2018-11-15
I giudici di Milano legittimano l’utero in affitto
La pratica è vietata ma i tribunali, da ultimo quello della città lombarda, riconoscono l'adozione a chi vi ha fatto ricorso. I giudici meneghini hanno contraddetto una precedente sentenza su un caso analogo, in cui l'adozione era stata rifiutata nonostante il parere favorevole della Procura. Il Tribunale di Milano dà il via libera alla stepchild adoption (adozione del figliastro). Il palazzo di Giustizia del capoluogo lombardo ha riconosciuto l'adozione al compagno di un uomo che, nel 2014, aveva avuto due gemelli grazie alla pratica dell'utero in affitto: una donna aveva fornito l'ovulo e un'altra, sudamericana, si era offerta, ovviamente dietro compenso, di portare a termine la gravidanza. I giudici meneghini hanno contraddetto una precedente sentenza su un caso analogo, in cui l'adozione era stata rifiutata nonostante il parere favorevole della Procura. Il cambio di rotta potrebbe fare da apripista ad altre deliberazioni simili in una città in cui finora a muoversi non era stata la magistratura, bensì la politica: tempo fa il sindaco Giuseppe Sala aveva trascritto un atto di nascita redatto in California e riguardante i figli di una coppia di omosessuali, riconoscendoli così entrambi come genitori. Curiosa, per non dire grottesca, la motivazione addotta a sostegno dell'adozione. Nella sentenza, infatti, si legge che «non sussistono elementi, neanche indiziari, per ravvisare l'intenzione di offendere o approfittare dello stato di bisogno» della donna utilizzata come «forno» per soddisfare le brame di genitorialità dei due uomini. Al contrario, la Procura aveva sottolineato come la coppia si fosse prodigata per mantenere «contatti costanti e affettuosi» con la madre biologica. Come ha raccontato uno dei coniugi al Corriere della Sera, con la donna loro si sentono «regolarmente, è venuta con i suoi tre figli alle nostre nozze l'anno scorso. E quando ci hanno annunciato il via libera all'adozione, era da noi a Milano per il quarto compleanno dei gemelli. Ci siamo abbracciati fortissimo». Se si resta amici, ci si può vendere e comprare i propri bambini? In Italia esiste una legge, la numero 40 del 2004, che vieta il ricorso all'utero in affitto. Il comma 6 dell'articolo 12 stabilisce infatti che chiunque, «in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro». Eppure, non è la prima volta che le toghe avallano di fatto tale pratica. Nel settembre scorso, ad esempio, la Corte d'appello di Bologna aveva riconosciuto l'efficacia di una sentenza di un tribunale statunitense, con la quale si disponeva l'adozione di una bimba da parte di una donna italoamericana che negli Usa ne aveva sposato la madre biologica. Ad aprile, il sindaco di Torino, Chiara Appendino, aperta sostenitrice dell'agenda Lgbt, dopo il rifiuto dell'ufficio anagrafe si era presa direttamente la responsabilità di registrare il figlio di due donne, la consigliera comunale pd Chiara Foglietta e la sua compagna Micaela. Una battaglia in cui l'amministratrice pentastellata credeva talmente tanto, da essersi dichiarata pronta a «forzare la legge». Pochi mesi dopo, il Tribunale torinese aveva disposto, per due dei bambini di cui era stata effettuata la registrazione dalla «sindaca» in quelle settimane, l'impiego del doppio cognome. In fondo, se è vero che nel dicembre 2017 la Corte costituzionale aveva ribadito il divieto di ricorrere all'utero in affitto, la Consulta aveva anche stabilito che «nell'interesse del minore» bisogna valutare caso per caso come comportarsi con i figli di coppie che si sono «rifornite» dalle madri surrogate. Il concetto di «superiore interesse del minore» infatti riecheggia nelle varie decisioni con le quali i tribunali hanno di volta in volta autorizzato questa o quell'adozione. A Milano, la presidente del Tribunale per i minorenni, Maria Carla Gatto, ha giustificato l'autorizzazione alla stepchild adoption evocando «il miglior interesse del minore». Stessa formula già sentita a Bologna, o a Trento, dove nel 2017 la Corte d'appello aveva permesso al partner di un omosessuale di essere iscritto all'anagrafe come «secondo padre» di due bimbi nati con l'utero in affitto. Strano che il «superiore interesse del minore» coincida spesso con situazioni che il buon senso stenta a tollerare: dalle «sanatorie» su quello che per la legge italiana rimane un reato alla tragica soppressione dei neonati malati, che troppe volte abbiamo visto perpetrata negli ospedali inglesi. Naturalmente, queste assurdità avvengono anche grazie a una manipolazione del linguaggio. In virtù della quale la compravendita dei bimbi e l'utero in affitto diventano, in burocratese «neutralizzato», la «maternità surrogata». E, sui giornali, il neonato comprato dove la pratica è legale viene descritto come «figlio di due donne» o «di due uomini», con un repertorio verbale in cui la finzione giuridica ha ormai soppiantato le più elementari leggi di natura. Chi vorrebbe legalizzare utero in affitto e adozioni gay, ovviamente, ritiene che sia necessario approvare una normativa che integri le lacune lasciate in materia dalla legge Cirinnà. Ma nel frattempo, la rivoluzione comincia dai tribunali. E i rivoli che oggi filtrano da piccole crepe del nostro diritto di famiglia, presto diventeranno un fiume in piena.
