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2021-02-09
I dem si accorgono che l’impeachment contro The Donald sarà un boomerang
Joe Biden (Getty images)
Prenderà il via oggi in Senato il secondo processo di impeachment contro Donald Trump: un evento storico, visto che mai prima d'ora un presidente americano era finito per due volte in stato d'accusa. La situazione politica generale resta tesa. E le incongruenze non mancano.
In primis, su questo processo aleggia l'ombra dell'incostituzionalità. Secondo la carta fondamentale americana, l'impeachment è infatti un procedimento esplicitamente rivolto contro «funzionari civili» per ottenere la rimozione dal loro incarico. Il paradosso stavolta è che l'imputato sia un ex presidente, visto che - dal 20 gennaio - Trump ha lasciato la Casa Bianca. Certo: qualcuno noterà che comunque il processo sia stato formalmente istruito dalla Camera quando - il 13 gennaio - il diretto interessato era ancora in carica. Resta tuttavia il fatto che oggi Trump sia un privato cittadino e che un processo di impeachment contro un privato cittadino non sia previsto dalla Costituzione.
A rendere ancora più evidente questo problema troviamo un ulteriore fattore: a presiedere il nuovo procedimento contro Trump non sarà il giudice capo della Corte Suprema, John Roberts, ma il presidente pro tempore del Senato, Patrick Leahy. Peccato che, secondo la Costituzione, un processo di impeachment contro un presidente dovrebbe essere presieduto proprio dal giudice capo della Corte Suprema: quello stesso Roberts che tuttavia, due settimane fa, si è chiamato fuori da questo nuovo procedimento. Non si capisce quindi a che titolo - giuridicamente parlando - Trump, da ex presidente, debba affrontare tale processo. È vero che nel 1876 il segretario alla Guerra, William Belknap, subì un impeachment dopo essersi dimesso dall'incarico. Ma attenzione: non si trattava di un presidente e - differentemente da Trump - si era dimesso proprio per sfuggire alla messa in stato d'accusa.
È chiaro che l'obiettivo politico degli avversari dell'ex presidente sia quello di arrivare all'interdizione dei pubblici uffici: possibile (e non automatico) effetto di una condanna. Resta tuttavia un problema: la prassi parlamentare del Senato ha stabilito che il voto (a maggioranza semplice) per l'interdizione debba seguire il voto (a maggioranza di due terzi) per la condanna. Ne consegue che, senza condanna, non si dovrebbe poter votare per l'interdizione. Ora, è al momento improbabile che - in questo processo - possa essere raggiunto il quorum dei due terzi dei voti: per arrivare a quella soglia dovrebbero infatti votare a favore della condanna almeno 17 senatori repubblicani. Un numero molto difficile da conseguire. Basti pensare che, due settimane fa, il senatore repubblicano, Rand Paul, aveva presentato una mozione per dichiarare questo nuovo processo incostituzionale: una mozione che è stata alla fine respinta, ma contro cui hanno votato appena cinque senatori dell'Elefantino.
In tutto questo, non trascuriamo i paradossi storici. Fermo restando il deplorevole errore commesso da Trump il 6 gennaio scorso, i dem - che hanno redatto come capo di imputazione quello di «incitamento all'insurrezione» - sembrano avere la memoria corta. Era il 4 marzo 2020, quando il loro capogruppo al Senato, Chuck Schumer, arringò una folla di manifestanti davanti alla Corte Suprema (riunitasi per valutare eventuali restrizioni all'aborto), pronunciando minacce contro i due supremi giudici nominati da Trump, Neil Gorsuch e Brett Kavanaugh. «Voglio dirti, Gorsuch; voglio dirti, Kavanaugh: avete liberato il vortice e ne pagherete il prezzo», esclamò tra la folla giubilante. Parole che furono definite «inappropriate» e «pericolose» dallo stesso John Roberts. A proposito di rispetto delle istituzioni, se è (giustamente) deprecabile aizzare una folla contro il Campidoglio, non dovrebbe essere altrettanto deprecabile fomentarla contro la Corte Suprema?
