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2024-11-04
Harris - Trump. L’ora della verità
Ormai ci siamo. Domani, negli Stati Uniti, si terrà l’Election Day. La sfida tra Donald Trump e Kamala Harris si preannuncia serrata. Ma non sono escluse delle sorprese. Cominciamo col ricordare che, domani, gli americani non si recheranno a votare per il prossimo presidente: voteranno invece per i grandi elettori che, a loro volta, eleggeranno il nuovo inquilino della Casa Bianca. L’elezione del presidente degli Stati Uniti è infatti indiretta e avviene in seno al cosiddetto Electoral College, che comprende un totale di 538 grandi elettori. Il quorum necessario per arrivare alla Casa Bianca è di 270. Ma come funziona tecnicamente l’elezione?
Ogni Stato mette in palio una quota di grandi elettori sulla base della propria quantità di popolazione. Per esempio, la California, che è lo Stato più popoloso, ne offre 54, mentre il Wyoming, che è quello più spopolato, ne ha appena tre. In 48 Stati su 50, chi vince il voto popolare conquista automaticamente tutti i grandi elettori presenti in un determinato Stato. Fanno eccezione Nebraska e Maine, che li assegnano invece su base proporzionale. Ne consegue che, per arrivare alla Casa Bianca, non è strettamente necessario avere la maggioranza del voto popolare a livello nazionale: l’importante è avere la maggioranza del voto popolare negli Stati che permettono di arrivare a ottenere un minimo di 270 grandi elettori. Del resto, Trump, nel 2016, e George W. Bush, nel 2000, vinsero la presidenza senza conquistare il voto popolare a livello nazionale. Questo poi non vuol dire che i due elementi, voto nazionale ed Electoral College, siano completamente scissi. A settembre, il sondaggista Nate Silver ha pubblicato delle statistiche, secondo cui la Harris supererebbe il 50% di probabilità di ottenere 270 grandi elettori solo a fronte di un vantaggio nel voto nazionale di (almeno) due punti.
Ma che cosa dicono i sondaggi? Al 2 novembre, la media di Real Clear Politics dava Trump avanti nel voto nazionale dello 0,3%. Venendo agli Stati chiave, il tycoon era in testa in Arizona (del 2,3%), in Nevada (dell’1,5%), in Georgia (del 2,6%) e in Pennsylvania (dello 0,4%). Dall’altra parte, secondo la stessa media, la Harris era avanti in Michigan (dello 0,8%) e in Wisconsin (dello 0,3%). Come è facile comprendere, i sondaggi certificano una situazione di testa a testa. Non a caso, l’altro ieri il modello predittivo di Decision Desk dava a Trump il 54% delle chance di vittoria: il tycoon è quindi leggermente favorito, anche se il quadro complessivo resta fondamentalmente in bilico.
È chiaro che, se i sondaggi sono corretti, si configura un testa a testa. Il che aprirebbe probabilmente la porta a richieste di riconteggio e a ricorsi legali. Dall’altra parte, c’è chi sospetta però che non ci si debba fidare troppo di questi sondaggi. «Ci sono troppi sondaggi negli Stati indecisi che mostrano la corsa esattamente con Harris +1, testa a testa, Trump +1. Dovrebbe esserci più variazione di così. Tutti stanno facendo herding», ha scritto Nate Silver su X a fine ottobre. Ora, secondo l’American association for public opinion research, l’herding è quel fenomeno che si verifica quando «alcuni sondaggisti politici aggiustano i loro risultati, affinché corrispondano o si avvicinino molto ai risultati di altri sondaggi». In altre parole, non si può escludere che gli istituti sondaggistici si stiano allineando tra loro per evitare di presentare risultati troppo differenti e proteggersi così da eventuali situazioni di imbarazzo nel post voto. Della serie: se sbagliamo tutti, non sbaglia nessuno.
