- I pronostici della vigilia vedono il candidato repubblicano in lievissimo vantaggio. In caso di testa a testa si aprirebbe la porta a ricorsi legali e richieste di riconteggio.
- Iran, Russia e Cina già in fibrillazione. Kamala guarda agli ayatollah, il tycoon a un’intesa Israele-sunniti. Incertezze sul futuro dell’Ucraina.
I pronostici della vigilia vedono il candidato repubblicano in lievissimo vantaggio. In caso di testa a testa si aprirebbe la porta a ricorsi legali e richieste di riconteggio.Iran, Russia e Cina già in fibrillazione. Kamala guarda agli ayatollah, il tycoon a un’intesa Israele-sunniti. Incertezze sul futuro dell’Ucraina.Lo speciale contiene due articoli.Ormai ci siamo. Domani, negli Stati Uniti, si terrà l’Election Day. La sfida tra Donald Trump e Kamala Harris si preannuncia serrata. Ma non sono escluse delle sorprese. Cominciamo col ricordare che, domani, gli americani non si recheranno a votare per il prossimo presidente: voteranno invece per i grandi elettori che, a loro volta, eleggeranno il nuovo inquilino della Casa Bianca. L’elezione del presidente degli Stati Uniti è infatti indiretta e avviene in seno al cosiddetto Electoral College, che comprende un totale di 538 grandi elettori. Il quorum necessario per arrivare alla Casa Bianca è di 270. Ma come funziona tecnicamente l’elezione?Ogni Stato mette in palio una quota di grandi elettori sulla base della propria quantità di popolazione. Per esempio, la California, che è lo Stato più popoloso, ne offre 54, mentre il Wyoming, che è quello più spopolato, ne ha appena tre. In 48 Stati su 50, chi vince il voto popolare conquista automaticamente tutti i grandi elettori presenti in un determinato Stato. Fanno eccezione Nebraska e Maine, che li assegnano invece su base proporzionale. Ne consegue che, per arrivare alla Casa Bianca, non è strettamente necessario avere la maggioranza del voto popolare a livello nazionale: l’importante è avere la maggioranza del voto popolare negli Stati che permettono di arrivare a ottenere un minimo di 270 grandi elettori. Del resto, Trump, nel 2016, e George W. Bush, nel 2000, vinsero la presidenza senza conquistare il voto popolare a livello nazionale. Questo poi non vuol dire che i due elementi, voto nazionale ed Electoral College, siano completamente scissi. A settembre, il sondaggista Nate Silver ha pubblicato delle statistiche, secondo cui la Harris supererebbe il 50% di probabilità di ottenere 270 grandi elettori solo a fronte di un vantaggio nel voto nazionale di (almeno) due punti. Ma che cosa dicono i sondaggi? Al 2 novembre, la media di Real Clear Politics dava Trump avanti nel voto nazionale dello 0,3%. Venendo agli Stati chiave, il tycoon era in testa in Arizona (del 2,3%), in Nevada (dell’1,5%), in Georgia (del 2,6%) e in Pennsylvania (dello 0,4%). Dall’altra parte, secondo la stessa media, la Harris era avanti in Michigan (dello 0,8%) e in Wisconsin (dello 0,3%). Come è facile comprendere, i sondaggi certificano una situazione di testa a testa. Non a caso, l’altro ieri il modello predittivo di Decision Desk dava a Trump il 54% delle chance di vittoria: il tycoon è quindi leggermente favorito, anche se il quadro complessivo resta fondamentalmente in bilico.È chiaro che, se i sondaggi sono corretti, si configura un testa a testa. Il che aprirebbe probabilmente la porta a richieste di riconteggio e a ricorsi legali. Dall’altra parte, c’è chi sospetta però che non ci si debba fidare troppo di questi sondaggi. «Ci sono troppi sondaggi negli Stati indecisi che mostrano la corsa esattamente con Harris +1, testa a testa, Trump +1. Dovrebbe esserci più variazione di così. Tutti stanno facendo herding», ha scritto Nate Silver su X a fine ottobre. Ora, secondo l’American association for public opinion research, l’herding è quel fenomeno che si verifica quando «alcuni sondaggisti politici aggiustano i loro risultati, affinché corrispondano o si avvicinino molto ai risultati di altri sondaggi». In altre parole, non si può escludere che gli istituti sondaggistici si stiano allineando tra loro per evitare di presentare risultati troppo differenti e proteggersi così da eventuali situazioni di imbarazzo nel post voto. Della serie: se sbagliamo tutti, non sbaglia nessuno.È chiaro che, se ci trovassimo davanti a un caso di herding, le elezioni potrebbero non concludersi con un testa a testa. Potrebbero, invece, portare a qualche sorpresa eclatante. In caso, la domanda da farsi sarebbe: quale dei due candidati risulterebbe attualmente sottostimato? Qualcuno sta ipotizzando che potrebbe essere proprio la Harris. In particolare, secondo Politico, i sondaggi potrebbero riscontrare delle difficoltà nell’intercettare quegli elettori di Nikki Haley che avrebbero intenzione di sostenere la vicepresidente. Tuttavia, a livello storico, è Trump a essere sottostimato a causa di elettori restii a parlare con i sondaggisti. Basta guardare al Wisconsin. Nel 2016, i sondaggi davano Hillary Clinton avanti di quasi sette punti in loco: eppure, alla fine il tycoon espugnò lo