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2018-03-24
Salvini sfida Berlusconi e i 5 stelle salgono sul Carroccio
ANSA
Matteo Salvini sgancia la sua bomba atomica e scatena l'ira di Silvio Berlusconi. Giri per l'aula di Montecitorio che si anima di capannelli e capisci: nulla sarà più come prima. E dire che fino alle 5 del pomeriggio nelle due aule del Parlamento, le chiamate al voto, risuonano rituali e sonnacchiose. Il Pd si preparava a una riunione di gruppo serale, raccontata meravigliosamente da un sornione Walter Verini: «L'unica cosa certa è che non potremo più avere 101 franchi tiratori: abbiamo solo 105 parlamentari». La Camera aspetta di capire chi sarà il presidente del Senato, e nel salone Italia di Palazzo Madama, il presidente designato - Paolo Romani - si aggira sorridente e sicuro. Ha in tasca una designazione di coalizione. E in cambio Forza Italia ha concesso che il nome designato al Quirinale sarà il suo. Il patto è congruo. Vittorio Sgarbi squarcia la noia, spiegando alla Camera che ha chiesto l'iscrizione al gruppo del M5s, dopo essere stato il nemico di Luigi Di Maio: «Ho anche votato il femminile di Fico... Purtroppo», sorride, «hanno detto solo che la scheda era nulla». Alla buvette di Montecitorio, più o meno negli stessi minuti, anche un Luigi Di Maio dimagrito e tonico sembra sereno come se il passo del centrodestra su Romani fosse una mossa che lo rafforza: «Sono l'uomo più tranquillo del mondo. Ho fatto una proposta di dialogo. Se invece fanno una mossa che riporta in campo la vecchia politica accadono due cose: che la gente non capisce», sospira il leader pentastellato, «e che ci spalancano le praterie». A quell'ora, se i giochi si fossero chiusi con l'accordo di tutto il centrodestra sul nome di Romani, a Berlusconi sarebbe a sua volta riuscito un doppio colpo: eleggere il suo candidato al Senato e separare la Lega dal M5s (che certo non poteva digerire Forza Italia). Restava da votare il presidente della Camera, che a questo punto poteva passare anche attraverso il sostegno di una maggioranza diversa.
Nel Transatlatico - non si sa come - radio Aula trasmette una voce: Berlusconi ha chiamato al telefono Dario Franceschini? Cosa si sono detti? I leghisti sono seccati. Forse - è il sospetto - i due hanno sondato la possibilità di una intesa (a bassa intensità e a «bassa visibilità») sulla Camera. Il leader azzurro a questo punto avrebbe potuto portare a casa sia la rottura dell'asse gialloverde, la seconda carica dello Stato e un antipasto dell'unica maggioranza che restava possibile a Montecitorio: quella Pd-centrodestra. Che a sua volta sarebbe potuta diventare l'anticipo di un possibile patto di governo con il Pd, magari dopo un giro esplorativo a vuoto di Salvini. Quando Giancarlo Giorgetti entra nell'emiciclo, scherzando, i deputati azzurri lo chiamano «premier». Lui risponde andando a fare una battuta a Mara Carfagna: «Vedrai che se le cose vanno così tu diventi presidente della Camera». Circola qualsiasi ipotesi che preluda e contempli alleanze con il Pd. Poi, improvvisamente, mentre tutto scorre con l'idea che si capirà cosa accade solo dopo l'elezione di Romani (o un altro nome di centrodestra) al quarto voto improvvisamente squilla il telefono di Renato Brunetta, che sta passeggiando sorridente vicino alla buvette. Il capogruppo forzista diventa nero in volto. Dice ai suoi: «Vi saluto. Devo correre a Palazzo Grazioli».
Torno al Senato, per capire cosa accade lì. E capisco perché Berlusconi ha chiamato Brunetta, quando un Salvini in blu si presenta davanti ai giornalisti incravattato e serio: «Abbiamo fatto un passo di responsabilità. Abbiamo votato un candidato di centrodestra, abbiamo rinunciato», dice scandendo le pause, «ad avere un nostro nome sia alla Camera sia al Senato. Convergiamo, facendo un passo indietro, su un candidato di Forza Italia. Speriamo che gli altri facciano altrettanto». Ma proprio qui, all'ultima pausa, Salvini sgancia la bomba, la mossa che fa saltare il tavolo: «Il nome di Forza Italia che stiamo votando è quello di Anna Maria Bernini». Attimo di sconcerto tra i giornalisti: «E Romani?». Il capogruppo non c'è più, come tutti i cardinali che entrano in conclave papi. Ritorno alla Camera, mentre la notizia corre, seminando lo sgomento in Fi. Stefania Prestigiacomo è incredula e, mentre sorseggia un crodino, esclama: «Ma questa non è una mossa politica: questo è un taglio in faccia a Berlusconi!». Al suo fianco c'è Andrea Ruggeri, che del Cavaliere è stato un portavoce. Anche lui attonito, ragiona ad alta voce: «Questa è una mossa pensata per spaccare il partito». Arriva Mara Carfagna: «Dubito che Berlusconi possa accettare una mossa così spudorata». E infatti, come se la Carfagna fosse telepaticamente è collegata a palazzo Grazioli, passa solo un secondo e sul suo telefonino appare la dichiarazione del Cavaliere: «Dalla Lega arriva un atto di ostilità a freddo», dice.
