Il bando della Casa Bianca spinge l'azienda di Mountain View a chiudere il contratto con i cinesi e Intel sospende le forniture. Il colosso di Shenzhen costretto a investire miliardi per nuovi sistemi, ma ha 90 giorni di scorte. Il blitz riapre la partita dei dazi.I preliminari sono finiti. Adesso comincia la vera guerra fredda per la supremazia tecnologica e digitale. Il governo degli Stati Uniti ha lanciato l'appello contro i cinesi di Huawei, Google e i produttori a stelle e strisce hanno raccolto immediatamente la richiesta. L'azienda di Mountain View non fornirà più al colosso della telefonia di Shenzhen (e quindi neppure al marchio controllato Honor) «hardware, software e servizi». Cioè niente Android (fatta eccezione per la versione open source) e - soprattutto - niente Google play store e app sviluppate dalle parti di Santa Clara in California. Le conseguenze, come ha spiegato anche il gruppo americano a Reuters, sono ancora da definire, anche perché il bando potrebbe non essere definitivo.Come tre smartphone su quattro sul pianeta, anche quelli di Huawei hanno a bordo Android. Il sistema operativo di Google ha una base libera. Un pacchetto di codice (Android open source project, Aosp) cui tutti possono attingere. I produttori lo prendono e ci mettono mano, adattandolo ai propri prodotti e costruendo delle versioni proprietarie. È il caso, per Huawei, del sistema Emui. È un po' come se dagli Stati Uniti arrivassero abiti già pronti, che Huawei modifica per renderli «su misura». Qualche punto qui, qualche taglio là. Tutto questo con il supporto di Google, che (da subito e per tutti dispositivi del marchio cinese) non ci sarà più.Ciò non vuol dire che chi ha acquistato smartphone Huawei si ritroverà da domani senza Google. Ogni aggiornamento però richiederà maggiore sforzo da parte di Huawei, perché la versione pubblica di Android è più povera e l'integrazione di nuove funzionalità potrebbe essere più lenta. Il gruppo di Shenzhen non avrà più un canale diretto con Mountain View, e dovrà aspettare che gli aggiornamenti arrivino su Aosp prima di utilizzarli. Il tempo, in un mondo nel quale gli aggiornamenti sono fatti non solo per migliorare il servizio ma anche per tappare delle falle nella sicurezza, è un fattore tutt'altro che secondario. Se fino ad ora Google ha riempito l'armadio di Huawei, adesso si limiterà a spedire stoffa e disegno. Al resto ci dovranno pensare in Cina. Difficile, però, dire quali saranno le ripercussioni sugli utenti. Al di là dei paragoni con il tessile, è certo che la mossa americana avrà comunque un effetto positivo per la politica di Trump. Non avere a disposizione Google Play vuol dire non aggiornare le app (tutte le app). Perché le nuove versioni entrano nello smartphone passando dal negozio digitale. Huawei ha fatto sapere che «continuerà a fornire aggiornamenti di sicurezza e servizi post vendita a tutti gli smartphone e tablet Huawei e Honor esistenti». Cioè sia quelli già venduti, sia quelli in magazzino. Neanche la voce ufficiale, però, si sbilancia sul futuro. Non avere licenza significa dover trovare un nuovo sistema operativo. E qui si innesta la strategia di Donald Trump. Anche se veramente i cinesi dovessero lavorare per rendersi autonomi, Huawei sarà costretta a utilizzare le proprie riserve di liquidità. Dovrà scommettere molto denaro e immettere sul mercato qualcosa di simile alle app di Google. Come poi reagiranno i clienti europei è difficile da prevedere. In ogni caso gli Usa avranno ottenuto il primo risultato: far spendere alle aziende cinesi miliardi di dollari. A quel punto la guerra economica tornerà a viaggiare sul piano geopolitico. In pratica, la trattativa tornerà a occuparsi di dazi. Quanto tempo ci vorrà? Al netto dei temi software, ci sono quelli che toccano l'hardware. Huawei (che a questo punto sta subendo un bando simile a quello in cui è incappata Zte) ha nei suoi magazzini rifornimenti targati Intel o Broadcom per tre mesi. Al termine dei quali dovrà trovare altre porte a cui bussare. Difficile immaginare che riesca a sviluppare i medesimi chip in così poco tempo. È dunque logico pensare che nei prossimi tre mesi Pechino possa trovare un punto di caduta nella battaglia dei dazi. Fare marcia indietro sulle tasse che ha imposto agli Usa e accettare di pagare una via di mezzo tra il 10 e il 25%, cioè l'ultima aliquota prevista dalla Casa Bianca. Se non dovesse arretrare, dovrà accettare di perdere quote di mercato e molta liquidità. Nel 2018 Apple ha venduto poco più di 60 milioni di telefonini. Huawei soltanto nell'ultimo trimestre del 2018 ne ha piazzati poco più di 49 milioni. Dallo scorso gennaio, la società americana ha fatto sapere che non diffonderà più informazioni sulle proprie vendite, e dunque sulle quote di mercato. Segno che la concorrenza cinese fa paura e che per gli americani si è reso necessario un intervento manu militari. E i clienti italiani o europei? Dovranno aspettare qualche settimana per capire che succederà effettivamente ai software dei loro telefoni. Al momento possono stare tranquilli.
Robert Redford (Getty Images)
Incastrato nel ruolo del «bellone», Robert Redford si è progressivamente distaccato da Hollywood e dai suoi conformismi. Grazie al suo festival indipendente abbiamo Tarantino.
Leone XIV (Ansa)
Nella sua prima intervista, il Papa si conferma non etichettabile: parla di disuguaglianze e cita l’esempio di Musk, ma per rimarcare come la perdita del senso della vita porti all’idolatria del denaro. E chiarisce: il sinodo non deve diventare il parlamento del clero.