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2018-03-24
Salvini sfida Berlusconi e i 5 stelle salgono sul Carroccio
ANSA
Matteo Salvini sgancia la sua bomba atomica e scatena l'ira di Silvio Berlusconi. Giri per l'aula di Montecitorio che si anima di capannelli e capisci: nulla sarà più come prima. E dire che fino alle 5 del pomeriggio nelle due aule del Parlamento, le chiamate al voto, risuonano rituali e sonnacchiose. Il Pd si preparava a una riunione di gruppo serale, raccontata meravigliosamente da un sornione Walter Verini: «L'unica cosa certa è che non potremo più avere 101 franchi tiratori: abbiamo solo 105 parlamentari». La Camera aspetta di capire chi sarà il presidente del Senato, e nel salone Italia di Palazzo Madama, il presidente designato - Paolo Romani - si aggira sorridente e sicuro. Ha in tasca una designazione di coalizione. E in cambio Forza Italia ha concesso che il nome designato al Quirinale sarà il suo. Il patto è congruo. Vittorio Sgarbi squarcia la noia, spiegando alla Camera che ha chiesto l'iscrizione al gruppo del M5s, dopo essere stato il nemico di Luigi Di Maio: «Ho anche votato il femminile di Fico... Purtroppo», sorride, «hanno detto solo che la scheda era nulla». Alla buvette di Montecitorio, più o meno negli stessi minuti, anche un Luigi Di Maio dimagrito e tonico sembra sereno come se il passo del centrodestra su Romani fosse una mossa che lo rafforza: «Sono l'uomo più tranquillo del mondo. Ho fatto una proposta di dialogo. Se invece fanno una mossa che riporta in campo la vecchia politica accadono due cose: che la gente non capisce», sospira il leader pentastellato, «e che ci spalancano le praterie». A quell'ora, se i giochi si fossero chiusi con l'accordo di tutto il centrodestra sul nome di Romani, a Berlusconi sarebbe a sua volta riuscito un doppio colpo: eleggere il suo candidato al Senato e separare la Lega dal M5s (che certo non poteva digerire Forza Italia). Restava da votare il presidente della Camera, che a questo punto poteva passare anche attraverso il sostegno di una maggioranza diversa.
Nel Transatlatico - non si sa come - radio Aula trasmette una voce: Berlusconi ha chiamato al telefono Dario Franceschini? Cosa si sono detti? I leghisti sono seccati. Forse - è il sospetto - i due hanno sondato la possibilità di una intesa (a bassa intensità e a «bassa visibilità») sulla Camera. Il leader azzurro a questo punto avrebbe potuto portare a casa sia la rottura dell'asse gialloverde, la seconda carica dello Stato e un antipasto dell'unica maggioranza che restava possibile a Montecitorio: quella Pd-centrodestra. Che a sua volta sarebbe potuta diventare l'anticipo di un possibile patto di governo con il Pd, magari dopo un giro esplorativo a vuoto di Salvini. Quando Giancarlo Giorgetti entra nell'emiciclo, scherzando, i deputati azzurri lo chiamano «premier». Lui risponde andando a fare una battuta a Mara Carfagna: «Vedrai che se le cose vanno così tu diventi presidente della Camera». Circola qualsiasi ipotesi che preluda e contempli alleanze con il Pd. Poi, improvvisamente, mentre tutto scorre con l'idea che si capirà cosa accade solo dopo l'elezione di Romani (o un altro nome di centrodestra) al quarto voto improvvisamente squilla il telefono di Renato Brunetta, che sta passeggiando sorridente vicino alla buvette. Il capogruppo forzista diventa nero in volto. Dice ai suoi: «Vi saluto. Devo correre a Palazzo Grazioli».
Torno al Senato, per capire cosa accade lì. E capisco perché Berlusconi ha chiamato Brunetta, quando un Salvini in blu si presenta davanti ai giornalisti incravattato e serio: «Abbiamo fatto un passo di responsabilità. Abbiamo votato un candidato di centrodestra, abbiamo rinunciato», dice scandendo le pause, «ad avere un nostro nome sia alla Camera sia al Senato. Convergiamo, facendo un passo indietro, su un candidato di Forza Italia. Speriamo che gli altri facciano altrettanto». Ma proprio qui, all'ultima pausa, Salvini sgancia la bomba, la mossa che fa saltare il tavolo: «Il nome di Forza Italia che stiamo votando è quello di Anna Maria Bernini». Attimo di sconcerto tra i giornalisti: «E Romani?». Il capogruppo non c'è più, come tutti i cardinali che entrano in conclave papi. Ritorno alla Camera, mentre la notizia corre, seminando lo sgomento in Fi. Stefania Prestigiacomo è incredula e, mentre sorseggia un crodino, esclama: «Ma questa non è una mossa politica: questo è un taglio in faccia a Berlusconi!». Al suo fianco c'è Andrea Ruggeri, che del Cavaliere è stato un portavoce. Anche lui attonito, ragiona ad alta voce: «Questa è una mossa pensata per spaccare il partito». Arriva Mara Carfagna: «Dubito che Berlusconi possa accettare una mossa così spudorata». E infatti, come se la Carfagna fosse telepaticamente è collegata a palazzo Grazioli, passa solo un secondo e sul suo telefonino appare la dichiarazione del Cavaliere: «Dalla Lega arriva un atto di ostilità a freddo», dice.
