila della rivolta è il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, che mercoledì con una decisione unilaterale ha dato disposizione agli uffici comunali di continuare a concedere l'iscrizione all'anagrafe ai cittadini con permesso umanitario scaduto. Il decreto «costituisce un esempio di provvedimento disumano e criminogeno», ha dichiarato Orlando ai giornalisti, che «eliminando la protezione umanitaria toglie ogni residuo di comprensione del dramma delle persone che sono i migranti». Motivando la sua scelta, il primo cittadino di Palermo ha spiegato che non si tratta «né di protesta, né di disubbidienza, né di obiezione di coscienza: ho assolto alle mie funzioni istituzionali di sindaco».Secondo della fila è Luigi De Magistris, sindaco di Napoli, che prima ha spiegato che nella sua città si applicano «solo in maniera conforme alla Costituzione» e poi ha annunciato la volontà di aprire il porto partenopeo all'attracco della Sea Watch 3, la nave che da giorni erra nel Mediterrano con 32 migranti a bordo: «Mi auguro che questa barca si avvicini al porto di Napoli», ha dichiarato De Magistris, «sarò il primo a guidare le azioni di salvataggio». Piccolo dettaglio: da ben 48 ore l'imbarcazione ha ricevuto riparo e assistenza da parte di Malta nelle proprie acque territoriali. Da segnalare le adesioni del fiorentino Dario Nardella («come Comune ci prenderemo l'impegno di non lasciare nessuno in mezzo alla strada»), del parmigiano Federico Pizzarotti («il decreto provoca problemi alle città») e del milanese Beppe Sala («Salvini riveda il decreto»). Nel corso della giornata di ieri si sono succedute a vario titolo dichiarazioni a sostegno della proposta da parte, tra gli altri, di Giuseppe Falcomatà (Reggio Calabria, Pd), Adriano Zuccalà (Pomezia, M5s), Marco Alessandrini (Pescara, Pd), Nicola Sanna (Sassari, Pd), Massimo Zedda (Cagliari, ex Sel). La protesta viene cavalcata in modo particolare dal Pd, come dimostrano le manifestazioni di solidarietà da parte di Nicola Zingaretti e Maurizio Martina. Dal momento che il decreto sicurezza è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 4 ottobre scorso, viene da chiedersi tuttavia come mai la questione sia stata sollevata solo dopo tre mesi dall'entrata in vigore della legge. Non mancano, però, sindaci critici con i colleghi riottosi: secondo Guido Castelli (Ascoli Piceno, Forza Italia), i ribelli «sbagliano, il decreto Salvini non è criminogeno», mentre Alessandro Canelli (Novara, Lega) considera la legge «uno strumento fondamentale per il controllo del territorio e della sicurezza dei cittadini». Controcorrente anche il sindaco di Benevento, Clemente Mastella, che pur giudicando negativamente il provvedimento dichiara di non condividere la scelta di Orlando e dei suoi seguaci. Al fianco dei sindaci si è invece schierata l'Anci, con la presidente Chiara Nespolo che ha dichiarato «coraggiosa» la decisione di non dare attuazione ad alcuni contenuti del decreto. La reazione del ministro Salvini all'insurrezione delle fasce tricolori non si è fatta attendere: «Col Pd caos e clandestini, con la Lega ordine e rispetto. Certi sindaci rimpiangono i bei tempi andati sull'immigrazione, ma anche per loro è finita la pacchia», ha scritto il vicepremier su Twitter. «Se c'è qualche sindaco che non è d'accordo si dimetta», ha poi dichiarato in diretta Facebook. Per l'altro vicepremier, Luigi Di Maio, l'insurrezione dei sindaci è «solo campagna elettorale». E rischia di avere gravi conseguenze, e non solo sul piano dei rapporti istituzionali. Se per Salvini i ribelli «ne risponderanno personalmente, legalmente, penalmente e civilmente perché è una legge dello Stato che mette ordine e regole», per il ministro della Pubblica amministrazione, Giulia Bongiorno, «le leggi, piacciano o no, vanno applicate, non può esistere il fai da te». Duro anche il premier Giuseppe Conte, che pur aprendo a un incontro con l'Anci bolla come «inaccettabili le posizioni degli amministratori che hanno pubblicamente dichiarato che non intendono applicare una legge dello Stato». A prescindere dall'eventuale giudizio di incostituzionalità sulla legge, i riottosi rischiano denunce per abuso in atti d'ufficio e - nei casi più gravi - la rimozione. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/i-sindaci-che-violano-la-legge-sugli-immigrati-rischiano-la-rimozione-2625047775.