2018-04-03
I nostri conti pubblici li hanno sfasciati Monti e la Fornero
La Pasqua non è riuscita a far risorgere per tempo un governo, perciò bisognerà attendere la festa della Liberazione e forse anche quella della Repubblica prima di conoscere il nome del nuovo inquilino di Palazzo Chigi. In compenso, mentre dell'esecutivo non si intravede neppure l'ombra, risorgono i dubbi sulla situazione finanziaria del nostro Paese, facendo riecheggiare vecchi sospetti e mai sopite polemiche. Con una singolare coincidenza sono infatti usciti due autorevoli studi confezionati da altrettanto blasonate istituzioni. Il primo è di produzione europea e riguarda l'andamento dei conti pubblici negli ultimi cinque anni.Il periodo preso a riferimento è quello compreso fra i 2012 e il 2017, ossia quando a guidare l'economia del nostro Paese erano dei convinti europeisti, come l'insigne professor Mario Monti, il nipotissimo Enrico Letta, il premier che i complimenti se li fa da solo, vale a dire Matteo Renzi, e, infine, il conte Paolo Gentiloni. Insomma, tutta gente seria, rispettata in Europa, non come quel barzellettiere e anche un po' puttaniere di Silvio Berlusconi. Risultato, passate le elezioni e archiviata la stagione dei governi tecnici e dei governi non eletti dal popolo, grazie a uno studio redatto da studiosi europei si scopre che si stava meglio quando si stava peggio. Tradotto, significa che quando nel 2011 governava il Cavaliere i conti erano migliori di quelli attuali. I report di sostenibilità stilati dalla Commissione europea dimostrano che, anno dopo anno, l'Italia ha peggiorato la propria situazione. Così, se nel 2012 l'Italia era uno dei migliori stati europei dal punto di vista delle finanze, ora non è così. Il nostro Paese, secondo Bruxelles, ha una situazione finanziaria sfavorevole. E sapete chi dobbiamo ringraziare? Ve lo spiego subito: la stretta fiscale di Monti ha fatto contenti i nostri partner europei, migliorando i conti con l'estero, ma poi, come conseguenza collaterale, ha ammazzato i redditi e i consumi, peggiorando come è noto il rapporto deficit Pil e di conseguenza rendendo difficile il sostegno della spesa pensionistica. E dire che per anni ci hanno riempito la testa con la storia di un Paese lasciato alla deriva dal centrodestra, spiegandoci che se non siamo andati a sbattere contro gli scogli, lo dobbiamo esclusivamente a lui, all'ex rettore della Bocconi e alla sua lacrimante ministra del lavoro. Mentre frignava per aver imposto a chi era in età da pensione anni di lavoro in più, Elsa Fornero spiegava che quello da lei tenuto a battesimo era l'unico modo per evitare che il sistema collassasse. Ancora oggi, a distanza di anni, non passa puntata in tv che la professoressa non salga in cattedra per darci lezione su come si debba mantenere entro i limiti la spesa previdenziale. Peccato che Bruxelles ci mandi a dire che quanto fatto non solo non basta, ma forse ha anche peggiorato le cose. Dunque, se la situazione è quella illustrata dalla Commissione europea, si dovrebbero mandare in pensione i vecchi pregiudizi, accantonando le politiche di austerità, per sostenere quelle di espansione. Altro che parametri di Maastricht, il fiscale compact e così via. Qui c'è bisogno di qualcuno che abbia il coraggio di imporsi ai nostri partner, cambiando rotta ed evitando che la nave Italia finisca sugli scogli. E se lo dice l'Europa c'è da credergli. Non è tutto: un secondo report smonta un altro luogo comune ribadito in tv e sui giornali a giorni alterni. Si tratta della questione immigrazione, che secondo alcuni economisti sarebbe vitale per la nostra economia. Stando ad alcuni politici ed editorialisti, senza stranieri il nostro Paese non reggerebbe a lungo. Di qui la necessità di spalancare le porte ai profughi, accettando chiunque sbarchi sulle nostre coste. In pratica, accogliere i migranti non sarebbe buonismo, ma una forma di sana convenienza. Peccato che sia di recente uscito un rapporto in cui si spiega il contrario. È vero che la popolazione tende a diminuire perché gli italiani fanno pochi figli, ma una volta giunti nel nostro Paese, anche gli extracomunitari si adeguano in fretta alle nostre abitudini. Dunque l'invasione non sarebbe la soluzione, ma per far ripartire il Paese anche demograficamente bisogna offrire alle famiglie qualche garanzia di tranquillità. Cosa che al momento non è stata presa in considerazione dalla politica. Chi ha redatto la relazione che smonta una delle più radicate convinzioni dei nostri onorevoli, purché di sinistra? Forse Matteo Salvini oppure Giorgia Meloni? Né l'uno né l'altra. A scrivere osservazioni che a noi paiono di buon senso è la Banca d'Italia, che indagando su flussi e scostamenti economici, si è resa conto che gli immigrati non rappresentano la soluzione ai nostri problemi, al contrario di quel che si legge di solito sui giornali. Come detto, per vedere il governo ci vorrà tempo. Tuttavia l'attesa potrebbe non rivelarsi inutile. Soprattutto se riusciremo a riempire il tempo che ci separa dall'incarico di formare il nuovo esecutivo con qualche riflessione un po' meno conformista di quelle che fino a ieri sono state propinate all'opinione pubblica. Su economia e immigrazione c'è tanto da fare, e un governo dei 5 stelle o della Lega, o di tutti e due, potrebbe prendere spunto.