I voti del Carroccio alla Bernini «rompono l'unità della coalizione del centrodestra e smascherano il progetto per un governo Lega-M5S». Un elemento incredibile della politica è la velocità precipitosa con cui iniziano a correre gli eventi. Il programma della giornata sonnolenta prevedeva schede bianche: due votazioni senza esito e tutti a casa. E invece, nell'ufficio di presidenza, il Movimento 5 stelle chiede un voto notturno, in terza serata. E chi sono i primi che accettano? I leghisti. Quando questa seconda notizia si abbatte sul Transatlantico, tutti capiscono che - con una velocità imprevedibile - Salvini e Di Maio sono tornati d'accordo: pagare dollaro, vedere cammello. Anticipando il voto la notte, stamattina si può arrivare ad avere due presidenti eletti, sia al Senato sia alla Camera: un leghista e un pentastellato. Giorgio Mulé, parlamentare azzurro con i titoli nel sangue, fa un commento che è un programma: «Ci stanno smerigliando le chiappe con la sabbia di quarzo!». Bruno Tabacci, non più compassato, guarda già alla conseguenza ultima di questo accordo e sbotta: «Si stanno suicidando, un governo così non sono in grado di tenerlo!». Perché tutti immaginano che quest'operazione abbia un solito esito possibile: un governo Di Maio-Salvini. La Prestigiacomo quasi s'arrabbia: «Cioè Salvini distrugge il centrodestra per andare a fare il vicepremier?». Due deputati leghisti sorridono: «Sarà vicepremier e ministro dell'Interno!». E già si fantastica su un governo gialloverde che fa sia flat tax sia reddito di base. Possibile? Scuote la testa amaramente il moderato (alleato del Pd) Giacomo Portas: «Lo avevo previsto. Vinco le scommesse con tutti. Loro fanno il governo dei vincitori. E noi... lo prendiamo in culo
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Colpo di scena ieri al Senato. Per rimuovere il veto grillino su Paolo Romani, la Lega vota per la forzista Anna Maria Bernini a Palazzo Madama, prefigurando un accordo di governo con Luigi Di Maio. L'ira del Cavaliere: «Rotta l'unità del centrodestra». Matteo Salvini sgancia la sua bomba atomica e scatena l'ira di Silvio Berlusconi. Giri per l'aula di Montecitorio che si anima di capannelli e capisci: nulla sarà più come prima. E dire che fino alle 5 del pomeriggio nelle due aule del Parlamento, le chiamate al voto, risuonano rituali e sonnacchiose. Il Pd si preparava a una riunione di gruppo serale, raccontata meravigliosamente da un sornione Walter Verini: «L'unica cosa certa è che non potremo più avere 101 franchi tiratori: abbiamo solo 105 parlamentari». La Camera aspetta di capire chi sarà il presidente del Senato, e nel salone Italia di Palazzo Madama, il presidente designato - Paolo Romani - si aggira sorridente e sicuro. Ha in tasca una designazione di coalizione. E in cambio Forza Italia ha concesso che il nome designato al Quirinale sarà il suo. Il patto è congruo. Vittorio Sgarbi squarcia la noia, spiegando alla Camera che ha chiesto l'iscrizione al gruppo del M5s, dopo essere stato il nemico di Luigi Di Maio: «Ho anche votato il femminile di Fico... Purtroppo», sorride, «hanno detto solo che la scheda era nulla». Alla buvette di Montecitorio, più o meno negli stessi minuti, anche un Luigi Di Maio dimagrito e tonico sembra sereno come se il passo del centrodestra su Romani fosse una mossa che lo rafforza: «Sono l'uomo più tranquillo del mondo. Ho fatto una proposta di dialogo. Se invece fanno una mossa che riporta in campo la vecchia politica accadono due cose: che la gente non capisce», sospira il leader pentastellato, «e che ci spalancano le praterie». A quell'ora, se i giochi si fossero chiusi con l'accordo di tutto il centrodestra sul nome di Romani, a Berlusconi sarebbe a sua volta riuscito un doppio colpo: eleggere il suo candidato al Senato e separare la Lega dal M5s (che certo non poteva digerire Forza Italia). Restava da votare il presidente della Camera, che a questo punto poteva passare anche attraverso il sostegno di una maggioranza diversa. Nel Transatlatico - non si sa come - radio Aula trasmette una voce: Berlusconi ha chiamato al telefono Dario Franceschini? Cosa si sono detti? I leghisti sono seccati. Forse - è il sospetto - i due hanno sondato la possibilità di una intesa (a bassa intensità e a «bassa visibilità») sulla Camera. Il leader azzurro a questo punto avrebbe potuto portare a casa sia la rottura dell'asse gialloverde, la seconda carica dello Stato e un antipasto dell'unica maggioranza che restava possibile a Montecitorio: quella Pd-centrodestra. Che a sua volta sarebbe potuta diventare l'anticipo di un possibile patto di governo con il Pd, magari dopo un giro esplorativo a vuoto di Salvini. Quando Giancarlo Giorgetti entra nell'emiciclo, scherzando, i deputati azzurri lo chiamano «premier». Lui risponde andando a fare una battuta a Mara Carfagna: «Vedrai che se le cose vanno così tu diventi presidente della Camera». Circola qualsiasi ipotesi che preluda e contempli alleanze con il Pd. Poi, improvvisamente, mentre tutto scorre con l'idea che si capirà cosa accade solo dopo l'elezione di Romani (o un altro nome di centrodestra) al quarto voto improvvisamente squilla il telefono di Renato Brunetta, che sta passeggiando sorridente vicino alla buvette. Il capogruppo forzista diventa nero in volto. Dice ai suoi: «Vi saluto. Devo correre a Palazzo Grazioli». Torno al Senato, per capire cosa accade lì. E capisco perché Berlusconi ha chiamato Brunetta, quando un Salvini in blu si presenta davanti ai giornalisti incravattato e serio: «Abbiamo fatto un passo di responsabilità. Abbiamo votato un candidato di centrodestra, abbiamo rinunciato», dice scandendo le pause, «ad avere un nostro nome