
L'economista Vladimiro Giacché: «La riforma mira a indebolire i Paesi indebitati. Basta indietreggiare. Così i nostri titoli di Stato precipiteranno».Vladimiro Giacché presiede il Centro Europa ricerche. Ha appena pubblicato la nuova edizione di Anschluss. L'annessione (edizioni Diarkos). E ha anche un'attivissima vita su Twitter (con l'account @comunardo), dove commenta in modo caustico e documentatissimo l'attualità non solo economica. La Verità ha conversato con lui a partire dal Meccanismo europeo di stabilità, su cui è stato recentemente audito dalle commissioni Bilancio e Politiche Ue della Camera. È corretto dire che la riforma del Mes rende la ristrutturazione del debito di un Paese in crisi non più una circostanza eccezionale, ma un evento più probabile, con tutti i pericoli del caso?«Direi senz'altro di sì. Ritengo che questo sia uno degli scopi di chi vuole la riforma. Il pericolo è che, nella misura in cui gli investitori scontano come più probabile questa eventualità, ciò si rifletta immediatamente sui prezzi dei titoli».E per quale arcana ragione un Paese a debito alto dovrebbe infilare la testa in questo cappio? «La mia risposta è: per nessuna ragione». Lei ha insistito in audizione su quello che chiamerei «principio di precauzione». In uno scenario globale imprevedibile, chi può sapere se e quando scatterà una crisi? «Nessuno. Ma in compenso, se la riforma del Mes passerà nel testo attuale, tutti sapranno subito quali paesi potranno beneficiare di un sostegno finanziario “facilitato" e quali dovranno sottostare a pesanti condizionalità, che possono includere una ristrutturazione del debito. L'Italia è nella seconda categoria. Si crea una gerarchia tra Paesi di cui gli investitori prenderanno subito nota. Comunque si valutino le conseguenze, per noi si tratta di un peggioramento».Insomma, c'è il rischio che la mera eventualità che un Paese faccia ricorso a un programma di questo tipo determini l'avvitamento di una crisi.«Questa eventualità può addirittura essere l'innesco di una crisi, o - più probabilmente - peggiorare una crisi innescata da altri fattori. Facciamo l'ipotesi di una crisi innescata dal commercio estero: anche in quel caso, chi ha più debito sarebbe considerato più vulnerabile. E ora anche la sola possibilità di una ristrutturazione indurrebbe da subito gli investitori a chiedere maggiori rendimenti a copertura del rischio».Con una dotazione di circa 700 miliardi, il Mes non rischia di essere una diga un po' fragile?«Penso di sì. Noi conosciamo un solo backstop effettivo, e cioè la Banca centrale. Non a caso, quando Mario Draghi ha detto il suo “whatever it takes", questo ha fermato subito la speculazione. Quanto invece al Mes, il rischio è che ora qualcuno ritenga meno catastrofica per sé la ristrutturazione del debito di qualcun altro, e quindi finisca per favorirla».Sta dicendo che la riforma cambia le aspettative degli investitori?«Abbiamo un precedente, quello del bail in. Quel cambiamento radicale fece sì che le obbligazioni vendute in una situazione normativa diversa potessero deprezzarsi in modo sostanziale. Ciò non accadde al momento della firma: i momenti chiave furono l'entrata in vigore effettiva e un “trigger" rappresentato dalla crisi delle quattro piccole banche italiane, per cui fu impedito l'intervento del Fondo interbancario. Da novembre 2015 a febbraio 2016, le nostre banche persero 46 miliardi di capitalizzazione in Borsa, e poi per anni sono rimaste al di sotto del listino. Una botta da cui non si sono più riprese. Perché si cominciò a pensare che potessero saltare».Torniamo allo specifico italiano. Se ci fossero richiesti, dove troveremmo gli oltre 120 miliardi con cui dovremmo contribuire?(Sorride) «Quesito interessante. Non si sa come, ma in questi casi somme ingentissime si trovano sempre. Furono trovate quando si trattò di salvare le banche francesi e tedesche sotto il nome di “Grecia", e poi per salvare il sistema bancario spagnolo. Un'altra cosa buffa è che molti sostenitori della riforma dicono che è importantissima, ma poi aggiungono che noi non la useremo mai. E allora che cos'è? Beneficenza?».Come giudica il comportamento delle personalità (dal governatore Ignazio Visco a Carlo Cottarelli, passando per Giampaolo Galli) che prima hanno espresso criticità pesanti sulla riforma del Mes, e poi sono sembrate tornare sui loro passi? È così difficile disallinearsi da una certa ortodossia?