Infine attenzione: perché -politicamente parlando- questo secondo impeachment rischia di rivelarsi un boomerang per gli stessi avversari di Trump (democratici e repubblicani). Un sondaggio della Quinnipiac University ha registrato che gli americani siano spaccati quasi a metà sull'impeachment (con il 50% favorevole a una condanna e il 45% contrario). Inoltre, una recente rilevazione di The Hill ha evidenziato che il 64% degli elettori repubblicani sosterrebbe un eventuale nuovo partito, fondato da Trump: segno che l'ex presidente goda ancora di un bacino elettorale considerevole. Anziché metterlo all'angolo, l'impeachment rischia quindi di rafforzare l'ex inquilino della Casa Bianca. È forse anche in considerazione di ciò che alcuni senatori dem (come Tom Carper) auspicano un processo il più breve possibile (Politico ha riferito che l'idea sarebbe quella di concludere tutto entro sette giorni). Anche perché, qualora i tempi si allungassero, il Senato rischierebbe di restare impantanato. Il che costituirebbe un problema anche per l'agenda programmatica di Joe Biden.
Nei Balcani Biden seguirà la «linea Trump»
Mentre Joe Biden interviene a gamba tesa sull'Iran, modificando le sanzioni imposte da Donald Trump, i Balcani vedono da parte della Casa Bianca una profonda continuità. Lunedì scorso Israele ha riconosciuto il Kosovo quale Paese sovrano ed indipendente ovvero l'alleato mediorientale degli Stati Uniti ha portato a termine quanto voluto da Donald Trump alla firma dell'Accordo di Washington il 4 settembre 2020. In quell'occasione, l'allora capo della Casa Bianca pretese dal presidente serbo Aleksandar Vucic e dal premier kosovaro Avdullah Hoti la normalizzazione dei rapporti economici, in prospettiva di un futuro reciproco riconoscimento politico, impacchettando il tutto all'interno della strategia di stabilizzazione della periferia imperiale americana. L'occasione fu favorita dall'arresto, tutt'altro che casuale nelle tempistiche, del presidente kosovaro Hashim Thaci, accusato di crimini di guerra contro il popolo serbo ed oggi detenuto all'Aja in attesa di giudizio.
Il fatto che il riconoscimento di Israele, che quale contropartita prevede l'apertura di un'Ambasciata kosovara a Gerusalemme, sia giunto con l'amministrazione Biden già in carica lascia presagire che il nuovo presidente Usa intenda anche in questo dossier scottante, come in diversi altri, non allontanarsi per il momento dal solco tracciato dal suo predecessore. Donald Trump, dopo anni di sconclusionatezze europee, ha fatto ritornare di prepotenza gli Usa nelle questioni balcaniche nella speranza di riuscire a stabilizzare la regione in chiave anti cinese ed anti russa, riavviandone le capacita economiche e garantendone indipendenza energetica attraverso la connessione infrastrutturale con Israele, detentore di buona parte del bacino gassifero del Levante.
L'arresto di Thaci tuttavia ha portato a forti smottamenti politici interni. Questi, uniti alla decisione con cui la locale Corte costituzionale dichiarava a dicembre illegittimo il governo Hoti in quanto fondato su un solo voto di maggioranza garantito da un parlamentare condannato con sentenza passata in giudicato, stanno portando il Kosovo a nuove elezioni parlamentari. A causa delle pesanti restrizioni legate al Covid-19, dieci soli giorni di campagna elettorale faranno approdare il Paese al voto il 14 febbraio. Dalle urne dovrebbe uscire vincitore, con oltre il 40% delle preferenze, il leader del movimento nazionalista di sinistra Autodeterminazione!, Albin Kurti. Già vincitore delle elezioni nel 2019, con il 25% dei voti, ha guidato il Kosovo come primo ministro tra febbraio e giugno del 2020 per poi essere destabilizzato e cambiato a causa delle sue posizioni oltranziste nei confronti della Serbia e degli Stati Uniti. Albin Kurti, imprigionato dai serbi durante gli anni giovanili, è da sempre contrario a concessioni che favoriscano la distensione con Belgrado.