sia alla Camera sia al Senato. Convergiamo, facendo un passo indietro, su un candidato di Forza Italia. Speriamo che gli altri facciano altrettanto». Ma proprio qui, all'ultima pausa, Salvini sgancia la bomba, la mossa che fa saltare il tavolo: «Il nome di Forza Italia che stiamo votando è quello di Anna Maria Bernini». Attimo di sconcerto tra i giornalisti: «E Romani?». Il capogruppo non c'è più, come tutti i cardinali che entrano in conclave papi. Ritorno alla Camera, mentre la notizia corre, seminando lo sgomento in Fi. Stefania Prestigiacomo è incredula e, mentre sorseggia un crodino, esclama: «Ma questa non è una mossa politica: questo è un taglio in faccia a Berlusconi!». Al suo fianco c'è Andrea Ruggeri, che del Cavaliere è stato un portavoce. Anche lui attonito, ragiona ad alta voce: «Questa è una mossa pensata per spaccare il partito». Arriva Mara Carfagna: «Dubito che Berlusconi possa accettare una mossa così spudorata». E infatti, come se la Carfagna fosse telepaticamente è collegata a palazzo Grazioli, passa solo un secondo e sul suo telefonino appare la dichiarazione del Cavaliere: «Dalla Lega arriva un atto di ostilità a freddo», dice. I voti del Carroccio alla Bernini «rompono l'unità della coalizione del centrodestra e smascherano il progetto per un governo Lega-M5S». Un elemento incredibile della politica è la velocità precipitosa con cui iniziano a correre gli eventi. Il programma della giornata sonnolenta prevedeva schede bianche: due votazioni senza esito e tutti a casa. E invece, nell'ufficio di presidenza, il Movimento 5 stelle chiede un voto notturno, in terza serata. E chi sono i primi che accettano? I leghisti. Quando questa seconda notizia si abbatte sul Transatlantico, tutti capiscono che - con una velocità imprevedibile - Salvini e Di Maio sono tornati d'accordo: pagare dollaro, vedere cammello. Anticipando il voto la notte, stamattina si può arrivare ad avere due presidenti eletti, sia al Senato sia alla Camera: un leghista e un pentastellato. Giorgio Mulé, parlamentare azzurro con i titoli nel sangue, fa un commento che è un programma: «Ci stanno smerigliando le chiappe con la sabbia di quarzo!». Bruno Tabacci, non più compassato, guarda già alla conseguenza ultima di questo accordo e sbotta: «Si stanno suicidando, un governo così non sono in grado di tenerlo!». Perché tutti immaginano che quest'operazione abbia un solito esito possibile: un governo Di Maio-Salvini. La Prestigiacomo quasi s'arrabbia: «Cioè Salvini distrugge il centrodestra per andare a fare il vicepremier?». Due deputati leghisti sorridono: «Sarà vicepremier e ministro dell'Interno!». E già si fantastica su un governo gialloverde che fa sia flat tax sia reddito di base. Possibile? Scuote la testa amaramente il moderato (alleato del Pd) Giacomo Portas: «Lo avevo previsto. Vinco le scommesse con tutti. Loro fanno il governo dei vincitori. E noi... lo prendiamo in culo<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/i-grillini-tentati-dalle-nozze-con-il-carroccio-2551896962.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="la-lunga-notte-di-forza-italia-allo-sbando-ma-ce-chi-scommette-sulla-ricucitura" data-post-id="2551896962" data-published-at="1765196609" data-use-pagination="False"> La lunga notte di Forza Italia allo sbando. Ma c'è chi scommette sulla ricucitura Bianca, bianca, bianca, pausa. Il presidente emerito Giorgio Napolitano legge qualcosa, ma non mette a fuoco lo scritto. Deve intervenire il coadiutore parlamentare in livrea (si dice così) ad aiutarlo; si china su di lui e gli sussurra un nome. Quello che manda all'aria tutti i piani, quello che mette un cuneo appuntito dentro la coalizione di centrodestra, quello che nella notte più lunga diventa il punto esclamativo di Matteo Salvini davanti a un esterrefatto Silvio Berlusconi: Anna Maria Bernini. La giurista, l'ex ministro per meno di quattro mesi dell'ultimo governo del Cavaliere nel 2013, donna delle istituzioni. E ora involontario simbolo della discordia.La seconda votazione per la presidenza del Senato finisce praticamente lì, con i leghisti che scrivono in massa (57 volte) il nome alternativo a Paolo Romani, candidato ufficiale di Forza Italia concordato con gli alleati. Uno sgarbo in piena regola, e poco tempo per ricucire. Il cinquantottesimo voto è quello di Umberto Bossi, anch'egli per una volta fedele alla linea, ma viene dichiarato nullo perché illeggibile, scritto con mano leggermente tremolante. Subito dopo è il caos, annunciato in diretta da Gaetano Quagliariello: «È un favore che Salvini ha fatto a Forza Italia a sua insaputa. Eravamo d'accordo su Romani, non si possono cambiare le carte in tavola in questo modo. E non mi sembra proprio un atto di amicizia». Quagliariello fatica a mitigare la stizza. E poiché è uno dei colonnelli azzurri più pacati, riflessivi e usi di mondo, la sua reazione ci restituisce la portata e l'impatto di un gesto imprevisto. Anzi, annunciato sottotraccia già da metà pomeriggio da alcuni parlamentari leghisti nei corridoi, ma derubricato a boutade dai berlusconiani. «No, non è un gesto di amicizia, questo è uno strappo, uno strappo in piena regola», tira le somme l'autorevole senatore forzista. «Ma Salvini deve stare attento a non strappare troppo, perché così facendo la Lega rischia di finire per diventare lo junior partner del Movimento 5 stelle». Gli fa eco Renato Schifani: «Abbiamo appreso in aula la scelta della Lega, non concordata né attesa. Il resto deducetelo voi».Il resto è bufera, con i maggiorenti del partito che si riuniscono immediatamente a Palazzo Grazioli per lasciar decantare la delusione e discutere il da farsi. Aleggiano su tutti le parole di Salvini, che