«Forse pensano che parlare di un fantasma possa evocarlo. Io non condivido. Tornando all'esempio del bail in, proprio lo scomparso negoziatore di allora, l'ex ministro Fabrizio Saccomanni, raccontò che Schauble disse: “Se bloccate l'unione bancaria, i mercati penseranno che avete qualcosa da nascondere". Purtroppo accettammo, e abbiamo visto la reazione dei mercati. La mia opinione è che allora per paura si commise l'errore di non affrontare il problema con radicalità, cioè ponendo il veto. Ora rischiamo di ripetere l'errore».Come giudica il balletto post Eurogruppo della scorsa settimana? Prima e dopo, il presidente Mario Centeno ha detto esattamente le stesse cose: l'accordo non si tocca, si firma a inizio 2020, al massimo si può modificare la normativa di dettaglio. E allora che cosa festeggia il ministro Roberto Gualtieri?«Gualtieri ha purtroppo una tendenza a festeggiare. Anche in passato, a proposito della soluzione data al tema degli Npl, fece dichiarazioni trionfalistiche totalmente fuori luogo. Anche perché, oltre a colpire le banche italiane, non si affrontarono i veri rischi annidati nelle banche europee, e cioè i titoli tossici detenuti dalle banche francesi e tedesche».Ormai è chiaro che Giovanni Tria diede il suo assenso nell'Eurogruppo del 13 giugno 2019 (senza un mandato parlamentare) e Giuseppe Conte fece altrettanto a fine giugno (contro il mandato parlamentare ricevuto il giorno 19 di quel mese).«È chiaro che una risoluzione parlamentare fu disattesa. E c'è anche un problema legato al rispetto della legge Moavero. Ma vedo anche un fatto positivo: la grande discussione che si è aperta nel Paese. D'ora in avanti non sarà più possibile approvare trattati europei senza un vero dibattito pubblico».Veniamo al suo saggio Anschluss. L'annessione - L'unificazione della Germania e il futuro dell'Europa. Quanto ha pesato la differenza tra le due Germanie sia per loro sia per il resto d'Europa?«La cosa impressionante è che la vicenda delle due Germanie sia divenuta quasi una sorta di modello. A fine 2013, la Merkel disse testualmente che avevano salvato anni prima la Germania Est ma non sarebbero riusciti a farlo per il resto d'Europa. Disse: siamo disposti a pagarvi un medico per dimagrire se siete ingrassati, ma non abbiamo risorse per salvare tutti. Il dramma è che i tedeschi non hanno imparato la lezione del post '89, quando l'allineamento economico tra le due Germanie fu sacrificato al rapido obiettivo dell'unità politica».Ce lo spieghi meglio.«Fu decisa l'unione monetaria con un cambio irragionevole (1 a 1), i consumatori dell'Est furono felici, ma i prezzi delle merci prodotte all'Est subirono un rincaro del 350%, spazzando via quelle imprese. Risultato: disoccupazione di massa, emigrazione, necessità di aiuti. Se deindustrializzi il tuo vicino ma vuoi continuare a esportare da lui le tue merci, devi finanziargli i consumi. O almeno: non devi lamentarti per quest'ultima cosa senza averne capito la causa».Nella sua biografia di Margaret Thatcher, Charles Moore racconta un episodio inedito. La Thatcher, in coincidenza con la caduta del Muro e l'unificazione tedesca, convoca un gruppo di storici e pone loro due domande. Primo: come poterono accadere gli eventi degli anni Trenta? Secondo: potrebbero riproporsi in futuro, in una chiave del tutto diversa, attraverso l'economia? «L'episodio dimostra l'intelligenza della Thatcher. La Germania è chiaramente la vincitrice dell'operazione euro. Va anche ricordato che la moneta unica fu voluta dalla Francia, pensando di ingabbiare la Germania e di renderla europea. E invece ci siamo ritrovati con un'Europa tedesca».L'ex governatore della Bank of England Mervyn King ha accusato: la costruzione europea è stata concepita con modalità tali da rendere inevitabile un vantaggio per i Paesi del Nord e un'esposizione per quelli mediterranei.«Credo abbia ragione, però vedo in questo anche colpe nostre. C'è stata una singolare miopia delle classi dirigenti italiane che hanno confidato nel “vincolo esterno", sottovalutando quanto la moneta unica potesse trasformarsi in un cappio. E non c'è solo il tema del cambio fisso, ma anche il fatto che non hai più un tasso d'interesse adeguato alle condizioni della tua economia».Molti euroentusiasti sono scettici in ogni altro aspetto della loro vita (ed è un complimento). Ma quando invece si tocca l'Ue, diventano dogmatici, e rispondono con formule da catechismo. «È successo in passato anche per altre fedi politiche. È come per i tassi di interesse: una cosa poco flessibile è fragile, e anche un'idea granitica può diventarlo. Non vorrei che tra un po' alcuni di loro divenissero eurofobici».Nella discussione pubblica, non si può suggerire l'uscita dall'Ue né dall'euro. Non si può nemmeno chiedere meno Europa o eccepire sulle modalità tecniche di un trattato come il Mes. Ma allora che possono fare i cittadini?«Quello che stanno facendo: discutere, documentarsi, appassionarsi. È l'atteggiamento opposto quello sbagliato, perché rende più facile proprio ciò che a parole paventa, ovvero la catastrofe».
