Nuove emissioni per 52 miliardi nei primi sei mesi dell'anno. Ai risparmiatori rendono quanto quelli tradizionali. Ma assicurano benefici fiscali alle società.
Nuove emissioni per 52 miliardi nei primi sei mesi dell'anno. Ai risparmiatori rendono quanto quelli tradizionali. Ma assicurano benefici fiscali alle società.Facendo una battuta, verrebbe da dire che i green bonds, le obbligazioni che servono alle aziende per dare il via a operazioni ecosostenibili, sono un po' come il reddito di cittadinanza del mondo finanziario. In Europa se ne fa un gran parlare ma, dando uno sguardo ai rendimenti si capisce chiaramente che sono più utili alle aziende che ai risparmiatori. Secondo Mainstreet partners, società nata con l'idea di offrire fondi e investimenti che abbiano una logica ecosostenibile, in media queste obbligazioni offrono rendimenti dell'1,8%. Di fatto, dunque non offrono guadagni maggiori rispetto alle obbligazioni tradizionali. Uno studio del sito Eticanews aggiunge che in media questi prodotti offrono performance leggermente inferiori alla media del mercato obbligazionario (-1,1 punti base).Eppure negli ultimi dieci anni hanno registrato il «tutto esaurito»: nel primo semestre di quest'anno infatti, sono stati emessi a livello mondiale green and sustainable bond per 117 miliardi di dollari, in crescita del 48% rispetto allo stesso periodo del 2018, pari a 625 emissioni, di cui l'85% in euro. Si stima che entro la fine dell'anno il valore delle emissioni raggiungerà i 200 miliardi. Sempre nel 2019, secondo un calcolo che Mainstreet partners ha realizzato per La Verità, 159 green bond sono stati emessi nei primi sei mesi dell'anno per un totale di 52 miliardi di euro e un rendimento medio dello 0,57%.Se dunque non è chiaro perché un risparmiatore debba investire in questi prodotti - se non per una logica ecologista, ma non certo finanziaria -lo è molto di più per le società che emettono questi prodotti: le obbligazioni verdi servono alla realizzazione di opere a basso impatto ambientale che spesso sono un ottimo modo per ottenere benefici fiscali. pochi controlliUna vera manna per molte aziende schiacciate da una pressione fiscale elevata. Non è un caso che al mondo, sino ad oggi, si contino oltre 2.200 green bond: tutti ottimi strumenti per ottenere liquidità e «scaricare» le tasse. A questo si aggiunga che definire un green bond non è così semplice e trasparente. Provare a fare i furbi sulle obbligazioni verdi, infatti, non è poi così difficile: non esiste purtroppo uno standard globale di certificazione, ma solo quattro linee guida elaborate dall'International capital aarket association. I pilastri delineati dall'Icma sono un'attenta selezione dei progetti su cui investire, una chiara identificazione della destinazione dei proventi, la massima trasparenza su tutto il processo e la pubblicazione di report periodici. Molti prodotti però sono sospetti perché non è semplice capire se le linee guida vengono seguite: non esiste un controllore che monitori il corretto comportamento delle aziende che portano sul mercato un'obbligazione verde. i prospettiIn molti prospetti delle obbligazioni verdi non si spiegano in dettaglio i modi in cui i finanziamenti verranno utilizzati per finanziare progetti green. A volte può succedere persino che i finanziamenti raccolti con i green bond possano potenzialmente essere utilizzati per il pagamento di altre obbligazioni in scadenza che non sono per nulla sostenibili. Del resto, all'interno dell'industria finanziaria si parla già di «greewashing», un modo per ripulire certi investimenti e certe aziende dando loro un'aurea a basso impatto ambientale.Così si capisce come il numero di società che emettono obbligazioni verdi sia in continua e inarrestabile crescita: come spiega Massimo Mocio, presidente di Assiom forex, l'associazione degli operatori dei mercati finanziari, «nel 2019 i nuovi emittenti green al debutto su questo mercato sono passati da 649 a 747, 98 in più dello scorso anno, e hanno sede in 32 diversi Paesi del mondo. A oggi sono 57 le giurisdizioni che hanno emesso almeno un green bond nel mondo. L'euro rappresenta la valuta più utilizzata dagli emittenti (con l'85% delle emissioni denominate in euro nel 2019), mentre il settore delle utility e delle energie rinnovabili è quello con la maggiore presenza sul mercato green, anche se in diminuzione rispetto agli anni precedenti».carboneA ogni modo, come spiega una nota di Mainstreet partners, è chiaro che si tratti di un fenomeno che non si arresterà. L'industria si sta già muovendo su questo tema: a giugno di quest'anno, Axa investment managers ha pubblicato le proprie linee guida in materia di quelli che vengono definiti transition bond. Si tratta di prodotti pensati per aiutare le aziende che fanno largo uso di carbone a scoprire i vantaggi di operazioni realmente verdi.L'intento, per concludere, è buono. Spingere le aziende a investire in progetti più verdi è un obiettivo che mette d'accordo tutti. Il problema è che senza qualcuno che controlla i green bond finiscono spesso per essere strumenti di facciata che aiutano solo le aziende a ottenere benefici fiscali. L'ecologia, insomma, viene dopo.
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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