un attimo prima del voto aveva spiegato così la scelta di strappare: «Per uscire dal pantano abbiamo deciso di votare Anna Maria Bernini al Senato perché è un candidato del centrodestra. Il nostro è un atto d'amore per il Paese e per la coalizione. Vogliamo vedere se i 5 stelle hanno un vero pregiudizio nei nostri confronti o solo su un nome». Una mossa da consumato scacchista, un gambetto di cavallo che manda all'aria quella che sembrava a tutti una partita a poker da Prima Repubblica. In questo la giocata del leader leghista ha qualcosa di ribelle che spiazza ancora di più e che preoccupa Forza Italia. Tanto da mettere a rischio, almeno a parole e nella notte, le giunte dove la coalizione governa: Lombardia, Veneto, altre Regioni, migliaia di Comuni. Spiega un parlamentare azzurro: «Sembra che Salvini abbia sempre e comunque davanti a sé gli elettori, il suo popolo. Dà l'idea di voler fare in fretta, di voler mettere a posto la questione tirando dritto. E al di là del metodo ruvido, questo decisionismo sulle procedure alla piazza piace».Ora il messaggio in bottiglia è arrivato. Sia a Di Maio, sia a Berlusconi. Nel pomeriggio Fabrizio Cicchitto aveva messo il dito nella piaga: «Sta accadendo qualcosa di paradossale, i due giovani leader vincitori hanno scoperto che esiste Berlusconi e che devono fare i conti con lui». Se la reazione è stata questa, si dovrà tornare presto al tavolo. Il Cavaliere ha tentato la prova di forza su Romani, ma è andata buca. I mattoncini di Lego sono finiti in giro per le stanze del potere e bisogna ricomporli. Ma c'è chi non vuol sentir parlare di sorpresa, come il neo senatore ed ex direttore di Panorama, Giorgio Mulè: «Più che un colpo di scena mi sembra di rileggere la favola di Pollicino. Di Maio e Salvini hanno disseminato la strada di sassolini».Oggi la partita al Senato si chiude. È ancora possibile che Berlusconi tolga dal cilindro uno dei suoi sorprendenti conigli, per esempio far convergere tutti su un terzo nome, quello di Maria Elisabetta Casellati, ex senatrice di Forza Italia, membro del Csm. Ma qualcosa di sorprendente è accaduto anche alla Camera, dove la terza, inconsueta votazione, ha riallineato la corsa alle due presidenze. Oggi sarà slalom parallelo e un accordo tra 5 stelle e Lega potrebbe facilmente eleggere i grillini Roberto Fico o Riccardo Fraccaro alla Camera e (se Forza Italia dovesse ritirare i suoi candidati, consumando lo strappo finale) la leghista Giulia Bongiorno al Senato. Sarebbe la traduzione politica del bollente french kiss dei due leader disegnato dai graffitari su un muro dietro Montecitorio. Dallo stato maggiore di Forza Italia arriva uno spiffero illuminante: «Per noi si aprirebbero praterie all'opposizione. Utili per rinsaldare il gruppo e rinfrescare le idee». Ma è difficile pensare che finisca così, soprattutto perché nessuno realisticamente può immaginare che il genio politico di Berlusconi non sappia inventare anche questa volta una via d'uscita. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/i-grillini-tentati-dalle-nozze-con-il-carroccio-2551896962.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="i-grillini-tentati-dalle-nozze-con-il-carroccio" data-post-id="2551896962" data-published-at="1765196609" data-use-pagination="False"> I grillini tentati dalle nozze con il Carroccio Il murales Luigi Di Maio-Matteo Salvini LaPresse A metà pomeriggio, quando Luigi Di Maio e lo stato maggiore del Movimento preparavano già la strambata di sicurezza sul Pd, i 5 stelle che conoscono meglio le dinamiche di Arcore avevano avvertito: «Adesso Berlusconi ritira Romani senza farsi alcuno scrupolo e ci proporrà una donna votabile, un nome a sorpresa come Lara Magoni, così recupera anche un po' di reputazione alla vigilia dell'uscita del film di Sorrentino sul bunga bunga». E verso sera ecco che Salvini fiuta l'aria e brucia tutti, anche l'ex atleta azzurra passata dall'odiato Roberto Maroni a Giorgia Meloni, e annuncia il voto della Lega all'avvocatessa bolognese. In cambio, a questo punto, per i pentastellati c'è non solo la presidenza della Camera, ma anche la possibilità di scegliere senza chiedere per forza il via libera al Pd. È stata una giornata tesissima, quella di questo breve Aventino del M5s, «traditi» per 48 ore dal leader leghista con cui stavano già ragionando sul programma di un possibile governo. «Noi parlavamo con Giancarlo Giorgetti, che stimiamo, e Salvini ritornava a Palazzo Grazioli come uno scolaretto», si lamentano i vertici del Movimento. Per tutto il giorno, il mantra di Di Maio è stato: «Salvini ci deve far vedere che è libero da Berlusconi, altrimenti noi restiamo fermi immobili e ce la giochiamo alla Camera». Ma in verità, proprio fermi e immobili i grillini non sono stati. Anzi. Hanno preparato il contropiede sul Nazareno per tutto il giorno e il piano era già pronto: alla terza votazione in Senato, quando pensavano che il Pd avrebbe tirato fuori il proprio nome, se non fosse stato un renziano doc lo avrebbero appoggiato. In cambio della convergenza su Roberto Fico per Montecitorio. Un nome votabile, «assolutamente votabile», sarebbe stato quello del senatore Luigi Zanda. «È una persona perbene, ha senso delle istituzioni, non è mai stato un cane da riporto di Renzi», si dice tra i vertici di M5s. L'intesa possibile sulla Bernini, però, rimette nel freezer l'accordo con quel che resta dei democratici. Un partito diviso e con dinamiche interne che i pentastellati, al momento così compatti, stentano completamente a capire. Anche se Luca Lotti, ancora l'altra sera, in una cena riservata, ha detto che «i nostri 150 deputati pesano e peseranno». Il punto è che Di Maio, e specialmente