Tuttavia, per gran parte del popolo kosovaro, egli rappresenta l'unica speranza rimasta contro la dilagante corruzione e il malfunzionamento dello Stato che opprime lo sviluppo di un Paese ancora in maggior parte dipendente dagli aiuti internazionali e dalle rimesse dei connazionali all'estero. I risultati delle elezioni rilanceranno Kurti. Il suo partito potrebbe perfino raddoppiare il numero dei seggi in Parlamento ma il giorno dopo egli dovrà trasformarsi da politico in statista se vorrà far navigare il Paese in acque internazionali senza essere nuovamente sottoposto a maremoti politici.
Qualora non riesca ad ottenere la maggioranza assoluta dei voti, Kurti pare pronto a discutere un'alleanza con Ramush Haradinaj, capo dell'Alleanza per il futuro del Kosovo e anche egli ex premier di scarse simpatie serbe, a cui potrebbe spettare la presidenza della Repubblica.
Nonostante Joe Biden sia da sempre un sincero sostenitore della causa albanese, alla segreteria di Stato Usa sanno bene che questa volta il presidente dovrà usare grande tatto per non perdere le opportunità di soluzione della questione serbo-kosovara impostate da Trump. Egli non potrà permettersi il lusso di sostenere un Paese ostinatamente anti serbo. Sarebbe una miscela esplosiva che rigetterebbe la regione in mano ai nazionalismi più pericolosi, capaci di sfaldare tanto i Balcani, quanto l'intera area nordatlantica.
L'Italia, qualsiasi sia il risultato delle urne, è pronta a confermare il sostegno al Paese attraverso una partnership economica rafforzata, presentata nei mesi scorsi dalla nostra diplomazia al governo uscente. Il tutto, è l'augurio degli imprenditori italiani, condizionato dal fatto che il Kosovo incominci a garantire condizioni di sicurezza minime agli investimenti fino ad ora eseguiti e troppo spesso finiti vittime della rete di interessi politico-mafiosi di cui lo Stato si è troppo spesso dimostrato connivente.
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Riduci
Prende il via oggi il secondo storico processo. Ma, senza numeri al Senato, la sinistra riconsegnerà la scena all'ex presidenteL'inquilino della Casa Bianca proseguirà nell'opera di stabilizzazione dell'area in chiave anti cineseLo speciale contiene due articoliPrenderà il via oggi in Senato il secondo processo di impeachment contro Donald Trump: un evento storico, visto che mai prima d'ora un presidente americano era finito per due volte in stato d'accusa. La situazione politica generale resta tesa. E le incongruenze non mancano. In primis, su questo processo aleggia l'ombra dell'incostituzionalità. Secondo la carta fondamentale americana, l'impeachment è infatti un procedimento esplicitamente rivolto contro «funzionari civili» per ottenere la rimozione dal loro incarico. Il paradosso stavolta è che l'imputato sia un ex presidente, visto che - dal 20 gennaio - Trump ha lasciato la Casa Bianca. Certo: qualcuno noterà che comunque il processo sia stato formalmente istruito dalla Camera quando - il 13 gennaio - il diretto interessato era ancora in carica. Resta tuttavia il fatto che oggi Trump sia un privato cittadino e che un processo di impeachment contro un privato cittadino non sia previsto dalla Costituzione. A rendere ancora più evidente questo problema troviamo un ulteriore fattore: a presiedere il nuovo procedimento contro Trump non sarà il giudice capo della Corte Suprema, John Roberts, ma il presidente pro tempore del Senato, Patrick Leahy. Peccato che, secondo la Costituzione, un processo di impeachment contro un presidente dovrebbe essere presieduto proprio dal giudice capo della Corte Suprema: quello stesso Roberts che tuttavia, due settimane fa, si è chiamato fuori da questo nuovo procedimento. Non si capisce quindi a che titolo - giuridicamente parlando - Trump, da ex presidente, debba affrontare tale processo. È vero che nel 1876 il segretario alla Guerra, William Belknap, subì un impeachment dopo essersi dimesso dall'incarico. Ma attenzione: non si trattava di un presidente e - differentemente da Trump - si era dimesso proprio per sfuggire alla messa in stato d'accusa. È chiaro che l'obiettivo politico degli avversari dell'ex presidente