I voti del Carroccio alla Bernini «rompono l'unità della coalizione del centrodestra e smascherano il progetto per un governo Lega-M5S». Un elemento incredibile della politica è la velocità precipitosa con cui iniziano a correre gli eventi. Il programma della giornata sonnolenta prevedeva schede bianche: due votazioni senza esito e tutti a casa. E invece, nell'ufficio di presidenza, il Movimento 5 stelle chiede un voto notturno, in terza serata. E chi sono i primi che accettano? I leghisti. Quando questa seconda notizia si abbatte sul Transatlantico, tutti capiscono che - con una velocità imprevedibile - Salvini e Di Maio sono tornati d'accordo: pagare dollaro, vedere cammello. Anticipando il voto la notte, stamattina si può arrivare ad avere due presidenti eletti, sia al Senato sia alla Camera: un leghista e un pentastellato. Giorgio Mulé, parlamentare azzurro con i titoli nel sangue, fa un commento che è un programma: «Ci stanno smerigliando le chiappe con la sabbia di quarzo!». Bruno Tabacci, non più compassato, guarda già alla conseguenza ultima di questo accordo e sbotta: «Si stanno suicidando, un governo così non sono in grado di tenerlo!». Perché tutti immaginano che quest'operazione abbia un solito esito possibile: un governo Di Maio-Salvini. La Prestigiacomo quasi s'arrabbia: «Cioè Salvini distrugge il centrodestra per andare a fare il vicepremier?». Due deputati leghisti sorridono: «Sarà vicepremier e ministro dell'Interno!». E già si fantastica su un governo gialloverde che fa sia flat tax sia reddito di base. Possibile? Scuote la testa amaramente il moderato (alleato del Pd) Giacomo Portas: «Lo avevo previsto. Vinco le scommesse con tutti. Loro fanno il governo dei vincitori. E noi... lo prendiamo in culo
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Colpo di scena ieri al Senato. Per rimuovere il veto grillino su Paolo Romani, la Lega vota per la forzista Anna Maria Bernini a Palazzo Madama, prefigurando un accordo di governo con Luigi Di Maio. L'ira del Cavaliere: «Rotta l'unità del centrodestra». Matteo Salvini sgancia la sua bomba atomica e scatena l'ira di Silvio Berlusconi. Giri per l'aula di Montecitorio che si anima di capannelli e capisci: nulla sarà più come prima. E dire che fino alle 5 del pomeriggio nelle due aule del Parlamento, le chiamate al voto, risuonano rituali e sonnacchiose. Il Pd si preparava a una riunione di gruppo serale, raccontata meravigliosamente da un sornione Walter Verini: «L'unica cosa certa è che non potremo più avere 101 franchi tiratori: abbiamo solo 105 parlamentari». La Camera aspetta di capire chi sarà il presidente del Senato, e nel salone Italia di Palazzo Madama, il presidente designato - Paolo Romani - si aggira sorridente e sicuro. Ha in tasca una designazione di coalizione. E in cambio Forza Italia ha concesso che il nome designato al Quirinale sarà il suo. Il patto è congruo. Vittorio Sgarbi squarcia la noia, spiegando alla Camera che ha chiesto l'iscrizione al gruppo del M5s, dopo essere stato il nemico di Luigi Di Maio: «Ho anche votato il femminile di Fico... Purtroppo», sorride, «hanno detto solo che la scheda era nulla». Alla buvette di Montecitorio, più o meno negli stessi minuti, anche un Luigi Di Maio dimagrito e tonico sembra sereno come se il passo del centrodestra su Romani fosse una mossa che lo rafforza: «Sono l'uomo più tranquillo del mondo. Ho fatto una proposta di dialogo. Se invece fanno una mossa che riporta in campo la vecchia politica accadono due cose: che la gente non capisce», sospira il leader pentastellato, «e che ci spalancano le praterie». A quell'ora, se i giochi si fossero chiusi con l'accordo di tutto il centrodestra sul nome di Romani, a Berlusconi sarebbe a sua volta riuscito un doppio colpo: eleggere il suo candidato al Senato e separare la Lega dal M5s (che certo non poteva digerire Forza Italia). Restava da votare il presidente della Camera, che a questo punto poteva passare anche attraverso il sostegno di una maggioranza diversa. Nel Transatlatico - non si sa come - radio Aula trasmette una voce: Berlusconi ha chiamato al telefono Dario Franceschini? Cosa si sono detti? I leghisti sono seccati. Forse - è il sospetto - i due hanno sondato la possibilità di una intesa (a bassa intensità e a «bassa visibilità») sulla Camera. Il leader azzurro a questo punto avrebbe potuto portare a casa sia la rottura dell'asse gialloverde, la seconda carica dello Stato e un antipasto dell'unica maggioranza che restava possibile a Montecitorio: quella Pd-centrodestra. Che a sua volta sarebbe potuta diventare l'anticipo di un possibile patto di governo con il Pd, magari dopo un giro esplorativo a vuoto di Salvini. Quando Giancarlo Giorgetti entra nell'emiciclo, scherzando, i deputati azzurri lo chiamano «premier». Lui risponde andando a fare una battuta a Mara Carfagna: «Vedrai che se le cose vanno così tu diventi presidente della Camera». Circola qualsiasi ipotesi che preluda e contempli alleanze con il Pd. Poi, improvvisamente, mentre tutto scorre con l'idea