Beppe Grillo e Davide Casaleggio, non si fidano neppure di loro, sul fronte dell'indipendenza dall'odiato Cavaliere. Anzi, proprio Casaleggio e i deputati più ferrati sulle vicende finanziarie e televisive, come la guerra su Telecom e Mediaset tra Berlusconi e Vincent Bolloré di Vivendi, hanno messo in guardia il resto del Movimento dalle manovre del proprietario della Fininvest sulle presidenze delle Camere. «Tra pochi mesi scadono i vertici dell'Antitrust e l'anno prossimo tocca all'Agenzia delle comunicazioni», ha spiegato uno degli esperti di M5s, «e se Berlusconi voleva uno come Romani era solo per mantenere il controllo su queste nomine che per lui valgono miliardi di euro». Così, nessun veto sulla Bernini, ma anche perché il Movimento è una formazione politica giovane e non tutti, a parte forse i giornalisti Gianluigi Paragone ed Emilio Carelli, ricordano che suo padre Giorgio fu ministro nel primo governo Berlusconi e anche membro dell'Antitrust. Di sicuro c'era un maggior gradimento per l'ex sciatrice Magoni, anche perché il suo fresco sbarco dalla lista «Maroni presidente» a Fratelli d'Italia dava al Movimento maggior garanzia di lontananza da Fininvest. Perché sì, nel 2018 e a ben 24 anni dalla mitica «discesa in campo», per i 5 stelle un Berlusconi che dicevano in declino è tornato a incarnare il Male assoluto. «Anche solo una foto con lui avrebbe danneggiato l'immagine di Luigi», dicono molti deputati, che ricordano un lungo post di Grillo sul suo nuovo sito, un mese fa, in cui Berlusconi era di nuovo «lo psiconano», come dieci anni fa. Non hanno giovato ai rapporti con l'ex premier di Forza Italia anche una serie di «veleni» sul Movimento, tirati fuori sui media di area, come quelli sulla presunta «lobby gay litigiosissima» all'ombra di Di Maio. E poi, di nuovo, la convinzione che un senatore di M5s riassume così: «Berlusconi vuole solo difendere la sua roba». Vero o falso che sia, la linea resta una: «Noi e la Lega siamo gli unici che non hanno paura di tornare a votare e questo ci dà una libertà totale. L'importante è non sporcarsi le mani». Non facile, se la legislatura comincia già con una giornata come quella di ieri. Francesco Bonazzi
Emmanuel Macron (Ansa)
Con un’accusa per nulla leggera: «Avete pubblicato un link ingannevole». Rispondono da Bruxelles: «Noi? Noi siamo correttissimi». Parola di Kaja Kallas, che stempera: «Vediamo a volte le cose diversamente, ma gli Usa restano il nostro primo alleato». Chissà se Gentiloni iscriverà la Kallas tra gli adulatori. Certo con La Stampa non l’ha toccata piano: «Trump ha scritto l’epitaffio delle relazioni atlantiche, lui vede nell’Ue una proiezione dei suoi nemici interni. E colgo una contraddizione: c’è la pretesa di rinchiudersi e allo stesso tempo di esercitare un dominio economico». Poi se la prende con Giorgia Meloni: «Minimizzare - come fa lei - è rischioso: si troverà in mezzo al guado con la deriva dei continenti tra America ed Europa». E poi la lezioncina, che contraddice a qualsisia regola di mercato: «L’Europa deve reagire e usare gli asset russi per finanziare l’Ucraina». Sarebbe da chiedere a Gentiloni: secondo lei chi verrà dopo a investire in Europa? È una preoccupazione che i talebani dell’Ue non si pongono. Intanto, tornando a Meloni, ieri il premier ha avuto una telefonata con Volodymyr Zelensky nella quale ha ribaditola solidarietà italiana di fronte agli attacchi russi. I due leader si sono confrontati sul processo di pace in corso, in vista delle visite del presidente ucraino a Londra, Bruxelles s Roma. Meloni ha anche annunciato l’invio di forniture di emergenza a sostegno delle infrastrutture energetiche e della popolazione. Lodando la buona fede di Kiev, si è augurata, inoltre, che Mosca faccia altrettanto.
Ieri è stato un profluvio di reazioni tra il minaccioso e l’indignato contro Donald Trump che fa i suoi interessi e quelli dell’America, come peraltro pensa di fare Emmanuel Macron che, credendosi appunto Trump, scopre il fascino dei dazi: li minaccia contro la Cina, rea di invaderci con la sua merce. Dovrebbe telefonare a Romano Prodi, che sul Messaggero sabato si lamentava del fatto che in risposta al presidente americano non abbiamo ancora cercato ampie intese con la Cina. In questo quadro gongolano a Mosca, dove Dmitry Peskov - portavoce del Cremlino - osserva: «I cambiamenti adottati da Donald Trump sulla strategia per la sicurezza nazionale - che critica duramente l’Europa evocando il rischio di cancellazione della civiltà - sono coerenti con la visione di Mosca e possono garantire un lavoro costruttivo con gli Usa sulla soluzione ucraina». Ma è difficile accettare che l’Ue sia giudicata irrilevante da Washington e da Mosca all’unisono, così ecco la messe di dichiarazioni a difesa dell’Europa. Charles Kupchan, già consigliere di Barak Obama, sostiene sul Corriere che la posizione anti Ue è dei Maga, ma che Trump o non l’ha letta o non l’ha capita; Yves Mény, politologo della gauche caviar, sentenzia sulla Stampa - citando addirittura Charles de Gaulle - che «siamo nell’epoca post-occidentale e si è scavato un fossato incolmabile tra Europa e Usa, che stanno facendo prevalere i loro egoistici interessi». Ursula von der Leyen fa sapere: «Siamo solo noi a decidere sulle nostre democrazie». Parola magica che piace al maître à penser per eccellenza, Jaques Attali, che ha dato il «la» con un post che ritrae la bandiera europea alla campagna «questa è la bandiera di alcuni dei Paesi più liberi, pacifici e democratici del mondo». Qualcuno ha aggiunto «Elon Musk fuck you» e a mister X non è andata giù: ieri sera ha replicato con una bandiera dell’Ue con una svastica e la scritta «Quarto Reich».