Giancarlo Giorgetti (Ansa)
Giorgetti ha poi escluso la possibilità di una manovra correttiva: «Non c'è bisogno di correggere una rotta che già gli arbitri ci dicono essere quella rotta giusta» e sottolinea l'obiettivo di tutelare e andare incontro alle famiglie e ai lavoratori con uno sguardo alle famiglie numerose». Per quanto riguarda l'ipotesi di un intervento in manovra sulle banche ha detto: «Io penso che chiunque faccia l'amministratore pubblico debba valutare con attenzione ogni euro speso dalla pubblica amministrazione. Però queste sono valutazioni politiche, ribadisco che saranno fatte solo quando il quadro di priorità sarà definito e basta aspettare due settimane».
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Il direttore generale di Renexia Riccardo Toto e il direttore de La Verità Maurizio Belpietro
Toto ha presentato il progetto di eolico offshore galleggiante al largo delle coste siciliane, destinato a produrre circa 2,7 gigawatt di energia rinnovabile. Un’iniziativa che, secondo il direttore di Renexia, rappresenta un’opportunità concreta per creare nuova occupazione e una filiera industriale nazionale: «Stiamo avviando una fabbrica in Abruzzo che genererebbe 3.200 posti di lavoro. Le rinnovabili oggi sono un’occasione per far partire un mercato che può valere fino a 45 miliardi di euro di valore aggiunto per l’economia italiana».
L’intervento ha sottolineato l’importanza di integrare le rinnovabili nel mix energetico, senza prescindere dal gas, dalle batterie e in futuro anche dal nucleare: elementi essenziali non solo per la sicurezza energetica ma anche per garantire crescita e competitività. «Non esiste un’economia senza energia - ha detto Toto - È utopistico pensare di avere solo veicoli elettrici o di modificare il mercato per legge». Toto ha inoltre evidenziato la necessità di una decisione politica chiara per far partire l’eolico offshore, con un decreto che stabilisca regole precise su dove realizzare i progetti e investimenti da privilegiare sul territorio italiano, evitando l’importazione di componenti dall’estero. Sul decreto Fer 2, secondo Renexia, occorre ripensare i tempi e le modalità: «Non dovrebbe essere lanciato prima del 2032. Serve un piano che favorisca gli investimenti in Italia e la nascita di una filiera industriale completa». Infine, Toto ha affrontato il tema della transizione energetica e dei limiti imposti dalla legislazione internazionale: la fine dei motori a combustione nel 2035, ad esempio, appare secondo lui irrealistica senza un sistema energetico pronto. «Non si può pensare di arrivare negli Usa con aerei a idrogeno o di avere un sistema completamente elettrico senza basi logiche e infrastrutturali solide».
L’incontro ha così messo in luce le opportunità dell’eolico offshore come leva strategica per innovazione, lavoro e crescita economica, sottolineando l’urgenza di politiche coerenti e investimenti mirati per trasformare l’Italia in un hub energetico competitivo in Europa.
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Da sinistra, Leonardo Meoli (Group Head of Sustainability Business Integration), Marzia Ravanelli (direttrice Quality & Sustainability) di Bonifiche Feraresi, Giuliano Zulin (La Verità) e Nicola Perizzolo (project engineer)
Al panel su Made in Italy e sostenibilità, moderato da Giuliano Zulin, vicedirettore de La Verità, tre grandi realtà italiane si sono confrontate sul tema della transizione sostenibile: Bonifiche Ferraresi, la più grande azienda agricola italiana, Barilla, colosso del food, e Generali, tra i principali gruppi assicurativi europei. Tre prospettive diverse – la terra, l’industria alimentare e la finanza – che hanno mostrato come la sostenibilità, oggi, sia al centro delle strategie di sviluppo e soprattutto della valorizzazione del Made in Italy. «Non sono d’accordo che l’agricoltura sia sempre sostenibile – ha esordito Marzia Ravanelli, direttrice del Gruppo Quality & Sustainability di Bonifiche Ferraresi –. Per sfamare il pianeta servono produzioni consistenti, e per questo il tema della sostenibilità è diventato cruciale. Noi siamo partiti dalla terra, che è la nostra anima e la nostra base, e abbiamo cercato di portare avanti un modello di valorizzazione del Made in Italy e del prodotto agricolo, per poi arrivare anche al prodotto trasformato. Il nostro obiettivo è sempre stato quello di farlo nel modo più sostenibile possibile».