che si capirà cosa accade solo dopo l'elezione di Romani (o un altro nome di centrodestra) al quarto voto improvvisamente squilla il telefono di Renato Brunetta, che sta passeggiando sorridente vicino alla buvette. Il capogruppo forzista diventa nero in volto. Dice ai suoi: «Vi saluto. Devo correre a Palazzo Grazioli». Torno al Senato, per capire cosa accade lì. E capisco perché Berlusconi ha chiamato Brunetta, quando un Salvini in blu si presenta davanti ai giornalisti incravattato e serio: «Abbiamo fatto un passo di responsabilità. Abbiamo votato un candidato di centrodestra, abbiamo rinunciato», dice scandendo le pause, «ad avere un nostro nome sia alla Camera sia al Senato. Convergiamo, facendo un passo indietro, su un candidato di Forza Italia. Speriamo che gli altri facciano altrettanto». Ma proprio qui, all'ultima pausa, Salvini sgancia la bomba, la mossa che fa saltare il tavolo: «Il nome di Forza Italia che stiamo votando è quello di Anna Maria Bernini». Attimo di sconcerto tra i giornalisti: «E Romani?». Il capogruppo non c'è più, come tutti i cardinali che entrano in conclave papi. Ritorno alla Camera, mentre la notizia corre, seminando lo sgomento in Fi. Stefania Prestigiacomo è incredula e, mentre sorseggia un crodino, esclama: «Ma questa non è una mossa politica: questo è un taglio in faccia a Berlusconi!». Al suo fianco c'è Andrea Ruggeri, che del Cavaliere è stato un portavoce. Anche lui attonito, ragiona ad alta voce: «Questa è una mossa pensata per spaccare il partito». Arriva Mara Carfagna: «Dubito che Berlusconi possa accettare una mossa così spudorata». E infatti, come se la Carfagna fosse telepaticamente è collegata a palazzo Grazioli, passa solo un secondo e sul suo telefonino appare la dichiarazione del Cavaliere: «Dalla Lega arriva un atto di ostilità a freddo», dice. I voti del Carroccio alla Bernini «rompono l'unità della coalizione del centrodestra e smascherano il progetto per un governo Lega-M5S». Un elemento incredibile della politica è la velocità precipitosa con cui iniziano a correre gli eventi. Il programma della giornata sonnolenta prevedeva schede bianche: due votazioni senza esito e tutti a casa. E invece, nell'ufficio di presidenza, il Movimento 5 stelle chiede un voto notturno, in terza serata. E chi sono i primi che accettano? I leghisti. Quando questa seconda notizia si abbatte sul Transatlantico, tutti capiscono che - con una velocità imprevedibile - Salvini e Di Maio sono tornati d'accordo: pagare dollaro, vedere cammello. Anticipando il voto la notte, stamattina si può arrivare ad avere due presidenti eletti, sia al Senato sia alla Camera: un leghista e un pentastellato. Giorgio Mulé, parlamentare azzurro con i titoli nel sangue, fa un commento che è un programma: «Ci stanno smerigliando le chiappe con la sabbia di quarzo!». Bruno Tabacci, non più compassato, guarda già alla conseguenza ultima di questo accordo e sbotta: «Si stanno suicidando, un governo così non sono in grado di tenerlo!». Perché tutti immaginano che quest'operazione abbia un solito esito possibile: un governo Di Maio-Salvini. La Prestigiacomo quasi s'arrabbia: «Cioè Salvini distrugge il centrodestra per andare a fare il vicepremier?». Due deputati leghisti sorridono: «Sarà vicepremier e ministro dell'Interno!». E già si fantastica su un governo gialloverde che fa sia flat tax sia reddito di base. Possibile? Scuote la testa amaramente il moderato (alleato del Pd) Giacomo Portas: «Lo avevo previsto. Vinco le scommesse con tutti. Loro fanno il governo dei vincitori. E noi... lo prendiamo in culo<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/i-grillini-tentati-dalle-nozze-con-il-carroccio-2551896962.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="la-lunga-notte-di-forza-italia-allo-sbando-ma-ce-chi-scommette-sulla-ricucitura" data-post-id="2551896962" data-published-at="1766036279" data-use-pagination="False"> La lunga notte di Forza Italia allo sbando. Ma c'è chi scommette sulla ricucitura Bianca, bianca, bianca, pausa. Il presidente emerito Giorgio Napolitano legge qualcosa, ma non mette a fuoco lo scritto. Deve intervenire il coadiutore parlamentare in livrea (si dice così) ad aiutarlo; si china su di lui e gli sussurra un nome. Quello che manda all'aria tutti i piani, quello che mette un cuneo appuntito dentro la coalizione di centrodestra, quello che nella notte più lunga diventa il punto esclamativo di Matteo Salvini davanti a un esterrefatto Silvio Berlusconi: Anna Maria Bernini. La giurista, l'ex ministro per meno di quattro mesi dell'ultimo governo del Cavaliere nel 2013, donna delle istituzioni. E ora involontario simbolo della discordia.La seconda votazione per la presidenza del Senato finisce praticamente lì, con i leghisti che scrivono in massa (57 volte) il nome alternativo a Paolo Romani, candidato ufficiale di Forza Italia concordato con gli alleati. Uno sgarbo in piena regola, e poco tempo per ricucire. Il cinquantottesimo voto è quello di Umberto Bossi, anch'egli per una volta fedele alla linea, ma