Che l’Ue abbia confidenza con la democrazia a geometria variabile è dimostrato dal viaggio in Cina di Emmanuel Macron, che a Pechino ha blandito Xi Jinping, ma appena rientrato se ne è uscito con una delle sue: «Se Pechino non fa nulla per ridurre il nostro deficit commerciale nei confronti della Cina praticheremo nei prossimi mesi dei dazi sulle loro merci». L’inquilino dell’Eliseo ha scoperto che la Cina con auto e meccanica ha colpito al cuore l’industria europea (forse gli abbiamo dato qualche vantaggio col Green deal?). Macron per primo è però consapevole che trovare l’intesa in Ue è difficile perché, ad esempio, la Germania sta facendo grossi affari con Pechino. Basterebbe questo per dire che forse Trump tutti i torti non li ha. Anche perché Macron, che fino a ieri ha parlato malissimo dei dazi americani - la Cina però gli ha colpito vino e maiale e ai francesi non va giù -, ora li vuole usare. Viene da chiedersi anche se sia lo stesso Macron che, quando Giorgia Meloni cercava con gli Usa un compromesso sulle tariffe, l’apostrofò sostenendo che stava tradendo l’Ue, la sola titolata a trattare sui dazi. Ammesso che l’Europa esista.
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Davide Rondoni (Imagoeconomica)
È stato nominato dal governo presidente del Comitato per le celebrazioni in occasione dell’ottavo centenario della morte di San Francesco d’Assisi, il patrono d’Italia. Ma nelle ultime settimane è tornato a «solcare» la cronaca politica per una polemica con il sindaco di Bologna Matteo Lepore. Intervenendo a Quarta Repubblica, la trasmissione condotta da Nicola Porro su Rete 4, il poeta, commentando gli scontri tra pro Pal e polizia prima, durante e dopo la partita di basket tra Virtus e Maccabi Tel Aviv, ha notato: «C’è una collusione tra il Comune e un certo potere politico con delle frange estremiste. Continuare a dire che anche lo sport è un’operazione di guerra non è evidentemente un’operazione di pace, è fomentare lo scontro e questo un sindaco, che sia Lepore o qualcun altro, non deve farlo». Con Rondoni però è inevitabile alzare il livello, quindi sì ad uno sguardo sulla «tristezza» di Bologna, ma luce accesa su San Francesco.
Partiamo da San Francesco: lei è presidente del Comitato per l’ottavo centenario. In che direzione si muovono e come si articolano le celebrazioni?
«Con il Comitato abbiamo promosso iniziative che resteranno nel tempo e patrocinato e “sommosso” un serie di eventi che danno il senso di quella “esplosione di vita” che da secoli viene dal Santo e poeta di Assisi. Nel sito ufficiale se ne dà conto e chiunque può consultarlo (sanfrancesco800.cultura.gov.it, ndr), dalle statue nuove in dieci città italiane al campo da calcio per ragazzi meno fortunati in Egitto, dalla imponente opera di digitalizzazione della Biblioteca del Sacro Convento e delle nuove fonti, fino all’avvio di un’opera di armonizzazione delle proposte del Cammino di san Francesco. Ma davvero siamo felicemente travolti, tra intitolazioni di ponti, come a Roma, di istituti penali minorili, la nascita della Scuola dei Giullari a Rieti, iniziative in diverse università come Iulm, Urbino, Catania... E poi opere teatrali, musicali, audiovisive, ripristino della cella del Santo a Trastevere, nonché da oltre 50 iniziative in giro per il mondo... E nostra è stata l’idea di riprendere la Festa nazionale del Patrono il 4 ottobre. Nel 2026 cade di domenica, festa nella festa, e dal 2027 avrà corso grazie al voto unanime con cui il Parlamento ha accolto la proposta che lanciai lo scorso anno da Assisi».
Facciamo un gioco: se Francesco vedesse la nostra contemporaneità vivrebbe questo tempo come una delle sue stimmate o come una frontiera di nuova evangelizzazione?
«Come un tempo dove vivere lietamente la sua fede, la sua amante povertà e la sua amicizia coi suoi bro, coi suoi frati».
Lei è cattolico: sente un cambiamento nella proposizione della Chiesa con l’avvento di Leone XIV?
«Io sono un cattolico anarchico di rito romagnolo. Siamo anticlericali, ma il Papa ci sta simpatico. Leone mi pare uno lieto, in senso francescano, e abissale in senso agostiniano».
Viviamo, ci dicono i governanti europei, un tempo di guerra, il che alimenta da una parte egoismi e paure e dall’altra l’ipocrisia dei pacifinti. Visto con gli occhi del credente e con l’animo del poeta questo tempo com’è? Disorientato, depresso, disperato?
«È un tempo come tutti, pieno di dolore e di cose magnifiche. Un tempo in cui può esser bello riscoprire la bellezza di essere “creature”, la bellezza che sconfigge ansia e disperazione».
Un aspetto della predicazione francescana che viene molto tirato per il saio, se mi passa l’espressione, è il suo incontro con l’islam. Lei come giudica quel tempo? E oggi l’incontro con l’islam non è foriero di una distorsione politica, di una sorta di abdicazione alla nostra identità per convenienza?
«Francesco va dal Sultano per provare a convertirlo, ad annunciare il Vangelo. Il capo islamico che ha nella sua tradizione i monaci ascolta il monaco dei cristiani. Noi siamo una terra di incontro tra oriente islamico e occidente cattolico, cioè di tradizioni dove esiste la figura del monaco che ricorda a tutti che il mondo è di Dio. Certo, ogni guerra usa anche la religione per i propri fini di potere. Ma noi dobbiamo essere una terra ponte, per cuori che desiderano la pace. L’identità si afferma con la letizia, la ragionevolezza».
