2018-09-04
I ribelli assaltano il centro di Tripoli. Conte: «Nessuna missione italiana»
Il premier Fayez Al Serraj, messo alle strette, chiama in aiuto le milizie di Misurata. Il nostro governo smentisce la chiusura dell'ambasciata e l'invio di truppe. Fuga di massa da un carcere. Oggi il primo tavolo di pace.Concentrare le relazioni solo sulla capitale è una scelta miope: siamo stati isolati.Lo speciale contiene due articoli.È da più di una settimana che a Tripoli è finita la fragilissima tregua che era stata faticosamente conquistata anche grazie alla mediazione dell'Italia. La Settima brigata ha lanciato un assalto alla città e sono in atto scontri con le forze di sicurezza governative a pochi chilometri dal centro della capitale, nel distretto di Abu Salim. L'ultimo bilancio, diffuso dal ministero della Salute libico, parla di 47 morti e 129 feriti. Un'ecatombe che ha allarmato la missione Onu presente nel Paese, Unsmil, che ha invitato «le varie parti interessate dal conflitto a un incontro allargato» per oggi a mezzogiorno, invitando i belligeranti, «sulla base delle pertinenti risoluzioni del Consiglio di sicurezza e dell'offerta del Segretario generale della Nazioni Unite di mediare», ad avviare «un dialogo urgente sull'attuale situazione della sicurezza a Tripoli». L'Unione europea, attraverso un portavoce della Commissione, ha chiesto alle parti in lotta «di cessare immediatamente le ostilità», poiché «l'escalation della violenza sta minando una situazione che è già fragile. La violenza porterà solo altra violenza a svantaggio dei libici». Il premier di Tripoli, Fayez Al Serraj, che ha aperto un comitato di crisi, si è visto costretto a dichiarare lo stato d'emergenza e a chiedere l'aiuto della Forza antiterrorismo, guidata dal generale Mohammad Al Zain e di stanza a Misurata, che in Libia sono invise poiché accusate di aver ottenuto milioni di dollari dal governo in cambio di protezione armata. Qualche centinaio di blindati del contingente antiterrorismo si è insediato in una caserma alla periferia occidentale di Tripoli. Una mossa che, spera forse Serraj, dovrebbe costringere la Settima brigata ai negoziati.Tra i combattenti che hanno scagliato l'offensiva a Serraj c'è anche Salah Badi, che comanda la brigata Al Samoud. Il miliziano era già stato protagonista dell'assedio del 2014, quando il governo di Tripoli fu costretto alla fuga e l'aeroporto fu preso dai ribelli. Badi, che fino a oggi si trovava in Turchia, in un messaggio postato su Facebook, si è dichiarato pronto a rientrare in città alla testa dei suoi uomini armati. Anche se a beneficiare dei disordini è il principale concorrente di Serraj, il generale Khalifa Haftar (alleato della Francia), Badi ha sempre giocato una sua partita, considerandosi legittimato a ritagliarsi un ruolo nella successione a Muhammar Gheddafi. Domenica pomeriggio, una nave dell'Eni ha evacuato alcuni tecnici italiani che stavano lavorando nel complesso petrolifero di Mellitah, alcuni militari e i dipendenti dell'ambasciata. Il dicastero della Difesa ha comunque assicurato che i nostri soldati presenti in Libia stanno bene. Il ministro Elisabetta Trenta ha fatto sapere che sta seguendo costantemente lo svolgersi degli eventi. Due giorni fa, un colpo di mortaio aveva sfiorato la nostra ambasciata, che però, smentendo la notizia riportata dal sito Al Mutawasset, ha precisato che resterà aperta. Quello delle fake news sulla strategia dei nostri diplomatici, peraltro, sembra essere uno dei fronti del conflitto: c'è chi ipotizza che siano stati addirittura i servizi segreti francesi a mettere in circolo la voce, ripresa da Africa Intelligence, che il nostro Paese avrebbe presto