Stato con un vantaggio dello 0,7%. Quattro anni dopo, pur perdendo in Wisconsin contro Joe Biden, Trump prese circa sei punti in più rispetto a quanto i sondaggi gli avevano attribuito. Evidentemente soltanto nel post voto potremo sapere se i sondaggi, quest’anno, avranno funzionato o se, al contrario, si saranno rivelati fallimentari. Il punto vero, al momento, è che però non possiamo dare nulla per scontato. Un testa a testa è senz’altro possibile. Ma, forse, non inevitabile. E faremmo quindi bene a prepararci per qualche eventuale (e non del tutto improbabile) sorpresa.Nel frattempo, Trump sta elettoralmente dando battaglia soprattutto nei tre Stati operai della Rust Belt: Michigan, Wisconsin e Pennsylvania. È lì che il tycoon vuole togliere alla Harris il terreno sotto i piedi. La vicepresidente, dal canto suo, sferra i suoi attacchi elettorali negli hinterland benestanti delle grandi città di Georgia, Pennsylvania e North Carolina. Quel North Carolina su cui la candidata dem sta da tempo concentrando la propria attenzione: se riuscisse a espugnarlo, per Trump il percorso verso la Casa Bianca si complicherebbe. Attenzione infine a quegli Stati di cui quasi nessuno sta parlando: ci riferiamo, in particolare, a Virginia, Minnesota e New Hampshire. Si tratta di aree in cui il tycoon sta performando meglio del previsto. Resta difficile per lui conquistare anche soltanto uno di questi tre Stati, ma non è neppure del tutto impossibile.Dall’altra parte, Trump deve fare attenzione in Iowa, dove la Harris si sta mostrando più competitiva del previsto.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/harris-trump-ora-della-verita-2669569111.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="teheran-mosca-e-pechino-gia-in-fibrillazione" data-post-id="2669569111" data-published-at="1730670679" data-use-pagination="False"> Teheran, Mosca e Pechino già in fibrillazione Uno degli interrogativi più pressanti che riguardano l’attuale corsa alla Casa Bianca è quello sugli scenari internazionali che si aprirebbero in caso di vittoria di Donald Trump o di Kamala Harris. A ben vedere, la differenza più significativa tra i due riguarda la crisi mediorientale. Se diventasse presidente, la Harris proseguirebbe prevedibilmente sulla strada dell’amministrazione Biden, non rinunciando a tendere cautamente la mano a Teheran. È d’altronde noto che la vicepresidente avrebbe, in caso, intenzione di nominare consigliere per la sicurezza nazionale quel Phil Gordon che fu tra gli artefici del controverso accordo sul nucleare con l’Iran. Dall’altra parte, Trump punterebbe a ripristinare la politica della «massima pressione» sul regime khomeinista, promuovendo al contempo un riavvicinamento tra Israele e i Paesi sunniti gravitanti attorno all’Arabia Saudita. Non a caso, è assai probabile che, in un’eventuale nuova amministrazione Trump, possano entrare Mike Pompeo e Robert O’Brien: entrambi, nel 2020, furono tra i principali artefici degli Accordi di Abramo. Più sfumati appaiono invece gli scenari sulla crisi ucraina. Intervistata il mese scorso dalla Cbs, la Harris non ha escluso di poter favorire un eventuale incontro tra Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky. Una posizione, questa, non poi così distante da quella di Trump. «Incontrerebbe il presidente Putin per negoziare una soluzione alla guerra in Ucraina?», aveva chiesto il giornalista Bill Whitaker alla candidata dem, che aveva replicato: «Non bilateralmente senza l’Ucraina, no. L’Ucraina deve avere voce in capitolo sul futuro dell’Ucraina». Dal canto suo, il candidato repubblicano ha, in passato, detto di voler far finire la guerra in 24 ore, senza specificare i dettagli del suo proposito. C’è chi ritiene che, in caso di vittoria, Trump darebbe avvio a un appeasement nei confronti di Mosca. In realtà, non è troppo probabile che ciò avvenga. Innanzitutto, nonostante sia spesso presentato come filorusso, il tycoon fu tutt’altro che tenero con il Cremlino da presidente: mise le sanzioni al gasdotto Nord Stream 2, fornì a Kiev i missili Javelin, chiuse il consolato russo di Seattle e uscì dall’accordo sul nucleare iraniano, irritando notevolmente Mosca. In secondo luogo, Trump sa che, se tornasse alla Casa Bianca, avrà urgente necessità di ripristinare la deterrenza verso Russia, Cina e Iran. Alla luce di ciò, un eventuale appeasement nei confronti di Putin rischierebbe di pagarlo a caro prezzo in altre aree, a partire dall’Indo-Pacifico. Tra l’altro, un appeasement verso la Russia Trump non può permetterselo neanche sul fronte energetico, visto l’export di gas statunitense in direzione dell’Europa. E veniamo infine alla Cina. La Harris probabilmente cercherebbe di proseguire nella cooperazione sul cambiamento climatico: una strada che verosimilmente Trump abbandonerebbe. Inoltre, il candidato repubblicano tornerebbe prevedibilmente al tentativo di «disaccoppiare» l’economia americana da quella cinese: una linea, questa, rispetto a cui l’attuale amministrazione americana si è mostrata finora assai scettica.