viene dichiarato nullo perché illeggibile, scritto con mano leggermente tremolante. Subito dopo è il caos, annunciato in diretta da Gaetano Quagliariello: «È un favore che Salvini ha fatto a Forza Italia a sua insaputa. Eravamo d'accordo su Romani, non si possono cambiare le carte in tavola in questo modo. E non mi sembra proprio un atto di amicizia». Quagliariello fatica a mitigare la stizza. E poiché è uno dei colonnelli azzurri più pacati, riflessivi e usi di mondo, la sua reazione ci restituisce la portata e l'impatto di un gesto imprevisto. Anzi, annunciato sottotraccia già da metà pomeriggio da alcuni parlamentari leghisti nei corridoi, ma derubricato a boutade dai berlusconiani. «No, non è un gesto di amicizia, questo è uno strappo, uno strappo in piena regola», tira le somme l'autorevole senatore forzista. «Ma Salvini deve stare attento a non strappare troppo, perché così facendo la Lega rischia di finire per diventare lo junior partner del Movimento 5 stelle». Gli fa eco Renato Schifani: «Abbiamo appreso in aula la scelta della Lega, non concordata né attesa. Il resto deducetelo voi».Il resto è bufera, con i maggiorenti del partito che si riuniscono immediatamente a Palazzo Grazioli per lasciar decantare la delusione e discutere il da farsi. Aleggiano su tutti le parole di Salvini, che un attimo prima del voto aveva spiegato così la scelta di strappare: «Per uscire dal pantano abbiamo deciso di votare Anna Maria Bernini al Senato perché è un candidato del centrodestra. Il nostro è un atto d'amore per il Paese e per la coalizione. Vogliamo vedere se i 5 stelle hanno un vero pregiudizio nei nostri confronti o solo su un nome». Una mossa da consumato scacchista, un gambetto di cavallo che manda all'aria quella che sembrava a tutti una partita a poker da Prima Repubblica. In questo la giocata del leader leghista ha qualcosa di ribelle che spiazza ancora di più e che preoccupa Forza Italia. Tanto da mettere a rischio, almeno a parole e nella notte, le giunte dove la coalizione governa: Lombardia, Veneto, altre Regioni, migliaia di Comuni. Spiega un parlamentare azzurro: «Sembra che Salvini abbia sempre e comunque davanti a sé gli elettori, il suo popolo. Dà l'idea di voler fare in fretta, di voler mettere a posto la questione tirando dritto. E al di là del metodo ruvido, questo decisionismo sulle procedure alla piazza piace».Ora il messaggio in bottiglia è arrivato. Sia a Di Maio, sia a Berlusconi. Nel pomeriggio Fabrizio Cicchitto aveva messo il dito nella piaga: «Sta accadendo qualcosa di paradossale, i due giovani leader vincitori hanno scoperto che esiste Berlusconi e che devono fare i conti con lui». Se la reazione è stata questa, si dovrà tornare presto al tavolo. Il Cavaliere ha tentato la prova di forza su Romani, ma è andata buca. I mattoncini di Lego sono finiti in giro per le stanze del potere e bisogna ricomporli. Ma c'è chi non vuol sentir parlare di sorpresa, come il neo senatore ed ex direttore di Panorama, Giorgio Mulè: «Più che un colpo di scena mi sembra di rileggere la favola di Pollicino. Di Maio e Salvini hanno disseminato la strada di sassolini».Oggi la partita al Senato si chiude. È ancora possibile che Berlusconi tolga dal cilindro uno dei suoi sorprendenti conigli, per esempio far convergere tutti su un terzo nome, quello di Maria Elisabetta Casellati, ex senatrice di Forza Italia, membro del Csm. Ma qualcosa di sorprendente è accaduto anche alla Camera, dove la terza, inconsueta votazione, ha riallineato la corsa alle due presidenze. Oggi sarà slalom parallelo e un accordo tra 5 stelle e Lega potrebbe facilmente eleggere i grillini Roberto Fico o Riccardo Fraccaro alla Camera e (se Forza Italia dovesse ritirare i suoi candidati, consumando lo strappo finale) la leghista Giulia Bongiorno al Senato. Sarebbe la traduzione politica del bollente french kiss dei due leader disegnato dai graffitari su un muro dietro Montecitorio. Dallo stato maggiore di Forza Italia arriva uno spiffero illuminante: «Per noi si aprirebbero praterie all'opposizione. Utili per rinsaldare il gruppo e rinfrescare le idee». Ma è difficile pensare che finisca così, soprattutto perché nessuno realisticamente può immaginare che il genio politico di Berlusconi non sappia inventare anche questa volta una via d'uscita. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/i-grillini-tentati-dalle-nozze-con-il-carroccio-2551896962.