Per Bf, quotata in Borsa e con oltre 11.000 ettari coltivati, la sostenibilità passa soprattutto dall’innovazione. «Attraverso l’agricoltura 4.0 – ha spiegato Ravanelli – siamo in grado di dare al terreno solo quello di cui ha bisogno, quando ne ha bisogno. Così riduciamo al minimo l’uso delle risorse: dall’acqua ai fitofarmaci. Questo approccio è un grande punto di svolta: per anni è stato sottovalutato, oggi è diventato centrale». Ma non si tratta solo di coltivare. L’azienda sta lavorando anche sull’energia: «Abbiamo dotato i nostri stabilimenti di impianti fotovoltaici e stiamo realizzando un impianto di biometano a Jolanda di Savoia, proprio dove si trova la maggior parte delle nostre superfici agricole. L’agricoltura, oltre a produrre cibo, può produrre energia, riducendo i costi e aumentando l’autonomia. È questa la sfida del futuro». Dall’agricoltura si passa all’industria alimentare.
Nicola Perizzolo, project engineer di Barilla, ha sottolineato come la sostenibilità non sia una moda, ma un percorso strutturale, con obiettivi chiari e risorse ingenti. «La proprietà, anni fa, ha preso una posizione netta: vogliamo essere un’azienda di un certo tipo e fare business in un certo modo. Oggi questo significa avere un board Esg che definisce la strategia e un piano concreto che ci porterà al 2030, con un investimento da 168 milioni di euro».Non è un impegno “di facciata”. Perizzolo ha raccontato un esempio pratico: «Quando valutiamo un investimento, per esempio l’acquisto di un nuovo forno per i biscotti, inseriamo nei costi anche il valore della CO₂ che verrà emessa. Questo cambia le scelte: non prendiamo più il forno standard, ma pretendiamo soluzioni innovative dai fornitori, anche se più complicate da gestire. Il risultato è che consumiamo meno energia, pur garantendo al consumatore lo stesso prodotto. È stato uno stimolo enorme, altrimenti avremmo continuato a fare quello che si è sempre fatto».
Secondo Perizzolo, la sostenibilità è anche una leva reputazionale e sociale: «Barilla è disposta ad accettare tempi di ritorno più lunghi sugli investimenti legati alla sostenibilità. Lo facciamo perché crediamo che ci siano benefici indiretti: la reputazione, l’attrattività verso i giovani, la fiducia dei consumatori. Gli ingegneri che partecipano alle selezioni ci chiedono se quello che dichiariamo è vero. Una volta entrati, verificano con mano che lo è davvero. Questo fa la differenza».
Se agricoltura e industria alimentare sono chiamate a garantire filiere più pulite e trasparenti, la finanza deve fare la sua parte nel sostenerle. Leonardo Meoli, Group Head of Sustainability Business Integration di Generali, ha ricordato come la compagnia assicurativa lavori da anni per integrare la sostenibilità nei modelli di business: «Ogni nostra attività viene valutata sia dal punto di vista economico, sia in termini di impatto ambientale e sociale. Abbiamo stanziato 12 miliardi di euro in tre anni per investimenti legati alla transizione energetica, e siamo molto focalizzati sul supporto alle imprese e agli individui nella resilienza e nella protezione dai rischi climatici». Il mercato, ha osservato Meoli, risponde positivamente: «Vediamo che i volumi dei prodotti assicurativi con caratteristiche ESG crescono, soprattutto in Europa e in Asia. Ma è chiaro che non basta dire che un prodotto è sostenibile: deve anche garantire un ritorno economico competitivo. Quando riusciamo a unire le due cose, il cliente risponde bene».
Dalle parole dei tre manager emerge una convinzione condivisa: la sostenibilità non è un costo da sopportare, ma un investimento che rafforza la competitività del Made in Italy. «Non si tratta solo di rispettare regole o rincorrere mode – ha sintetizzato Ravanelli –. Si tratta di creare un modello di sviluppo che tenga insieme produzione, ambiente e società. Solo così possiamo guardare al futuro».In questo incrocio tra agricoltura, industria e finanza, il Made in Italy trova la sua forza. Il marchio non è più soltanto sinonimo di qualità e tradizione, ma sempre di più di innovazione e responsabilità. Dalle campagne di Jolanda di Savoia ai forni di Mulino Bianco, fino alle grandi scelte di investimento globale, la transizione passa per la capacità delle imprese italiane di essere sostenibili senza smettere di essere competitive. È la sfida del presente, ma soprattutto del futuro.
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