Ha avuto una polemica robusta col sindaco di Bologna Matteo Lepore per le «devastazioni» pro Pal. Lei ha parlato di collusione con gli sfascisti. Ne è ancora convinto? Da questo dipendono altre considerazioni: c’è un antisemitismo di ritorno? Bologna, che era città di gioia e intelletto, si è davvero intristita ed è specchio di questo tempo?
«Bologna da un pezzo vive una stanca stagione che il cardinal Giacomo Biffi indicò come “sazia e disperata”. E che già Pier Paolo Pasolini indicava come mancanza del senso di alterità, cioè tendente alla omologazione. Lepore non è una causa, ma uno dei piccoli e poco originali effetti. Le ideologie ottundono. Che ci siano rischi di antisemitismo, come di altri anti qualcosa usati per affermare visioni ideologiche, violente e non pacifiche non è una novità. Io sono a favore di Bologna, perché grazie alla sua storia millenaria è una bella città dove sono nati o han vissuto Guinizzelli, Reni, la Sirani, Marconi, Morandi e l’amico Lucio Dalla, e dove ci sono un sacco di magnifiche persone. E dico, anche da tifoso, pur essendo romagnolo, viva Bologna! Poi spero che dopo cinquant’anni cambi il governo decadente della città. Se poi i bolognesi vogliono tenerselo, viva la democrazia, e si tengano una città sempre meno interessante...».
Che ne pensa del luogocomunismo dilagante, del rendere tutto rivendicazione, del trasformare i desideri in diritti e avere la pretesa che poi diventino diritto? Questo sia di fronte alla legge sul consenso ai rapporti sessuali, sia all’utero in affitto, all’eutanasia. Insomma non c’è una devalorizzazione del mistero, della complessità e della fatica lieta della vita?
«C’è una scontentezza di fondo che attanaglia il vivere di molti e che dunque muove alla rivendicazione anche al di là del rispetto di un principio di realtà. E questo provoca più scontentezza, che nessuna proliferazione di presunti diritti può cambiare in gioia. Semmai si cade preda di paradossi continui, di burocrazie e di ridicole e pericolose polizie del pensiero e del linguaggio».
Una domanda estratta dalla cronaca: avrà seguito la vicenda della famiglia nel bosco. Le chiedo non solo cosa pensa di questo comunque dividersi in schieramenti senza affrontare le questioni, ma uno dei punti caldi è l’istruzione dei bambini. Ecco, come sta messa la scuola?
«Non ho elementi per valutare il profilo giuridico della cosa. Se non altro la vicenda muove molte domande su cosa significa educare dei figli e dei giovani. La scuola italiana va riformata radicalmente o è meglio chiuderla. E la riforma sta nell’abbandonare il paradigma enciclopedico e statalista a favore di una vera scuola dei talenti. Ci vuole coraggio, ma la situazione dei giovani che sono meravigliosi e frustrati in questo Paese merita tale coraggio. Su questo, come ho detto alla premier, valuterò - per quel che vale il mio modestissimo parere - la classe politica al governo».
Ultima ma gigantesca domanda: c’è ancora poesia nel nostro vivere? E quanto bisogno abbiamo di poesia e quanto spazio ha la poesia?
«Vivere è scoprire continuamente la poesia che c’è nella vita e nel suo mistero. Tutto il resto è noia».
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Un Centro di assistenza fiscale (Ansa)
È l’incredibile storia della Società di servizi Cgil Sicilia srl, nata per organizzare sul territorio siciliano i servizi dei Caf, l’assistenza fiscale, controllata dalla Cgil Sicilia e da una serie di Camere del lavoro del sindacato sparse sul territorio dell’isola, che la trasmissione di Rai 3 Lo Stato delle cose, condotta da Massimo Giletti, racconterà nella puntata in onda stasera alle 21.30.
Nel servizio, realizzato dall’inviato Alessio Lasta, una frase, pronunciata dal commercialista Giannicola Rocca, già presidente della commissione crisi e risanamento di impresa dell’Ordine dei commercialisti di Milano, riassume meglio di tutte la situazione della società controllata dal sindacato guidato da Maurizio Landini. Chiamato dalla trasmissione ad analizzare i bilanci, Rocca ha riassunto così lo stato dei conti della Società di servizi Cgil Sicilia srl: «Se posso sintetizzare, questa è una società che si è finanziata non versando i contributi».
Come detto, il principale creditore della Società di servizi Cgil Sicilia è l’Agenzia delle entrate, che vanta pendenze per circa 3.350.000 euro per mancato versamento di contributi di assicurazione obbligatoria per invalidità, vecchiaia, superstiti e infortuni sul lavoro, ovverosia tutta la parte contributiva e assistenziale che la società deve versare obbligatoriamente per legge a Inps e Agenzia delle entrate per la tutela dei lavoratori. Altri 377.000 euro riguardano crediti per tributi diretti dello Stato, per imposta sul valore aggiunto e contributi degli enti locali non versati. Gli altri creditori sono l’Istituto di case popolari di Enna e due privati, un professionista e un dipendente a tempo determinato.
Secondo quanto ricostruito nel servizio, quest’ultimo, un ex addetto alle pratiche del Caf, deve ricevere 150.000 euro. Per l’ex presidente del consiglio d’amministrazione della società, Giuseppe La Loggia, oggi a capo dell’Inca (Istituto nazionale confederale di assistenza) della Sicilia, però è tutto a posto. Anche se di fronte alle domande dell’inviato Alessio Lasta, che gli chiedeva conto del motivo per cui la società non abbia pagato contributi Inps e Inail ai lavoratori e non abbia versato l’Iva, il sindacalista ha manifestato un notevole nervosismo. I due si incontrano in un centro congressi di Aci Castello, vicino a Catania.