(Guardia di Finanza)
I peluches, originariamente disegnati da un artista di Hong Kong e venduti in tutto il mondo dal colosso nella produzione e vendita di giocattoli Pop Mart, sono diventati in poco tempo un vero trend, che ha generato una corsa frenetica all’acquisto dopo essere stati indossati sui social da star internazionali della musica e del cinema.
In particolare, i Baschi Verdi del Gruppo Pronto Impiego, attraverso un’analisi sulla distribuzione e vendita di giocattoli a Palermo nonché in virtù del costante monitoraggio dei profili social creati dagli operatori del settore, hanno individuato sette esercizi commerciali che disponevano anche degli iconici Labubu, focalizzando l’attenzione soprattutto sul prezzo di vendita, considerando che gli originali, a seconda della tipologia e della dimensione vengono venduti con un prezzo di partenza di circa 35 euro fino ad arrivare a diverse migliaia di euro per i pezzi meno diffusi o a tiratura limitata.
A seguito dei preliminari sopralluoghi effettuati all’interno dei negozi di giocattoli individuati, i finanzieri ne hanno selezionati sette, i quali, per prezzi praticati, fattura e packaging dei prodotti destavano particolari sospetti circa la loro originalità e provenienza.
I controlli eseguiti presso i sette esercizi commerciali hanno fatto emergere come nella quasi totalità dei casi i Labubu fossero imitazioni perfette degli originali, realizzati con materiali di qualità inferiore ma riprodotti con una cura tale da rendere difficile per un comune acquirente distinguere gli esemplari autentici da quelli falsi. I prodotti, acquistati senza fattura da canali non ufficiali o da piattaforme e-commerce, perlopiù facenti parte della grande distribuzione, venivano venduti a prezzi di poco inferiori a quelli praticati per gli originali e riportavano loghi, colori e confezioni del tutto simili a questi ultimi, spesso corredati da etichette e codici identificativi non conformi o totalmente falsificati.
Questi elementi, oltre al fatto che in alcuni casi i negozi che li ponevano in vendita fossero specializzati in giocattoli originali di ogni tipo e delle più note marche, potevano indurre il potenziale acquirente a pensare che si trattasse di prodotti originali venduti a prezzi concorrenziali.
In particolare, in un caso, l’intervento dei Baschi Verdi è stato effettuato in un negozio di giocattoli appartenente a una nota catena di distribuzione all’interno di un centro commerciale cittadino. Proprio in questo negozio è stato rinvenuto il maggior numero di pupazzetti falsi, ben 3.000 tra esercizio e magazzino, dove sono stati trovati molti cartoni pieni sia di Labubu imbustati che di scatole per il confezionamento, segno evidente che gli addetti al negozio provvedevano anche a creare i pacchetti sorpresa, diventati molto popolari proprio grazie alla loro distribuzione tramite blind box, ossia scatole a sorpresa, che hanno creato una vera e propria dipendenza dall’acquisto per i collezionisti di tutto il mondo. Tra gli esemplari sequestrati anche alcune copie più piccole di un modello, in teoria introvabile, venduto nel mese di giugno a un’asta di Pechino per 130.000 euro.
Soprattutto in questo caso la collocazione all’interno di un punto vendita regolare e inserito in un contesto commerciale di fiducia, unita alla cura nella realizzazione delle confezioni, avrebbe potuto facilmente indurre in errore i consumatori convinti di acquistare un prodotto ufficiale.
I sette titolari degli esercizi commerciali ispezionati e destinatari dei sequestri degli oltre 10.000 Labubu falsi che, se immessi sul mercato avrebbero potuto fruttare oltre 500.000 euro, sono stati denunciati all’Autorità Giudiziaria per vendita di prodotti recanti marchi contraffatti.
L’attività s’inquadra nel quotidiano contrasto delle Fiamme Gialle al dilagante fenomeno della contraffazione a tutela dei consumatori e delle aziende che si collocano sul mercato in maniera corretta e che, solo nell’ultimo anno, ha portato i Baschi Verdi del Gruppo P.I. di Palermo a denunciare 37 titolari di esercizi commerciali e a sequestrare oltre 500.000 articoli contraffatti, tra pelletteria, capi d’abbigliamento e profumi recanti marchi delle più note griffe italiane e internazionali.
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