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="i-grillini-tentati-dalle-nozze-con-il-carroccio" data-post-id="2551896962" data-published-at="1766036279" data-use-pagination="False"> I grillini tentati dalle nozze con il Carroccio Il murales Luigi Di Maio-Matteo Salvini LaPresse A metà pomeriggio, quando Luigi Di Maio e lo stato maggiore del Movimento preparavano già la strambata di sicurezza sul Pd, i 5 stelle che conoscono meglio le dinamiche di Arcore avevano avvertito: «Adesso Berlusconi ritira Romani senza farsi alcuno scrupolo e ci proporrà una donna votabile, un nome a sorpresa come Lara Magoni, così recupera anche un po' di reputazione alla vigilia dell'uscita del film di Sorrentino sul bunga bunga». E verso sera ecco che Salvini fiuta l'aria e brucia tutti, anche l'ex atleta azzurra passata dall'odiato Roberto Maroni a Giorgia Meloni, e annuncia il voto della Lega all'avvocatessa bolognese. In cambio, a questo punto, per i pentastellati c'è non solo la presidenza della Camera, ma anche la possibilità di scegliere senza chiedere per forza il via libera al Pd. È stata una giornata tesissima, quella di questo breve Aventino del M5s, «traditi» per 48 ore dal leader leghista con cui stavano già ragionando sul programma di un possibile governo. «Noi parlavamo con Giancarlo Giorgetti, che stimiamo, e Salvini ritornava a Palazzo Grazioli come uno scolaretto», si lamentano i vertici del Movimento. Per tutto il giorno, il mantra di Di Maio è stato: «Salvini ci deve far vedere che è libero da Berlusconi, altrimenti noi restiamo fermi immobili e ce la giochiamo alla Camera». Ma in verità, proprio fermi e immobili i grillini non sono stati. Anzi. Hanno preparato il contropiede sul Nazareno per tutto il giorno e il piano era già pronto: alla terza votazione in Senato, quando pensavano che il Pd avrebbe tirato fuori il proprio nome, se non fosse stato un renziano doc lo avrebbero appoggiato. In cambio della convergenza su Roberto Fico per Montecitorio. Un nome votabile, «assolutamente votabile», sarebbe stato quello del senatore Luigi Zanda. «È una persona perbene, ha senso delle istituzioni, non è mai stato un cane da riporto di Renzi», si dice tra i vertici di M5s. L'intesa possibile sulla Bernini, però, rimette nel freezer l'accordo con quel che resta dei democratici. Un partito diviso e con dinamiche interne che i pentastellati, al momento così compatti, stentano completamente a capire. Anche se Luca Lotti, ancora l'altra sera, in una cena riservata, ha detto che «i nostri 150 deputati pesano e peseranno». Il punto è che Di Maio, e specialmente Beppe Grillo e Davide Casaleggio, non si fidano neppure di loro, sul fronte dell'indipendenza dall'odiato Cavaliere. Anzi, proprio Casaleggio e i deputati più ferrati sulle vicende finanziarie e televisive, come la guerra su Telecom e Mediaset tra Berlusconi e Vincent Bolloré di Vivendi, hanno messo in guardia il resto del Movimento dalle manovre del proprietario della Fininvest sulle presidenze delle Camere. «Tra pochi mesi scadono i vertici dell'Antitrust e l'anno prossimo tocca all'Agenzia delle comunicazioni», ha spiegato uno degli esperti di M5s, «e se Berlusconi voleva uno come Romani era solo per mantenere il controllo su queste nomine che per lui valgono miliardi di euro». Così, nessun veto sulla Bernini, ma anche perché il Movimento è una formazione politica giovane e non tutti, a parte forse i giornalisti Gianluigi Paragone ed Emilio Carelli, ricordano che suo padre Giorgio fu ministro nel primo governo Berlusconi e anche membro dell'Antitrust. Di sicuro c'era un maggior gradimento per l'ex sciatrice Magoni, anche perché il suo fresco sbarco dalla lista «Maroni presidente» a Fratelli d'Italia dava al Movimento maggior garanzia di lontananza da Fininvest. Perché sì, nel 2018 e a ben 24 anni dalla mitica «discesa in campo», per i 5 stelle un Berlusconi che dicevano in declino è tornato a incarnare il Male assoluto. «Anche solo una foto con lui avrebbe danneggiato l'immagine di Luigi», dicono molti deputati, che ricordano un lungo post di Grillo sul suo nuovo sito, un mese fa, in cui Berlusconi era di nuovo «lo psiconano», come dieci anni fa. Non hanno giovato ai rapporti con l'ex premier di Forza Italia anche una serie di «veleni» sul Movimento, tirati fuori sui media di area, come quelli sulla presunta «lobby gay litigiosissima» all'ombra di Di Maio. E poi, di nuovo, la convinzione che un senatore di M5s riassume così: «Berlusconi vuole solo difendere la sua roba». Vero o falso che sia, la linea resta una: «Noi e la Lega siamo gli unici che non hanno paura di tornare a votare e questo ci dà una libertà totale. L'importante è non sporcarsi le mani». Non facile, se la legislatura comincia già con una giornata come quella di ieri. Francesco Bonazzi
Vladimir Putin (Ansa)
Di tutt’altro tenore è invece la sua posizione nei confronti del presidente americano, Donald Trump: affermando di essere «in dialogo» con l’amministrazione Trump per le trattative, ha precisato che Mosca «accoglie con favore i progressi compiuti» nel dialogo tra Cremlino e Casa Bianca.
Sulle conquiste territoriali lo zar si è mostrato fiducioso, con le truppe che «avanzano con sicurezza e schiacciano il nemico». Ha quindi annunciato che quest’anno rappresenta «la pietra miliare per il raggiungimento degli obiettivi dell’operazione militare speciale», visto che sono stati «liberati» più di 300 insediamenti. L’avanzata è evidente: Mosca ha comunicato di aver preso il controllo della città di Kupyansk. E secondo il comandante in capo delle forze armate ucraine, Oleksandr Syrsky, sta preparando un’altra offensiva con 710.000 soldati russi.
