2025-10-07
I centri sociali stanno fomentando i maranza per creare il caos in Italia
Il prefetto di Torino segnala i legami tra antagonisti e gli immigrati di seconda generazione in piazza per sostenere la causa della Striscia. Una bomba a orologeria che può esplodere da un momento all’altro.Qualche giorno fa, l’associazione «Forlì città aperta» ha pubblicato un manifesto in cui invitava la popolazione a scendere in piazza per Gaza. In realtà, non lo chiedeva a tutti ma solo a specifiche realtà: gli studenti e i lavoratori ma, soprattutto, i migranti e i maranza. Ed è proprio su questi ultimi che vale la pena soffermarsi perché, contrariamente a quanto afferma una certa stampa di sinistra, ci sono loro in prima fila durante le manifestazioni per Gaza e, soprattutto, sono loro a creare i maggiori problemi di ordine pubblico. Lo abbiamo visto a fine settembre con l’assalto alla Stazione Centrale. C’erano loro, con il borsello d’ordinanza a tracolla e le tute scialbe, a devastare. E c’erano sempre loro a bloccare - durante lo sciopero indetto da Maurizio Landini, che ha paralizzato il Paese il 2 ottobre scorso - i principali snodi nazionali. Stazione Porta Nuova, Torino. Alcuni giovani si muovono in branco. All’improvviso iniziano a raccogliere sassi e bottiglie. Li lanciano contro le forze dell’ordine. Poi è il turno della segnaletica stradale, divelta e infine scagliata contro la polizia. Sono teppisti di strada che diventano, attorno alla causa palestinese, guerriglieri imbeccati dai centri sociali, come rileva il prefetto Donato Cafagna: «Nelle violenze di questi giorni c’è stato un ruolo di leadership da parte di soggetti antagonisti e anarchici che hanno coinvolto anche studenti e ragazzi di origine straniera». Si tratta di immigrati di seconda generazione che non sono mai riusciti a integrarsi. Che vivono nel nostro Paese e che, in alcuni casi, hanno la cittadinanza italiana. Ma continuano a sentirsi un corpo estraneo. Diversi. Non si sentono parte di nulla. Sono déraciné. Sradicati. Non hanno radici. La loro origine è spesso in qualche Paese del Nord Africa o del Medio Oriente, così diverso da noi. Sono l’oggetto migliore per diventare la bassa manovalanza dei centri sociali o, peggio ancora, dei terroristi islamici. Il caso di Khaled Kelkal, il primo jihadista francese, è emblematico. Nasce in Algeria nel 1971, ma la sua famiglia si trasferisce in Francia quando lui è ancora bambino. All’inizio è uno studente modello, ma poi inizia a invidiare i suoi colleghi a scuola. Lui non è ricco come loro. Non riesce a trovarsi. Poco alla volta abbandona la scuola e diventa un casseur, un teppista. Un maranza dell’epoca. Racconta infatti: «Distruggevamo i negozi. Trasformavamo le macchine in macchine-ariete, sfondavamo i negozi, prendevamo tutto ciò che c’era dentro, riempivamo la macchina, andavamo via e poi vendevamo». Era solo l’inizio. Di lì a poco finisce in prigione, dove riscopre l’islam e tutto cambia: «Io non sono né arabo né francese: sono musulmano», dirà anni dopo. E ancora: «Se tu sei musulmano siamo tutti fratelli. È l’unicità. Come adesso voi avete l’Europa… Cosa vogliono fare? Vogliono unirsi. Perché? Per formare una forza. E i musulmani la stessa cosa. Il primo pilastro dell’islam è l’unicità». La vicenda di Khaled è la rappresentazione di ciò che ora sta accadendo qui. Era il 14 ottobre del 2024 e Udine ospitava la partita Italia-Israele. Manifestazione di rito contro la nazionale dello Stato ebraico. Le vie del centro si riempiono di bandiere rosse e palestinesi. E, soprattutto, di tanti giovani che parlano arabo. Dagli altoparlanti cominciano a uscire i nasheed - i canti tradizionali arabi - remixati. Si invoca Allah e un futuro per la Palestina libera dal fiume al mare. I ragazzi iniziano a saltare e urlare. Non sono più soli. Sono una comunità che finalmente ritrova una ragion d’essere. Proprio come Khaled. Per anni ha vissuto nel dubbio, poi ha trovato una causa per la quale combattere. Per lui era quella dell’Algeria, per i maranza potrebbe essere quella palestinese. Radicalizzare del resto è tutto sommato facile. E, ancora di più, imparare l’arte della guerriglia. I documenti dell’Isis si trovano online e i centri sociali sono (cattivi) maestri della devastazione. Non regge quindi la versione di Landini che, dopo gli scontri del 2 ottobre, ha detto: «La violenza è anche una cosa contro chi manifesta, la considero anche una cosa contro di noi. Non è un caso che non abbiamo mai difeso la violenza, come abbiamo combattuto il terrorismo combattiamo qualsiasi forma di violenza, che è contro i lavoratori, contro la democrazia». Non è così: la violenza, cavalcata da antagonisti e pro Pal, serve per creare il caos. E dare un’identità a chi non ce l’ha. Come hanno capito benissimo i centri sociali che, non a caso, stanno usando i maranza. In questo modo, però, si sta costruendo, con l’avallo della sinistra, una bomba a orologeria che rischia di esplodere da un momento all’altro.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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