Elly Schlein (Ansa)
Corteo a Messina per dire no all’opera. Salvini: «Nessuna nuova gara. Si parte nel 2026».
I cantieri per il Ponte sullo Stretto «saranno aperti nel 2026». Il vicepremier e ministro dei Trasporti, Matteo Salvini, snocciola dati certi e sgombera il campo da illazioni e dubbi proprio nel giorno in cui migliaia di persone (gli organizzatori parlano di 15.000) sono scese in piazza a Messina per dire no al Ponte sullo Stretto. Il «no» vede schierati Pd e Cgil in corteo per opporsi a un’opera che offre «comunque oltre 37.000 posti di lavoro». Nonostante lo stop arrivato dalla Corte dei Conti al progetto, Salvini ha illustrato i prossimi step e ha rassicurato gli italiani: «Non è vero che bisognerà rifare una gara. La gara c’è stata. Ovviamente i costi del 2025 dei materiali, dell’acciaio, del cemento, dell’energia, non sono i costi di dieci anni fa. Questo non perché è cambiato il progetto, ma perché è cambiato il mondo».
Luigi Lovaglio (Ansa)
A Milano si indaga su concerto e ostacolo alla vigilanza nella scalata a Mediobanca. Gli interessati smentiscono. Lovaglio intercettato critica l’ad di Generali Donnet.
La scalata di Mps su Mediobanca continua a produrre scosse giudiziarie. La Procura di Milano indaga sull’Ops. I pm ipotizzano manipolazione del mercato e ostacolo alla vigilanza, ritenendo possibile un coordinamento occulto tra alcuni nuovi soci di Mps e il vertice allora guidato dall’ad Luigi Lovaglio. Gli indagati sono l’imprenditore Francesco Gaetano Caltagirone; Francesco Milleri, presidente della holding Delfin; Romolo Bardin, ad di Delfin; Enrico Cavatorta, dirigente della stessa holding; e lo stesso Lovaglio.
Leone XIV (Ansa)
- La missione di Prevost in Turchia aiuta ad abbattere il «muro» del Mediterraneo tra cristianità e Islam. Considerando anche l’estensione degli Accordi di Abramo, c’è fiducia per una florida regione multireligiosa.
- Leone XIV visita il tempio musulmano di Istanbul ma si limita a togliere le scarpe. Oggi la partenza per il Libano con il rebus Airbus: pure il suo velivolo va aggiornato.
Lo speciale contiene due articoli.
Pier Carlo Padoan (Ansa)
Schlein chiede al governo di riferire sull’inchiesta. Ma sono i democratici che hanno rovinato il Monte. E il loro Padoan al Tesoro ha messo miliardi pubblici per salvarlo per poi farsi eleggere proprio a Siena...
Quando Elly Schlein parla di «opacità del governo nella scalata Mps su Mediobanca», è difficile trattenere un sorriso. Amaro, s’intende. Perché è difficile ascoltare un appello alla trasparenza proprio dalla segretaria del partito che ha portato il Monte dei Paschi di Siena dall’essere la banca più antica del mondo a un cimitero di esperimenti politici e clientelari. Una rimozione selettiva che, se non fosse pronunciata con serietà, sembrerebbe il copione di una satira. Schlein tuona contro «il ruolo opaco del governo e del Mef», chiede a Giorgetti di presentarsi immediatamente in Parlamento, sventola richieste di trasparenza come fossero trofei morali. Ma evita accuratamente di ricordare che l’opacità vera, quella strutturale, quella che ha devastato la banca, porta un marchio indelebile: il Pci e i suoi eredi. Un marchio inciso nella pietra di Rocca Salimbeni, dove negli anni si è consumato uno dei più grandi scempi finanziari della storia repubblicana. Un conto finale da 8,2 miliardi pagato dallo Stato, cioè dai contribuenti, mentre i signori del «buon governo» locale si dilettavano con le loro clientele.