La reazione del presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, non è tardata ad arrivare. Pare convinto che la guerra continuerà anche nel 2026: «Oggi abbiamo ricevuto da Mosca ulteriori segnali che indicano che il prossimo sarà un anno di guerra. E questi segnali non sono solo per noi. È importante che i partner lo vedano. Ed è importante che non solo lo vedano, ma che reagiscano, in particolare i partner negli Usa, che spesso dicono che la Russia sembra voler porre fine alla guerra».
In ogni caso, le trattative proseguono, con Mosca che attende di essere informata sull’esito dei summit di Berlino. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, pur spiegando che non è in programma la visita dell’inviato americano, Steve Witkoff, ha dichiarato: «Ci aspettiamo che i nostri omologhi statunitensi ci informino sui risultati del loro lavoro con gli ucraini e gli europei quando saranno pronti».
Ma mentre la Russia attende le comunicazioni da parte della delegazione americana, sono intanto trapelate sul New York Times e su Bloomberg alcune indiscrezioni sulle iniziative occidentali. Secondo il quotidiano statunitense, a Berlino i funzionari americani ed europei hanno raggiunto un accordo su due documenti inerenti alle garanzie di sicurezza per l’Ucraina in cui si prevede un rafforzamento importante delle forze armate ucraine, oltre allo schieramento di truppe europee e un uso maggiore dell’intelligence americana. Il primo documento annuncia i principi generali, il secondo è un «documento operativo mil-to-mil», ovvero da forze armate a forze armate. Bloomberg ha invece rivelato che gli Usa stanno «preparando un nuovo ciclo di sanzioni contro il settore energetico russo» con lo scopo di aumentare la pressione su Putin, qualora non accettasse l’accordo di pace. Il Cremlino non ha commentato le rivelazioni sulle garanzie di sicurezza, ma è intervenuto subito sulle sanzioni, sostenendo che potrebbero «nuocere al miglioramento delle relazioni tra i due Paesi».
A riconoscere che le trattative di pace sono «complesse» è il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni: «Le pretese irragionevoli» russe, soprattutto «sulla porzione di Donbass non conquistata» da Mosca, sono «lo scoglio» più difficile da superare. Parlando alla Camera ha colto l’occasione per ripetere che «l’Italia non intende inviare soldati in Ucraina», anche perché «l’ipotesi di dispiegamento di una forza multinazionale in Ucraina» prevede «la partecipazione volontaria». La linea italiana resta quella di «non abbandonare l’Ucraina al suo destino nella fase più delicata degli ultimi anni». Al contrario di Meloni, il cancelliere tedesco, Friedrich Merz, è stato piuttosto vago sull’invio di soldati tedeschi nella cornice di una forza multinazionale, limitandosi a dire che la Coalizione dei volenterosi non include solamente gli Stati europei.
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Da domani in Arabia Saudita al via la final four. A inaugurare il torneo saranno Milan e Napoli, in campo giovedì (ore 20 italiane) per la prima semifinale. Venerdì tocca a Inter e Bologna contendersi un posto nella finalissima di lunedì 22 dicembre.
Il primo trofeo della stagione si assegna ancora una volta lontano dall’Italia. Da domani la Supercoppa entra nel vivo a Riyadh con la formula della final four: giovedì la semifinale tra Milan e Napoli, venerdì quella tra Inter e Bologna, lunedì 22 dicembre la finale che chiuderà il programma e consegnerà il titolo.
Riyadh si prepara ad accogliere di nuovo la Supercoppa italiana,. Tre partite secche, quattro squadre e una posta che va oltre il campo: Napoli, Inter, Milan e Bologna portano in Arabia Saudita storie diverse, ambizioni opposte e un equilibrio che negli ultimi anni ha reso la competizione meno scontata di quanto dicano le statistiche.
Il Napoli arriva da campione d’Italia, il Bologna da vincitore della Coppa Italia, l’Inter da seconda forza del campionato e il Milan da detentore del trofeo. È soltanto la terza edizione con il formato a quattro, ma è già sufficiente per raccontare una Supercoppa che ha cambiato volto: nelle ultime due stagioni hanno vinto squadre che non partivano con lo scudetto cucito sul petto, un’inversione rispetto a una tradizione che per decenni aveva premiato quasi sempre i campioni d’Italia.
Proprio il Milan è il simbolo di questo ribaltamento. Campioni in carica, i rossoneri hanno spezzato una serie di finali perse all’estero e hanno riscritto la storia della manifestazione vincendo prima da finalista di Coppa Italia e poi da seconda classificata in campionato. In Arabia Saudita tornano con l’obiettivo di agganciare la Juventus in vetta all’albo d’oro, dove oggi i bianconeri comandano con nove successi, uno in più di Inter e Milan.
Il primo incrocio, giovedì 18 dicembre, è contro il Napoli. Gli azzurri inseguono invece un ritorno al passato: l’ultima Supercoppa vinta risale al 2014, una finale rimasta negli archivi per durata e tensione. Da allora, tentativi falliti e una presenza costante tra semifinali e finali mancate. Per la squadra di Antonio Conte, il confronto con il Milan è anche un passaggio chiave per evitare una prima volta storica: mai la squadra campione d’Italia in carica è rimasta fuori dall’atto conclusivo della competizione.