sia quello di arrivare all'interdizione dei pubblici uffici: possibile (e non automatico) effetto di una condanna. Resta tuttavia un problema: la prassi parlamentare del Senato ha stabilito che il voto (a maggioranza semplice) per l'interdizione debba seguire il voto (a maggioranza di due terzi) per la condanna. Ne consegue che, senza condanna, non si dovrebbe poter votare per l'interdizione. Ora, è al momento improbabile che - in questo processo - possa essere raggiunto il quorum dei due terzi dei voti: per arrivare a quella soglia dovrebbero infatti votare a favore della condanna almeno 17 senatori repubblicani. Un numero molto difficile da conseguire. Basti pensare che, due settimane fa, il senatore repubblicano, Rand Paul, aveva presentato una mozione per dichiarare questo nuovo processo incostituzionale: una mozione che è stata alla fine respinta, ma contro cui hanno votato appena cinque senatori dell'Elefantino. In tutto questo, non trascuriamo i paradossi storici. Fermo restando il deplorevole errore commesso da Trump il 6 gennaio scorso, i dem - che hanno redatto come capo di imputazione quello di «incitamento all'insurrezione» - sembrano avere la memoria corta. Era il 4 marzo 2020, quando il loro capogruppo al Senato, Chuck Schumer, arringò una folla di manifestanti davanti alla Corte Suprema (riunitasi per valutare eventuali restrizioni all'aborto), pronunciando minacce contro i due supremi giudici nominati da Trump, Neil Gorsuch e Brett Kavanaugh. «Voglio dirti, Gorsuch; voglio dirti, Kavanaugh: avete liberato il vortice e ne pagherete il prezzo», esclamò tra la folla giubilante. Parole che furono definite «inappropriate» e «pericolose» dallo stesso John Roberts. A proposito di rispetto delle istituzioni, se è (giustamente) deprecabile aizzare una folla contro il Campidoglio, non dovrebbe essere altrettanto deprecabile fomentarla contro la Corte Suprema? Infine attenzione: perché -politicamente parlando- questo secondo impeachment rischia di rivelarsi un boomerang per gli stessi avversari di Trump (democratici e repubblicani). Un sondaggio della Quinnipiac University ha registrato che gli americani siano spaccati quasi a metà sull'impeachment (con il 50% favorevole a una condanna e il 45% contrario). Inoltre, una recente rilevazione di The Hill ha evidenziato che il 64% degli elettori repubblicani sosterrebbe un eventuale nuovo partito, fondato da Trump: segno che l'ex presidente goda ancora di un bacino elettorale considerevole. Anziché metterlo all'angolo, l'impeachment rischia quindi di rafforzare l'ex inquilino della Casa Bianca. È forse anche in considerazione di ciò che alcuni senatori dem (come Tom Carper) auspicano un processo il più breve possibile (Politico ha riferito che l'idea sarebbe quella di concludere tutto entro sette giorni). Anche perché, qualora i tempi si allungassero, il Senato rischierebbe di restare impantanato. 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In quell'occasione, l'allora capo della Casa Bianca pretese dal presidente serbo Aleksandar Vucic e dal premier kosovaro Avdullah Hoti la normalizzazione dei rapporti economici, in prospettiva di un futuro reciproco riconoscimento politico, impacchettando il tutto all'interno della strategia di stabilizzazione della periferia imperiale americana. L'occasione fu favorita dall'arresto, tutt'altro che casuale nelle tempistiche, del presidente kosovaro Hashim Thaci, accusato di crimini di guerra contro il popolo serbo ed oggi detenuto all'Aja in attesa di giudizio. Il fatto che il riconoscimento di Israele, che quale contropartita prevede l'apertura di un'Ambasciata kosovara a Gerusalemme, sia giunto con l'amministrazione Biden già in carica lascia presagire che il nuovo presidente Usa intenda anche in questo dossier scottante, come in diversi altri, non allontanarsi per il momento dal solco tracciato dal suo predecessore. Donald Trump, dopo anni di sconclusionatezze europee, ha fatto ritornare di prepotenza gli Usa nelle questioni balcaniche nella speranza di riuscire a stabilizzare la regione in chiave anti cinese ed anti russa, riavviandone le capacita economiche e garantendone indipendenza energetica