2020-02-14
Quelli «buoni» processano gli ex
ministri e danno soldi agli scafisti
Laurin Schmid:SOS Mediterranee:picture alliance via Getty Images
Mentre la trattativa tra Luigi Di Maio e Khalifa Haftar non va in porto, quella sul memorandum con Tripoli prevede fondi per i trafficanti che cambiano lavoro. E corsi di formazione sui diritti umani per i gestori dei «centri lager».Lorenzo Guerini annuncia una nuova missione nel Sahara per aiutare Parigi priva del sostegno Usa. In cambio meno flussi di immigrati.Lo speciale contiene due articoliLa seconda parte della missione di Luigi Di Maio in Libia non è andata benissimo. Il ministro italiano si è recato a Bengasi per incontrare Khalifa Haftar. Al generale leader della Cirenaica ha chiesto di sospendere l'attività militare e di riaprire i pozzi. Non sappiamo quale sia stata la risposta diretta dell'uomo forte di Bengasi, ma quella indiretta è stata esplicita. Haftar ha fatto bombardare l'aeroporto di Mitiga, l'ultimo rimasto in funzione a Tripoli. Risultato voli sospesi e stop delle attività aeree dell'Onu in Tripolitania. Un messaggio forte che cozza con le dichiarazioni dell'ex leader grillino. Al contrario del messaggio inviato in queste ore dai francesi. Prima di Di Maio, Haftar ha infatti ricevuto al suo quartier generale Christope Farno, il delegato per il Medioriente e il Nord Africa di Emmanuel Macron. Parigi non è per la linea del disarmo e ciò è pane per le orecchie di Haftar il quale mal digerisce l'accordo da poco rinnovato tra l'Italia e il governo guidato da Fajez Al Serraj. Durante l'incontro di mercoledì Di Maio ha discusso di cessate il fuoco ma soprattutto di flussi migratori. Nello specifico, avrebbe presentato le modifiche che l'Italia vorrebbe apporre alla seconda versione dell'accordo siglato dall'allora capo dell'Interno, Marco Minniti. Due settimane fa i governi hanno prorogato le condizioni del bilaterale datato 2017, lasciando aperti alcuni dettagli che possono essere rivisti. Il testo anticipato da Avvenire non è ancora definitivo, ma fa emergere che le differenze sono di mera facciata. Il governo giallorosso cerca di inserire nuovi dettagli per prevenire accuse di mancata tutela dei diritti umani. In realtà, si tratta di pezzuole bagnate che si prefiggono di curare una polmonite. Il contratto delega, infatti, ai libici gran parte delle attività di prevenzione contro il traffico di migranti e soprattutto lascia intendere che per coloro che smetteranno di trafficare esseri umani ci sarà la possibilità di riconvertire lo stipendio in attività legali. Il comma «d» dell'articolo 2 recita che le parti si impegnano «ad avviare programmi di sviluppo, attraverso iniziative capaci di creare opportunità lavorative sostitutrici di reddito nelle regioni libiche colpite dai fenomeni dell'immigrazione irregolare, traffico di esseri umani e contrabbando». L'accordo prevede anche più soldi per i centri di accoglienza e la formazione di personale che sia adeguatamente sensibilizzato al tema dei diritti umani. Senza dimenticare che proseguiranno i rapporti preferenziali con la Guardia costiera libica, che a sua volta dovrà essere più proattiva nel contrasto delle attività criminali. La parte libica, stando al dettaglio dell'accordo, si dovrebbe impegnare «al rilascio di donne, bambini e altri individui vulnerabili dai centri di accoglienza. In modo che non siano vittime esposte alle ostilità belliche». Il paradosso è che il nostro governo non si preoccupa di specificare dove tali individui debbano essere rilasciati. Per strada? Abbandonati nel deserto? Le domande potrebbero proseguire quasi all'infinito perché il documento dimostra tutta l'ipocrisia dei buoni, della sinistra e di tutti coloro che l'altro giorno hanno votato per far processare Matteo Salvini sul caso Gregoretti. Il testo bilaterale replica quasi fedelmente il modello Minniti: pagare i trafficanti perché smettano di vendere carne umana o perché la vendano altrove. Nulla di che stupirsi, lo faceva Silvio Berlusconi ai tempi di Muhammar Gheddafi. Però non andava in piazza con le sardine per denunciare il capo leghista «reo» di aver interrotto lo schema criminale del traffico di esseri umani. Dall'accordo portato avanti da Di Maio si deduce che