sostituito il proprio ambasciatore. Preoccupanti si annunciano pure le conseguenze dei disordini a Tripoli sui flussi migratori. È di ieri la notizia che circa 400 persone, tra galeotti e uomini in attesa di partire sui barconi alla volta delle coste italiane, sono evasi in seguito a una rivolta nel centro di detenzione di Ain Zara.Per adesso, comunque, l'Italia non sembra intenzionata a organizzare un blitz militare. La presidenza del Consiglio ha diffuso una nota in cui «smentisce categoricamente la preparazione di un intervento da parte dei corpi speciali italiani in Libia». Anche il ministro dell'Interno Matteo Salvini ha ribadito il no a un'azione di forza: «Escludo interventi militari che non risolvono nulla», ha affermato, «e questo dovrebbero capirlo anche altri». La stoccata del vicepremier era evidentemente indirizzata a Emmanuel Macron: sono in molti, infatti, a sospettare che la Francia, entrata più volte in polemica con il governo gialloblù specialmente in tema di migranti, abbia mosso le sue pedine in Libia per destabilizzare il Paese e mettere alle strette l'Italia. Come riportato da Radio Radicale, al termine del Consiglio dei ministri di ieri, Salvini non ha lesinato dure critiche a Macron: «Nulla succede per caso. C'è dietro qualcuno», ha detto il vicepremier ai giornalisti. «Il mio timore è che qualcuno, per motivi economici ed egoismi nazionali metta a rischio la stabilità del Nordafrica e, conseguentemente dell'Europa». Quel «qualcuno» contestato da Salvini «è andato a fare una guerra che non doveva fare e fissa le date delle elezioni», quelle che il presidente francese insisteva per celebrare a dicembre, «senza interpellare gli alleati, l'Onu e i libici».Gli scontri di Tripoli arrivano a circa due mesi dal viaggio del ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi, cui Serraj aveva chiesto la riattivazione dell'accordo stipulato tra Gheddafi e Silvio Berlusconi per il controllo delle partenze dei migranti, pur sostanzialmente bocciando la proposta, formulata in primo luogo dal premier italiano Giuseppe Conte, di aprire degli hotspot direttamente in territorio libico per processare le richieste d'asilo. Poche settimane dopo era stata la Trenta ad andare in Libia, per rafforzare il ruolo dell'Italia quale soggetto legittimato a cooperare per la stabilizzazione dell'area. «Siamo felicissimi di avervi qui», aveva commentato il suo omologo libico, Najim Owida. Ma questa luna di miele, a «qualcuno» non è piaciuta.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/i-ribelli-assaltano-il-centro-di-tripoli-conte-nessuna-missione-italiana-2601671347.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="abbiamo-rifatto-gli-errori-di-minniti-e-ora-ci-troviamo-in-un-vicolo-cieco" data-post-id="2601671347" data-published-at="1757274407" data-use-pagination="False"> Abbiamo rifatto gli errori di Minniti e ora ci troviamo in un vicolo cieco Il governo di Tripoli, guidato da Fayez Serraj, non controlla più la capitale. Ancor meno controlla il resto della Libia. Ieri il politico riconosciuto dall'Onu e appoggiato dal nostro governo ha dovuto chiedere aiuto al generale Mohammad Al Zain, capo della forza antiterrorismo di Misurata. Sono arrivati a supporto di Serraj 300 blindati e diversi pick up armati. Ma la possibilità che Tripoli cada sotto la pressione delle milizie vicine ai francesi e pure sotto le bordate più o meno politiche del generale Khalifa Haftar è molto elevata. Se il governo Serraj cadesse, per l'Italia i problemi sarebbero numerosi. E soprattutto grossi. Perderemo tutti i nostri link con la Libia e quindi non conteremo più nulla nel Paese e in quella fetta del Mediterraneo. Siamo