attraverso la connessione infrastrutturale con Israele, detentore di buona parte del bacino gassifero del Levante. L'arresto di Thaci tuttavia ha portato a forti smottamenti politici interni. Questi, uniti alla decisione con cui la locale Corte costituzionale dichiarava a dicembre illegittimo il governo Hoti in quanto fondato su un solo voto di maggioranza garantito da un parlamentare condannato con sentenza passata in giudicato, stanno portando il Kosovo a nuove elezioni parlamentari. A causa delle pesanti restrizioni legate al Covid-19, dieci soli giorni di campagna elettorale faranno approdare il Paese al voto il 14 febbraio. Dalle urne dovrebbe uscire vincitore, con oltre il 40% delle preferenze, il leader del movimento nazionalista di sinistra Autodeterminazione!, Albin Kurti. Già vincitore delle elezioni nel 2019, con il 25% dei voti, ha guidato il Kosovo come primo ministro tra febbraio e giugno del 2020 per poi essere destabilizzato e cambiato a causa delle sue posizioni oltranziste nei confronti della Serbia e degli Stati Uniti. Albin Kurti, imprigionato dai serbi durante gli anni giovanili, è da sempre contrario a concessioni che favoriscano la distensione con Belgrado. Tuttavia, per gran parte del popolo kosovaro, egli rappresenta l'unica speranza rimasta contro la dilagante corruzione e il malfunzionamento dello Stato che opprime lo sviluppo di un Paese ancora in maggior parte dipendente dagli aiuti internazionali e dalle rimesse dei connazionali all'estero. I risultati delle elezioni rilanceranno Kurti. Il suo partito potrebbe perfino raddoppiare il numero dei seggi in Parlamento ma il giorno dopo egli dovrà trasformarsi da politico in statista se vorrà far navigare il Paese in acque internazionali senza essere nuovamente sottoposto a maremoti politici. Qualora non riesca ad ottenere la maggioranza assoluta dei voti, Kurti pare pronto a discutere un'alleanza con Ramush Haradinaj, capo dell'Alleanza per il futuro del Kosovo e anche egli ex premier di scarse simpatie serbe, a cui potrebbe spettare la presidenza della Repubblica. Nonostante Joe Biden sia da sempre un sincero sostenitore della causa albanese, alla segreteria di Stato Usa sanno bene che questa volta il presidente dovrà usare grande tatto per non perdere le opportunità di soluzione della questione serbo-kosovara impostate da Trump. Egli non potrà permettersi il lusso di sostenere un Paese ostinatamente anti serbo. Sarebbe una miscela esplosiva che rigetterebbe la regione in mano ai nazionalismi più pericolosi, capaci di sfaldare tanto i Balcani, quanto l'intera area nordatlantica. L'Italia, qualsiasi sia il risultato delle urne, è pronta a confermare il sostegno al Paese attraverso una partnership economica rafforzata, presentata nei mesi scorsi dalla nostra diplomazia al governo uscente. Il tutto, è l'augurio degli imprenditori italiani, condizionato dal fatto che il Kosovo incominci a garantire condizioni di sicurezza minime agli investimenti fino ad ora eseguiti e troppo spesso finiti vittime della rete di interessi politico-mafiosi di cui lo Stato si è troppo spesso dimostrato connivente.
Luca Casarini. Nel riquadro, il manifesto abusivo comparso a Milano (Ansa)
Quando non è tra le onde, Casarini è nel mare di Internet, dove twitta. E pure parecchio. Dice la sua su qualsiasi cosa. Condivide i post dell’Osservatore romano e quelli di Ilaria Salis (del resto, tra i due, è difficile trovare delle differenze, a volte). Ma, soprattutto, attacca le norme del governo e dell’Unione europea in materia di immigrazione. Si sente Davide contro Golia. E lotta, invitando anche ad andare contro la legge. Quando, qualche giorno fa, è stata fermata la nave Humanity 1 (poi rimessa subito in mare dal tribunale di Agrigento) Casarini ha scritto: «Abbatteremo i vostri muri, taglieremo i fili spinati dei vostri campi di concentramento. Faremo fuggire gli innocenti che tenete prigionieri. È già successo nella Storia, succederà ancora. In mare come in terra. La disumanità non vincerà. Fatevene una ragione». Questa volta si sentiva Oskar Schindler, anche se poi va nei cortei pro Pal che inneggiano alla distruzione dello Stato di Israele.