L’occasione è un’assemblea della Cgil siciliana, alla quale partecipa anche il segretario nazionale Landini. L’inviato e La Loggia si sono già conosciuti in occasione di un precedente servizio della trasmissione che, a quanto pare, il sindacalista non ha gradito, tanto che inizialmente cerca di allontanare il giornalista in maniera sbrigativa: «Sei stato stronzo a fare quello che hai fatto, eravamo rimasti che ci dovevamo vedere e tu hai mandato il servizio», dice a Lasta davanti alla telecamera. E quando il giornalista gli fa notare che ci sono più di 3 milioni di debiti per i contributi non versati, il sindacalista risponde sprezzante: «E qual è il problema?». E alla domanda «Lei era presidente del consiglio di amministrazione, questa società è fallita», risponde con una frase che ha quasi dell’incredibile: «Come tante società falliscono in Italia, quindi qual è problema? L’amministravo? Mi assumo le mie responsabilità».
Che, a quanto pare, non sono un ostacolo al ruolo di responsabile regionale dell’Inca in Sicilia, sul cui sito, ironia della sorte, si può leggere la frase: «L’Inca tutela e promuove i diritti riconosciuti a tutte le persone dalle disposizioni normative e contrattuali - italiane, comunitarie e internazionali - riguardanti il lavoro, la salute, la cittadinanza, l’assistenza sociale ed economica, la previdenza pubblica e complementare».
E anche per Landini, la situazione della Società di servizi Cgil Sicilia non sembra essere un grosso problema. «Sono state fatte delle cose non buone, non a caso si è intervenuti, stiamo gestendo la liquidazione». Una risposta che sembra non tenere a mente che a gestire la liquidazione, su richiesta della Procura di Catania, accolta dal tribunale, è un liquidatore giudiziario.
Per Landini, però, «il problema adesso non è guardare se ci sono stai degli errori, il problema è se chi ha visto gli errori si è assunto la responsabilità di intervenire». Ma alla domanda sull’opportunità che La Loggia sia a capo dell’Inca, il segretario confederale replica: «Qui, localmente, noi stiamo gestendo tutto il rapporto con il tribunale, stiamo facendo tutto quello che c’è da fare. Noi stiamo mettendo a posto tutte le cose».
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Ansa
Cinque giorni di sciopero con la città bloccata dai sindacalisti. «È stata, però, una mobilitazione di lotta necessaria, non solo per la difesa di più di 1.000 posti di lavoro ma anche per tutta Genova. Abbiamo strappato un’importante continuità produttiva per lo stabilimento di Cornigliano, almeno fino a febbraio Cornigliano non chiude e con esso continua a vivere la città e il quartiere». Lancio di fumogeni e uova contro gli agenti, mezzi di lavoro contro le reti di protezione, stazione di Brignole occupata oltre agli insulti sessiti al premier Giorgia Meloni per la Cgil sono stati «disagi», non certo una guerriglia urbana molto vicina a una rivolta sociale.
Inoltre, nessun accenno alle polemiche e alla degenerazione scaturita venerdì scorso quando una parte della Fiom e alcuni esponenti politici hanno indetto uno sciopero territoriale a cui la Uilm non ha aderito. «Noi partecipiamo agli scioperi proclamati dalle organizzazioni sindacali legittimate, non da partiti politici o da singoli esponenti», aveva spiegato il segretario generale Uilm, Rocco Palombella, riferendosi alla proclamazione attribuita all’ex dirigente Fiom, Franco Grondona. Comunque, pur non partecipando all’assemblea dei lavoratori delegati e sindacalisti, si erano avvicinati ai cancelli dello stabilimento e lì «sono stati presi a calci e pugni da individui con la felpa Fiom. Un’azione premeditata di Lotta continua», aveva commentato Antonio Apa, segretario generale della Uil Liguria. «Un attacco squadrista», aveva rincarato la dose il segretario generale della Uil Liguria, Riccardo Serri.
A rimetterci, il segretario generale della Uilm Genova, Luigi Pinasco, raggiunto da alcuni cazzotti e da una testata, mentre il segretario organizzativo Claudio Cabras aveva ricevuto colpi al petto e a una gamba. Entrambi, finiti al pronto soccorso, hanno poi presentato denuncia in questura. E benché il leader nazionale della Uil, Pierpaolo Bombardieri, abbia parlato di «episodio squadrista che rischia di portare a derive vicine al terrorismo», dai colleghi di Cgil e Cisl non è arrivata alcuna condanna. Anzi, in una nota congiunta del leader Maurizio Landini e del segretario generale della Fiom, Michele De Palma, si legge: «Il forte clima di tensione al presidio sindacale non può essere in alcun modo strumentalizzato né, tanto meno, irresponsabilmente associato al terrorismo. La Fiom e la Cgil si sono sempre battuti contro il terrorismo e per affermare la democrazia, anche a costo della perdita della vita come accaduto proprio all’ex Ilva di Genova al nostro delegato Guido Rossa. Restiamo impegnati a ripristinare un clima di confronto costruttivo e di rispetto delle differenze per dare una positiva soluzione alla vertenza ex Ilva, in sintonia con le legittime aspettative di tutte le lavoratrici e di tutti i lavoratori rese manifeste dallo sciopero dei metalmeccanici tenutosi a Genova».
Quasi fosse responsabilità dei sindacalisti Uil, il segretario Landini ha minimizzato l’episodio così come continua a non voler vedere il distacco con la Uil, prima sempre al fianco della Cgil per scioperare e, soprattutto, attaccare il governo. Un fatto grave che non ha meritato parole di solidarietà. Fim e Fiom si scusano con i genovesi per i pesanti disagi provocati per la loro mobilitazione sul futuro dell’ex Ilva ligure ben sapendo che nell’ex Ilva di Taranto è proprio la Uilm il primo sindacato.
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