Il tocco è il copricapo che viene indossato insieme alla toga (Imagoeconomica)
La nuova legge sulla violenza sessuale poggia su presupposti inquietanti: anziché dimostrare gli abusi, sarà l’imputato in aula a dover certificare di aver ricevuto il consenso al rapporto. Muove tutto da un pregiudizio grave: ogni uomo è un molestatore.
Una legge non è mai tanto cattiva da non poter essere peggiorata in via interpretativa. Questo sembra essere il destino al quale, stando a taluni, autorevoli commenti comparsi sulla stampa, appare destinata la legge attualmente in discussione alla Camera dei deputati, recante quella che dovrebbe diventare la nuova formulazione del reato di violenza sessuale, previsto dall’articolo 609 bis del codice penale. Come già illustrato nel precedente articolo comparso sulla Verità del 18 novembre scorso, essa si differenzia dalla precedente formulazione essenzialmente per il fatto che viene ad essere definita e punita come violenza sessuale non più soltanto quella di chi, a fini sessuali, adoperi violenza, minaccia, inganno, o abusi della sua autorità o delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa (come stabilito dall’articolo 609 bis nel testo attualmente vigente), ma anche, ed in primo luogo, quella che consista soltanto nel compimento di atti sessuali «senza il consenso libero e attuale» del partner.
Tampone Covid (iStock)
Stefano Merler in commissione confessa di aver ricevuto dati sul Covid a dicembre del 2019: forse, ammette, serrando prima la Bergamasca avremmo evitato il lockdown nazionale. E incalzato da Claudio Borghi sulle previsioni errate dice: «Le mie erano stime, colpa della stampa».
Zero tituli. Forse proprio zero no, visto il «curriculum ragguardevole» evocato (per carità di patria) dall’onorevole Alberto Bagnai della Lega; ma uno dei piccoli-grandi dettagli usciti dall’audizione di Stefano Merler della Fondazione Bruno Kessler in commissione Covid è che questo custode dei big data, colui che in pandemia ha fornito ai governi di Giuseppe Conte e Mario Draghi le cosiddette «pezze d’appoggio» per poter chiudere il Paese e imporre le misure più draconiane di tutto l’emisfero occidentale, non era un clinico né un epidemiologo, né un accademico di ruolo.
La Marina colombiana ha cominciato il recupero del contenuto della stiva del galeone spagnolo «San José», affondato dagli inglesi nel 1708. Il tesoro sul fondo del mare è stimato in svariati miliardi di dollari, che il governo di Bogotà rivendica. Il video delle operazioni subacquee e la storia della nave.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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Manifestazione ex Ilva (Ansa)
Ok del cdm al decreto che autorizza la società siderurgica a usare i fondi del prestito: 108 milioni per la continuità degli impianti. Altri 20 a sostegno dei 1.550 che evitano la Cig. Lavoratori in protesta: blocchi e occupazioni. Il 28 novembre Adolfo Urso vede i sindacati.
Proteste, manifestazioni, occupazioni di fabbriche, blocchi stradali, annunci di scioperi. La questione ex Ilva surriscalda il primo freddo invernale. Da Genova a Taranto i sindacati dei metalmeccanici hanno organizzato sit-in per chiedere che il governo faccia qualcosa per evitare la chiusura della società. E il Consiglio dei ministri ha dato il via libera al nuovo decreto sull’acciaieria più martoriata d’Italia, che autorizza l’utilizzo dei 108 milioni di euro residui dall’ultimo prestito ponte e stanzia 20 milioni per il 2025 e il 2026.