Dall’altra parte del tabellone, Inter e Bologna. I nerazzurri sono ormai una presenza abituale nella Supercoppa a quattro, protagonisti nelle ultime due edizioni e detentori di record individuali che raccontano la continuità del loro percorso. Il Bologna, invece, vivrà un esordio assoluto: sarà il tredicesimo club a partecipare alla manifestazione, chiamato subito a misurarsi con una dimensione internazionale che rappresenta una novità anche simbolica per il club. Negli ultimi anni la Supercoppa si è decisa spesso senza supplementari e rigori, ma resta una competizione capace di ribaltare copioni già scritti. Lo dimostrano le rimonte, i gol decisivi negli ultimi minuti e una storia che, pur ricca di record individuali e panchine vincenti, continua a sorprendere.
Fuori dal campo, la tappa di Riyadh diventa anche una vetrina per il calcio italiano. La Lega Serie A ha annunciato iniziative dedicate all’inclusione di tifosi con disabilità sensoriali, che accompagneranno tutte le partite del torneo. Da un lato, l’utilizzo di una mappa tattile interattiva permetterà a tifosi ciechi e ipovedenti di seguire l’andamento della gara attraverso il tatto; dall’altro, magliette sensoriali trasformeranno i suoni dello stadio in vibrazioni per tifosi sordi. Un progetto che coinvolgerà complessivamente trenta spettatori per ciascuna iniziativa, inserendosi nel programma ufficiale della competizione.
A rappresentare visivamente la Supercoppa sarà invece il nuovo Trophy travel case, realizzato dal brand fiorentino Stefano Ricci. Un baule pensato per accompagnare il trofeo nelle tappe internazionali, simbolo di un’italianità che la Serie A continua a esportare all’estero, soprattutto in Medio Oriente, dove la Supercoppa si gioca per il quarto anno consecutivo.
Il calcio d’inizio è fissato. A Riyadh non si gioca soltanto una coppa, ma un racconto che intreccia campo, storia recente e immagine del calcio italiano nel mondo. E, come spesso accade in Supercoppa, i numeri potrebbero non bastare per spiegare come andrà a finire.
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(Apple Tv)
Non è affatto detto che sia così perché, dietro l’obiettivo di rovesciare le formule della fantascienza, si nasconde l’ambizione di una riflessione sul rapporto tra benessere collettivo e libertà individuale, tra felicità globale e identità personale. Il tutto proposto con grande cura formale, ottime musiche e qualche lungaggine autoriale. Possibili, lontani, riferimenti: Lost, per i prologhi spiazzanti e i flashback, Truman Show, per la solitudine e l’apparenza stranianti, Black Mirror, per la cornice distopica. Ma la mano dell’ideatore è inconfondibile.
Ci troviamo ad Albuquerque, la città del New Mexico già teatro dei precedenti plot di Gilligan, ma stavolta la vicenda è tutt’altra. Siamo in un futuro progredito e un certo rigore si è già radicato nella quotidianità. Per esempio, l’avviamento delle auto di ultima generazione è collegato alla prova di sobrietà del palloncino: se si è stati al pub, l’auto non parte. Individuato da un gruppo di astronomi, un virus Rna proveniente dallo spazio, trasmesso in laboratorio da un topo e contagiato tramite baci e alimenti, rende gli esseri umani felici, gentili e samaritani con il prossimo. Le persone agiscono come un’unica mente collettiva, ma non a causa di un’invasione aliena, tipo L’invasione degli ultracorpi, bensì per il fatto che «noi siamo noi», garantisce un politico che parla dalla Casa Bianca, anche se non è il presidente. «Gli scienziati hanno creato in laboratorio una specie di virus, più precisamente una colla mentale capace di tenerci legati tutti insieme». In questo mondo, non esiste il dolore, non si registrano reati, le prigioni sono vuote, le strade non sono mai congestionate, regna la pace. Tutto è perfetto e patinato, perché la contraddizione non esiste. Debellata, dietro una maschera suadente. La colla mentale dispone alla benevolenza e alla correttezza le persone. Che però non possono scegliere, ma agire solo in base a un «imperativo genetico». Soltanto 12 persone in tutto il Pianeta sono immuni al contagio. Ma mentre undici sembrano disposte a recepirlo, l’unica che si ribella è Carol Sturka (Reha Seehorn), una scrittrice di romanzi per casalinghe sentimentali. Cinica, diffidente, omosex e discretamente testarda, malgrado vicini, conoscenti e certi soccorritori ribadiscano le loro buone intenzioni - «vogliamo solo renderti felice» - lei non vuole assimilarsi ed essere rieducata dal virus dei buoni. I quali, ogni volta che lei respinge bruscamente le loro attenzioni, restano paralizzati in strane convulsioni, alimentando i suoi sensi di colpa. Il prezzo della libertà è una solitudine sterminata, addolcita dal fatto che, componendo un numero di telefono, può vedere esaudito ogni desiderio: cibi speciali, cene su terrazze panoramiche, giornate alle terme, Rolls Royce fiammanti. Quando si imbatte in qualche complicazione è immediatamente soccorsa da Zosia (Karolina Wydra), volto seducente della mente collettiva, o da un drone, tempestivo nel recapitarle a domicilio la più bizzarra delle richieste. A Carol è anche consentito di interagire con gli altri umani esenti dal contagio. Che però non condividono il suo progetto di ribellione alla felicità coatta: tocca a noi riparare il mondo. «Perché? La situazione sembra ideale, non ci sono guerre, viviamo tranquilli», ribatte un viveur che sfrutta ogni lusso e privilegio concesso dalla mente collettiva.