basta prendere dei libretti, tradurli in arabo e insegnare a bande di milizie che si devono rispettare le donne e i bambini. E loro come per miracolo si comporteranno bene. È una falsità così ipocrita che se non si trattasse di dramma dovrebbe farci tutti ridere. Invece, per mesi l'opposizione ha fatto campagne contro la Lega perché gli immigrati non potevano essere rimandati in Libia, dove - stando alla definizione della convenzione marittima internazionale - non esistevano porti sicuri. La Libia era in guerra e Salvini sarebbe stato un criminale a rimandere indietro le persone. Da oggi apprendiamo che se lo farà la Guardia costiera libica invece contribuirà a portare civiltà e tutela dei diritti sulla terra ferma. Dove nel frattempo si continua a usare bombe e sparare con i droni. L'accordo bilaterale omette anche un secondo dettaglio, non da poco. Nel dare l'incarico alla Guardia costiera locale, il tetso spiega che si tratta di contrasto ai trafficanti, ma non si sofferma su dove - una volta sequestrati i barconi - le persone contrabbandate andranno a finire. In quali porti saranno sbarcate? Che fine faranno? È questo il motivo per cui i decreti Sicurezza voluti sa Salvini non saranno toccati dal ministro Luciana Lamorgese. Perché il ruolo delle Ong sarà sostituito dai libici. Il blocco avverrà a monte. E non potrà essere consentito che qualcuno bypassi l'accordo Minniti. La differenza fondamentale è che il blocco effettuato a valle (il modello del governo gialloblù) non prevedeva patti con i delinquenti, ma solo l'uso della forza internazionale per fermare i traffici illegali. Adesso ci si gira dall'altra parte e si finge che milizie armate fino ai denti accetteranno di buon cuore di mettere la divisa degli scout e magari aderire al Green new deal per inquinare di meno. Non ci vogliamo stupire che ci siano accordi economici per gestire i flussi migratori, ma la ramanzina morale meglio di no.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/i-buoni-processano-gli-ex-ministri-e-ora-si-accordano-con-gli-schiavisti-2645143393.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="i-nostri-militari-nel-sahel-per-fare-il-lavoro-sporco-di-macron" data-post-id="2645143393" data-published-at="1757918383" data-use-pagination="False"> I nostri militari nel Sahel per fare il lavoro sporco di Macron «Questo governo è più filo francese di Sandro Gozi». Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi Difesa, già consulente di Matteo Salvini al Viminale sul tema sicurezza, commenta con una battuta la decisione del ministro Lorenzo Guerini di «incrementare la presenza dell'Italia nel Sahel dove si assiste ad una recrudescenza del terrorismo di matrice confessionale, i cui effetti sono fortemente interconnessi con lo scenario libico». Si tratta di una vecchia questione di cui si era già parlato nel 2017, quando il nostro Paese aveva deciso di intervenire in Niger all'epoca del governo di Paolo Gentiloni. «E non fu semplice, ma anche allora era la Francia a condurre le operazioni», dice Gaiani alla Verità ricordando le polemiche che avevano colpito l'ex ministro della Difesa Roberta Pinotti. Il tema di fondo infatti è sempre lo stesso. Dal 2018 i francesi - in difficoltà in Africa e impegnati nella zona con quasi 5.000 soldati contro i jihadisti islamici - stanno creando un esercito parallelo a quello dell'Unione europea. Il caso del Sahel è emblematico. La zona è complessa. Lontana dal mare. Lo stesso generale Claudio Graziano, presidente del Comitato militare dell'Ue e consigliere dell'Alto rappresentante Josep Borrell, sta provando a unire i 27 paesi dell'Unione ma senza successo. Così è la Francia a tirare le fila. «Immagino che l'impegno di cui parla Guerini nel Sahel sarà di almeno 100 uomini, ma non lo sappiamo con certezza, anche perché non è stata ancora presentata in Parlamento la relazione sulle nostre missioni estere», ricorda Gaiani che non dimentica le polemiche di questi giorni sulla vendita di due fregate di Fincantieri all'Egitto. «Chi attacca i nostri rapporti con Al Sisi fa gli interessi della Francia». In teoria all'aiuto dell'Italia ai francesi nel Sahel dovrebbe corrispondere un freno all'arrivo dei migranti dall'Africa, una vecchia idea contenuta