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="nessun-razzismo-via-permessi-facili-e-soldi-alle-coop" data-post-id="2625047775" data-published-at="1765509421" data-use-pagination="False"> Nessun razzismo. Via permessi facili e soldi alle coop Soldi, propaganda e demagogia: la nuova Spd all'italiana, quel «partito dei sindaci ribelli» che sta cercando di mettere i bastoni tra le ruote al governo, boicottando il decreto sicurezza, nasconde - dietro i proclami buonisti - un bieco interesse politico e una ancora più bieca volontà di difendere il sistema dell'accoglienza così come si è strutturato negli ultimi anni, ovvero con una pioggia di soldi nelle casse di associazioni, enti e cooperative sociali sempre e soltanto politicamente vicini alla sinistra. Non si spiega altrimenti come sia possibile che questi sindaci possano pensare di boicottare un decreto che va incontro alla richiesta di sicurezza che arriva della popolazione che loro stessi amministrano. Considerata la valanga di imprecisioni, bufale e leggende che circolano sugli effetti del decreto, è bene ricordarne i punti salienti. giro di vite Partiamo dall'abolizione del permesso di soggiorno umanitario, pilastro del decreto sicurezza. Questo permesso, che aveva la durata di 2 anni e consentiva a chi ne era in possesso di accedere ai servizi sociali e - tra altre cose - di poter ottenere una casa popolare, poteva essere concesso dal questore in presenza di «seri motivi» umanitari , anche a chi non ha diritto alla protezione internazionale. Nel solo 2017 sono stati più di 30.000 i permessi di soggiorno umanitario concessi ad altrettanti immigrati che, pur non avendo i requisiti necessari ad ottenere l'asilo, sono così rimasti tranquillamente sul nostro territorio e hanno avuto accesso ai servizi. La nuova normativa prevede che soltanto in alcuni casi, come ad esempio per le vittime di sfruttamento o violenze, per motivi di salute o perché il proprio Paese d'origine è stato colpito da calamità naturale, possa essere concesso un permesso umanitario, della durata di un anno. crimini Il decreto sicurezza, inoltre, per quel che riguarda l'immigrazione, allunga l'elenco dei reati che - in caso di sentenza definitiva - comportano la revoca della protezione internazionale a chi li commette: entrano nell'elenco violenza sessuale, spaccio di droga, rapina ed estorsione. La lista comprende anche mutilazione dei genitali femminili (pratica ad oggi diffusissima in molte aree dell'Africa), resistenza a pubblico ufficiale, lesioni personali gravi e furto aggravato dal porto di armi o narcotici. Per i richiedenti asilo che commettono reati gravi è prevista la sospensione dell'esame della domanda di protezione ed è possibile comminare l'obbligo di lasciare il territorio nazionale. Inoltre, si introduce la possibilità per la commissione territoriale competente di sospendere l'esame della domanda di asilo quando il richiedente abbia in corso un procedimento penale per uno dei reati che, in caso di condanna definitiva, comporterebbero diniego della protezione internazionale (e se ricorrono i presupposti di pericolosità). basta denaro C'è un aspetto del decreto sicurezza che manda letteralmente in bestia i sindaci che antepongono il loro intesse politico a quello dei propri cittadini: la forte stretta sul sistema di accoglienza diffuso, lo Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) gestito dai Comuni, che ricevono fondi dal governo e - in qualità di enti capofila - coordinano la realizzazione di piccoli centri d'accoglienza sul territorio. Manco a dirlo, le associazioni e le cooperative sociali cui viene affidata la gestione di questi centri sono quasi sempre politicamente vicine agli stessi sindaci, che così alimentano il proprio consenso. Il «pacchetto immigrazione» del decreto sicurezza prevede il ridimensionamento dello Sprar, i cui centri potranno accogliere solo chi ha diritto alla protezione internazionale perché proviene da Paesi per i quali è riconosciuta automaticamente, oppure i minori non accompagnati. Mentre - finora - questi centri potevano ospitare anche chi ha richiesto l'asilo ma non ha ancora ottenuto risposta. I richiedenti, d'ora in avanti, potranno essere ospitati solo in centri ad essi dedicati: i Cara (Centri accoglienza per richiedenti asilo). Si prevede inoltre l'obbligo, per le cooperative sociali che si occupano d'accoglienza degli immigrati, di pubblicare ogni tre mesi sui propri siti Web l'elenco dei soggetti a cui vengano versate somme per lo svolgimento di servizi finalizzati ad attività di integrazione, assistenza e protezione sociale. Nel 2017, per comprendere le dimensioni del fenomeno, sono stati 37.000 gli immigrati assorbiti nella rete Sprar: più del 70% di questi, con le nuove norme, non avrebbero potuto accedere al sistema. Considerato che per ciascun immigrato ospitato gli enti ricevono 35 euro al giorno (cifra ridotta, adesso, a una forbice fra un minimo di 19 euro per i centri più grandi a un massimo di 26, per quelli più piccoli), ecco spiegata la resistenza degli eroici sindaci di sinistra ad applicare il decreto sicurezza. Centinaia di milioni di euro ogni anno verranno sottratti alla gestione dei municipi: quanto basta per innervosirsi e boicottare il decreto sicurezza.
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Getty Images
Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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