L’idea di questa serie risale a circa otto o nove anni fa, ha raccontato Gilligan in un’intervista. «In quel periodo io e Peter Gould (il suo principale collaboratore, ndr.) avevamo iniziato a lavorare a Better Call Saul e ci divertivamo parecchio. Durante le pause pranzo avevo l’abitudine di vagare nei dintorni dell’ufficio immaginando un personaggio maschile con cui tutti erano gentili. Tutti lo amavano e non importa quanto lui potesse essere scortese, tutti continuavano a trattarlo bene». Poi, nella ricerca del perché di questa inspiegabile gentilezza, la storia si è arricchita e al posto di un protagonista maschile si è imposta la figura della scrittrice interpretata da Reha Seehorn, già nel cast di Better Call Saul. Su di lei, a lungo sola in scena, si regge lo sviluppo del racconto. A un certo punto, provata dalla solitudine, ma senza voler smettere d’indagare anche perché incoraggiata dalle prime inquietanti scoperte, Carol cambia strategia, smorzando la sua ostilità…
Il titolo della serie deriva da «E pluribus unum», cioè «da molti, uno», antico motto degli Stati Uniti, proposto il 4 luglio 1776 per simboleggiare l’unione delle prime 13 colonie in una sola nazione. Gilligan ha trasferito la suggestione di quel motto a una dimensione esistenziale e filosofica, inscenando una sorta di apocalisse dolce per riflettere sulla problematica convivenza tra singolo e collettività. Per questo, in origine, Plur1bus era scritto con l’1 al posto della «i».
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Emmanuel Macron (Ansa)
La sola istanza che ha una parvenza di rappresentanza è il Palamento europeo. Così il Mercosur, il mega accordo commerciale con Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay, più annessi, che deve creare un’area di libero scambio da 700 milioni di persone che Ursula von der Leyen vuole a ogni costo per evitare che Javier Milei faccia totalmente rotta su Donald Trump, che il Brasile si leghi con la Cina e che l’Europa dimostri la sua totale ininfluenza, rischia di crollare e di portarsi dietro, novello Sansone, i filistei dell’eurocrazia.
Il Mercosur ieri ha fatto due passi indietro. Il Parlamento europeo con ampia maggioranza (431 voti a favore Pd in prima fila, 161 contrari e 70 astensioni, Ecr-Fratelli d’Italia fra questi, i lepenisti e la Lega hanno votato contro) ha messo la Commissione con le spalle al muro. Il Mercosur è accettabile solo se ci sono controlli stringenti sui requisiti ambientali, di benessere animale, di salubrità, di rispetto etico e di sicurezza alimentare dei prodotti importati (è la clausola di reciprocità), se c’è una clausola di salvaguardia sulle importazioni di prodotti sensibili tra cui pollame o carne bovina. Se l’import aumenta del 5% su una media triennale si torna ai dazi. Le indagini devono essere fatte al massimo in tre mesi e la sospensione delle agevolazioni deve essere immediata. Tutti argomenti che la Von der Leyen mai ha inserito nell’accordo. Ma sono comunque sotto il minimo sindacale richiesto da Polonia, Ungheria e Romania che sono contrarie da sempre e richiesto ora dalla Francia che ha detto: «Così com’è l’accordo non è accattabile».
Sono le stesse perplessità dell’Italia. Oggi la Commissione dovrebbe incontrare il Consiglio europeo per avviare la trattativa e andare, come vuole Von der Leyen, alla firma definitiva prima della fine dell’anno. La baronessa aveva già prenotato il volo per Rio per domani, ma l’hanno bloccata all’imbarco! Perché Parigi chiede la sospensione della trattativa. La ragione è che gli agricoltori francesi stanno bloccando il Paese: ieri le quattro principali autostrade sono state tenute in ostaggio da trattori che sono tornati a scaricare il letame sulle prefetture. Il primo ministro Sébastien Lecornu ha tenuto un vertice sul Mercosur incassando un no deciso da Jean-Luc Mélenchon, da Marine Le Pen ma anche dai repubblicani di Bruno Retailleau che è anche ministro dell’interno.
Domani, peraltro, a Bruxelles sono attesi almeno diecimila agricoltori- la Coldiretti è la prima a sostenere questa manifestazione - che con un migliaio di trattori assedieranno Bruxelles. L’Italia riflette, ma è invitata a fare minoranza di blocco dalla Polonia; la Francia vuole una mano per il rinvio. Certo che il Mercosur divide: la Coldiretti ha rimproverato il presidente di Federalimentare Paolo Mascarino che invece vuole l’accordo (anche l’Unione italiana vini spinge) di tradire la causa italiana. Chi invece vuole il Mercosur a ogni costo sono la Germania che deve vendere le auto che non smercia più (grazie al Green deal), la Danimarca che ha la presidenza di turno e vuole lucrare sull’import, l’Olanda che difende i suoi interessi commerciali e finanziari.
C’è un’evidente frattura tra l’Europa che fa agricoltura e quella che vuole usare l’agricoltura come merce di scambio. Le prossime ore potrebbero essere decisive non solo per l’accordo - comunque deve passare per la ratifica finale dall’Eurocamera - ma per i destini dell’Ue.
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