nelle politiche dell'ex ministro dell'Interno, Marco Minniti. In teoria l'Italia dovrebbe sostituire gli americani che ora sono in Niger (ma che si stanno ritirando come in Siria), per concentrarsi nell'area del Pacifico per fronteggiare la Cina. La nostra “mission", insomma, potrebbe essere quella di creare una sorta di sbarramento i migranti che poi arrivano in Libia e, più in generale, sulle coste del Magreb, per poi finire sui barconi e le navi delle Ong. «Ma anche qui ci dimostriamo sempre più filofrancesi che mai. Basta pensare alle trattative di questi giorni per la reintroduzione della missione navale Sophia che si era interrotta durante il governo Conte 1», ricorda Gaiani. «Se oggi tutti i paesi Ue sono pronti a fornire navi a Sophia è perché hanno avuto garanzie che il governo Conte 2 ha offerto garanzie che accoglierà tutti i clandestini raccolti in mare dalle navi europee». Poi c'è un terzo attore sempre più attivo in Africa di cui ormai bisogna tenere conto. È la Turchia di Recep Tayyip Erdogan, sempre più impegnata nel continente africano, con consiglieri economici e diplomatici impegnati da Tripoli fino a Cape Town. Proprio nel Sahel il governo di Ankara ha firmato nei giorni scorsi un partenariato con il Ciad per l'esplorazione mineraria. A questo si aggiunge già una stretta collaborazione con il Niger. La Turchia sta collaborando con la società mineraria statale ciadiana Société nationale des mines et de la géologie (Sonamig) per fornire mappe dettagliate della geologia del Ciad. La partnership mira anche a costruire un laboratorio di analisi minerale nel paese dell'intera regione. L'Italia cosa avrà in cambio dal suo impegno? «Del resto i turchi hanno come ministro degli Esteri Mevlut Cavasoglu , noi Luigi Di Maio», conclude Gaiani. Cavasoglu ha una lunga esperienza diplomatica, parla 4 lingue e rappresenta una delle punte di diamante nella strategia espansionistica di Erdogan.
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Dopo l'apertura dei lavori affidata a Maurizio Belpietro, il clou del programma vedrà il direttore del quotidiano intervistare il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, chiamato a chiarire quali regole l’Italia intende adottare per affrontare i prossimi anni, tra il ruolo degli idrocarburi, il contributo del nucleare e la sostenibilità economica degli obiettivi ambientali. A seguire, il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, offrirà la prospettiva di un territorio chiave per la competitività del Paese.
La transizione non è più un percorso scontato: l’impasse europea sull’obiettivo di riduzione del 90% delle emissioni al 2040, le divisioni tra i Paesi membri, i costi elevati per le imprese e i nuovi equilibri geopolitici stanno mettendo in discussione strategie che fino a poco tempo fa sembravano intoccabili. Domande cruciali come «quale energia useremo?», «chi sosterrà gli investimenti?» e «che ruolo avranno gas e nucleare?» saranno al centro del dibattito.
Dopo l’apertura istituzionale, spazio alle testimonianze di aziende e manager. Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, dialogherà con Belpietro sulle opportunità di sviluppo del settore energetico italiano. Seguiranno gli interventi di Maria Rosaria Guarniere (Terna), Maria Cristina Papetti (Enel) e Riccardo Toto (Renexia), che porteranno la loro esperienza su reti, rinnovabili e nuova «frontiera blu» dell’offshore.
Non mancheranno case history di realtà produttive che stanno affrontando la sfida sul campo: Nicola Perizzolo (Barilla), Leonardo Meoli (Generali) e Marzia Ravanelli (Bf spa) racconteranno come coniugare sostenibilità ambientale e competitività. Infine, Maurizio Dallocchio, presidente di Generalfinance e docente alla Bocconi, analizzerà il ruolo decisivo della finanza in un percorso che richiede investimenti globali stimati in oltre 1.700 miliardi di dollari l’anno.
Un confronto a più voci, dunque, per capire se la transizione energetica potrà davvero essere la leva per un futuro più sostenibile senza sacrificare crescita e lavoro.
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Chi ha inventato il sistema di posizionamento globale GPS? D’accordo la Difesa Usa, ma quanto a persone, chi è stato il genio inventore?