È chiaro che, se ci trovassimo davanti a un caso di herding, le elezioni potrebbero non concludersi con un testa a testa. Potrebbero, invece, portare a qualche sorpresa eclatante. In caso, la domanda da farsi sarebbe: quale dei due candidati risulterebbe attualmente sottostimato? Qualcuno sta ipotizzando che potrebbe essere proprio la Harris. In particolare, secondo Politico, i sondaggi potrebbero riscontrare delle difficoltà nell’intercettare quegli elettori di Nikki Haley che avrebbero intenzione di sostenere la vicepresidente. Tuttavia, a livello storico, è Trump a essere sottostimato a causa di elettori restii a parlare con i sondaggisti. Basta guardare al Wisconsin. Nel 2016, i sondaggi davano Hillary Clinton avanti di quasi sette punti in loco: eppure, alla fine il tycoon espugnò lo Stato con un vantaggio dello 0,7%. Quattro anni dopo, pur perdendo in Wisconsin contro Joe Biden, Trump prese circa sei punti in più rispetto a quanto i sondaggi gli avevano attribuito. Evidentemente soltanto nel post voto potremo sapere se i sondaggi, quest’anno, avranno funzionato o se, al contrario, si saranno rivelati fallimentari. Il punto vero, al momento, è che però non possiamo dare nulla per scontato. Un testa a testa è senz’altro possibile. Ma, forse, non inevitabile. E faremmo quindi bene a prepararci per qualche eventuale (e non del tutto improbabile) sorpresa.
Nel frattempo, Trump sta elettoralmente dando battaglia soprattutto nei tre Stati operai della Rust Belt: Michigan, Wisconsin e Pennsylvania. È lì che il tycoon vuole togliere alla Harris il terreno sotto i piedi. La vicepresidente, dal canto suo, sferra i suoi attacchi elettorali negli hinterland benestanti delle grandi città di Georgia, Pennsylvania e North Carolina. Quel North Carolina su cui la candidata dem sta da tempo concentrando la propria attenzione: se riuscisse a espugnarlo, per Trump il percorso verso la Casa Bianca si complicherebbe. Attenzione infine a quegli Stati di cui quasi nessuno sta parlando: ci riferiamo, in particolare, a Virginia, Minnesota e New Hampshire. Si tratta di aree in cui il tycoon sta performando meglio del previsto. Resta difficile per lui conquistare anche soltanto uno di questi tre Stati, ma non è neppure del tutto impossibile.
Dall’altra parte, Trump deve fare attenzione in Iowa, dove la Harris si sta mostrando più competitiva del previsto.
Teheran, Mosca e Pechino già in fibrillazione
Uno degli interrogativi più pressanti che riguardano l’attuale corsa alla Casa Bianca è quello sugli scenari internazionali che si aprirebbero in caso di vittoria di Donald Trump o di Kamala Harris.
A ben vedere, la differenza più significativa tra i due riguarda la crisi mediorientale. Se diventasse presidente, la Harris proseguirebbe prevedibilmente sulla strada dell’amministrazione Biden, non rinunciando a tendere cautamente la mano a Teheran. È d’altronde noto che la vicepresidente avrebbe, in caso, intenzione di nominare consigliere per la sicurezza nazionale quel Phil Gordon che fu tra gli artefici del controverso accordo sul nucleare con l’Iran. Dall’altra parte, Trump punterebbe a ripristinare la politica della «massima pressione» sul regime khomeinista, promuovendo al contempo un riavvicinamento tra Israele e i Paesi sunniti gravitanti attorno all’Arabia Saudita. Non a caso, è assai probabile che, in un’eventuale nuova amministrazione Trump, possano entrare Mike Pompeo e Robert O’Brien: entrambi, nel 2020, furono tra i principali artefici degli Accordi di Abramo.
Più sfumati appaiono invece gli scenari sulla crisi ucraina. Intervistata il mese scorso dalla Cbs, la Harris non ha escluso di poter favorire un eventuale incontro tra Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky. Una posizione, questa, non poi così distante da quella di Trump. «Incontrerebbe il presidente Putin per negoziare una soluzione alla guerra in Ucraina?», aveva chiesto il giornalista Bill Whitaker alla candidata dem, che aveva replicato: «Non bilateralmente senza l’Ucraina, no. L’Ucraina deve avere voce in capitolo sul futuro dell’Ucraina». Dal canto suo, il candidato repubblicano ha, in passato, detto di voler far finire la guerra in 24 ore, senza specificare i dettagli del suo proposito.