Chi volesse approfondire il suo pensiero, poi, potrebbe andare a leggersi L’Unità del 10 dicembre scorso, il cui titolo è già un programma: Per salvare i migranti dobbiamo forzare le leggi. Nel testo, che risparmiamo al lettore, spiega come l’Ue si sia piegata a Giorgia Meloni e a Donald Trump in materia di immigrazione. I sovranisti (da quanto tempo non sentivamo più questo termine) stanno vincendo. Bisogna fare qualcosa. Bisogna reagire. Ribellarsi. Anche alle leggi. Il nostro, sempre attento ad essere politicamente corretto, se la prende pure con gli albanesi che vivono in un Paese «a metà tra un narcostato e un hub di riciclaggio delle mafie di mezzo mondo, retto da un “dandy” come Rama, più simile al Dandy della banda della Magliana che a quel G.B. Brummel che diede origine al termine». Casarini parla poi di «squadracce» che fanno sparire i migranti e di presunte «soluzioni finali» per questi ultimi. E auspica un modello alternativo, che crei «reti di protezione di migranti e rifugiati, per sottrarli alle future retate che peraltro avverranno in primis nei luoghi di “non accoglienza”, così scientificamente creati nelle nostre città da un programma di smantellamento dei servizi sociali, educativi e sanitari, che mostra oggi i suoi risultati nelle sacche di marginalità in aumento».
Detto, fatto. Qualcuno, in piazzale Cuoco a Milano, ha infatti pensato bene di affiggere dei manifesti anonimi con le indicazioni, per i migranti irregolari, su cosa fare per evitare di finire nei centri di permanenza per i rimpatri, i cosiddetti di Cpr. Nessuna sigla. Nessun contatto. Solo diverse lingue per diffondere il vademecum: l’italiano, certo, ma anche l’arabo e il bengalese in modo che chiunque passi di lì posa capire il messaggio e sfuggire alla legge. Ti bloccano per strada? Non far vedere il passaporto. Devi andare in questura? Presentati con un avvocato. Ti danno un documento di espulsione? Ci sono avvocati gratis (che in realtà pagano gli italiani con le loro tasse). E poi informazioni nel caso in cui qualcuno dovesse finire in un cpr: avrai un telefono, a volte senza videocamera. E ancora: «Se non hai il passaporto del tuo Paese prima di deportarti l’ambasciata ti deve riconoscere. Quindi se non capisci la lingua in cui ti parla non ti deportano. Se ti deportano la polizia italiana ti deve lasciare un foglio che spiega perché ti hanno deportato e quanto tempo deve passare prima di poter ritornare in Europa. È importante informarci e organizzarci insieme per resistere!».
Per Sara Kelany (Fdi), «dire che i Cpr sono “campi di deportazione” e “prigioni per persone senza documenti” è una mistificazione che non serve a tutelare i diritti ma a sostenere e incentivare l’immigrazione irregolare con tutti i rischi che ne conseguono. Nei Cpr vengono trattenuti migranti irregolari socialmente pericolosi, che hanno all’attivo condanne per reati anche molto gravi. Potrà dispiacere a qualche esponente della sinistra o a qualche attivista delle Ong - ogni riferimento a Casarini non è casuale - ma in Italia si rispettano le nostre leggi e non consentiamo a nessuno di aggirarle». Per Francesco Rocca (Fdi), si tratta di «un’affissione abusiva dallo sgradevole odore eversivo».
Casarini, da convertito, diffonde il verbo. Che non è quello che si è incarnato, ma quello che tutela l’immigrato.
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