finiti in un cul-de-sac creato da Paolo Gentiloni e soprattutto dalla strategia del suo ministro forte dell'Interno, Marco Minniti. A lui si devono le scelte degli ultimi due anni, ma anche l'indirizzo dei servizi segreti esteri, guidati forse ancora per poco da Alberto Manenti. La scelta amplificata dal governo Gentiloni è stata quella di concentrarsi su Tripoli, aggiungendo qualche regalia a Misurata e tagliando tutti i ponti con Bengasi e Tobruk. La scelta è stata nei fatti prolungata anche dall'attuale ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, pur sapendo che il governo di Serraj era un morto che camminava. Serraj infatti gode ormai solo del sostegno formale dell'Onu e di quello attivo di Roma. Per attivo si intendono strette relazioni economiche, sostegno alle guardie di confine e alla guardia costiera locale. Senza sapere quali reali accordi ci siano tra l'esercito regolare di Serraj, le singole milizie di quartiere e i contrabbandieri di armi e soprattutto di uomini. Il governo di Serraj la scorsa primavera ha perso anche il sostegno delle tribù del Fezzan. Non che siano mai stati capi militari affidabili. Tutt'altro. Però per due anni si sono accordati con il governo italiano. In cambio di sostegno economico, le tribù del deserto, al confine con il Niger, si erano impegnate a setacciare il territorio e rimandare in Niger un po' di carovane. Tutto questo a beneficio anche di Serraj. A marzo Parigi ha contribuito a stoppare la missione tricolore in Niger, e nelle settimane successive si è mossa per espandere i rapporti in tutto il Fezzan. Nel 2017 l'allora ministro dell'Interno Minniti convocò a Roma le diverse fazioni dell'area meridionale. L'intento era bloccare i flussi di immigrati dal Niger. Minniti era riuscito a imbastire una sorta di accordo provvisorio e instabile che si è rivelato una toppa dal punto di vista pratico, ma un successo dal punto di vista dell'intelligence. Le tribù del Fezzan avevano accettato di dialogare con gli italiani. Lo scorso aprile le cose sono cambiate. Stando a quanto riportato da Agenzia Nova, i francesi hanno organizzato a Niamey, capitale del Niger, un analogo incontro con il palese intento di sostituire gli accordi italiani. La fonte riportata dall'agenzia cita addirittura il capo della tribù degli Awlad Suleiman, una delle principali dell'area. «È stata una delegazione proveniente dalla Francia», il racconto di Al Senoussi Masoud, «a organizzare l'incontro. Si tratta di un'iniziativa che ha voluto far sedere attorno uno stesso tavolo noi e altre tribù del Sud». Ora è chiaro che per l'Italia uscire da tale cul-de-sac è molto difficile. A giugno esponenti vicini al capo di Stato maggiore di Haftar sono stati in Italia. Hanno contattato vertici della Lega cercando di aprire un dialogo diretto con l'Italia e aprire fisicamente un consolato a Bengasi. Gli abboccamenti non hanno portato a nulla di concreto. L'unica mossa aggiuntiva rispetto alle teorie di Minniti ha riguardato l'Egitto di Abd Al Fattah Al Sisi. La Lega di Matteo Salvini si è mossa in stretto contatto con l'Eni. E ha implementato i rapporti con il Cairo e a quanto pare in cambio dei numerosi accordi energetici con il Cane a sei zampe ha garantito da Al Sisi un rapporto suprematistico in Cirenaica. Haftar avrebbe invece voluto creare un rapporto diretto con Roma. Il tira e molla si è interrotto improvvisamente la prima settimana di agosto quando l'ambasciatore italiano Giuseppe Perrone è stato definito persona non gradita. Adesso il cerchio si è chiuso. E se non cambia drasticamente l'equilibrio internazionale con l'arrivo in forze degli Usa per l'Italia sarà un lungo tramonto.
Rod Dreher (Getty Images)