C’è chi ritiene che, in caso di vittoria, Trump darebbe avvio a un appeasement nei confronti di Mosca. In realtà, non è troppo probabile che ciò avvenga. Innanzitutto, nonostante sia spesso presentato come filorusso, il tycoon fu tutt’altro che tenero con il Cremlino da presidente: mise le sanzioni al gasdotto Nord Stream 2, fornì a Kiev i missili Javelin, chiuse il consolato russo di Seattle e uscì dall’accordo sul nucleare iraniano, irritando notevolmente Mosca. In secondo luogo, Trump sa che, se tornasse alla Casa Bianca, avrà urgente necessità di ripristinare la deterrenza verso Russia, Cina e Iran. Alla luce di ciò, un eventuale appeasement nei confronti di Putin rischierebbe di pagarlo a caro prezzo in altre aree, a partire dall’Indo-Pacifico. Tra l’altro, un appeasement verso la Russia Trump non può permetterselo neanche sul fronte energetico, visto l’export di gas statunitense in direzione dell’Europa.
E veniamo infine alla Cina. La Harris probabilmente cercherebbe di proseguire nella cooperazione sul cambiamento climatico: una strada che verosimilmente Trump abbandonerebbe. Inoltre, il candidato repubblicano tornerebbe prevedibilmente al tentativo di «disaccoppiare» l’economia americana da quella cinese: una linea, questa, rispetto a cui l’attuale amministrazione americana si è mostrata finora assai scettica.
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I pronostici della vigilia vedono il candidato repubblicano in lievissimo vantaggio. In caso di testa a testa si aprirebbe la porta a ricorsi legali e richieste di riconteggio.Iran, Russia e Cina già in fibrillazione. Kamala guarda agli ayatollah, il tycoon a un’intesa Israele-sunniti. Incertezze sul futuro dell’Ucraina.Lo speciale contiene due articoli.Ormai ci siamo. Domani, negli Stati Uniti, si terrà l’Election Day. La sfida tra Donald Trump e Kamala Harris si preannuncia serrata. Ma non sono escluse delle sorprese. Cominciamo col ricordare che, domani, gli americani non si recheranno a votare per il prossimo presidente: voteranno invece per i grandi elettori che, a loro volta, eleggeranno il nuovo inquilino della Casa Bianca. L’elezione del presidente degli Stati Uniti è infatti indiretta e avviene in seno al cosiddetto Electoral College, che comprende un totale di 538 grandi elettori. Il quorum necessario per arrivare alla Casa Bianca è di 270. Ma come funziona tecnicamente l’elezione?Ogni Stato mette in palio una quota di grandi elettori sulla base della propria quantità di popolazione. Per esempio, la California, che è lo Stato più popoloso, ne offre 54, mentre il Wyoming, che è quello più spopolato, ne ha appena tre. In 48 Stati su 50, chi vince il voto popolare conquista automaticamente tutti i grandi elettori presenti in un determinato Stato. Fanno eccezione Nebraska e Maine, che li assegnano invece su base proporzionale. Ne consegue che, per arrivare alla Casa Bianca, non è strettamente necessario avere la maggioranza del voto popolare a livello nazionale: l’importante è avere la maggioranza del voto popolare negli Stati che permettono di arrivare a ottenere un minimo di 270 grandi elettori. Del resto, Trump, nel 2016, e George W. Bush, nel 2000, vinsero la presidenza senza conquistare il voto popolare a livello nazionale. Questo poi non vuol dire che i due elementi, voto nazionale ed Electoral College, siano completamente scissi. A settembre, il sondaggista Nate Silver ha pubblicato delle statistiche, secondo cui la Harris supererebbe il 50% di probabilità di ottenere 270 grandi elettori solo a fronte di un vantaggio nel voto nazionale di (almeno) due punti. Ma che cosa dicono i sondaggi? Al 2 novembre, la media di Real Clear Politics dava Trump avanti nel voto nazionale dello 0,3%. Venendo agli Stati chiave, il tycoon era in testa in Arizona (del 2,3%), in Nevada (dell’1,5%), in Georgia (del 2,6%) e in Pennsylvania (dello 0,4%). Dall’altra parte, secondo la stessa media, la Harris era avanti in Michigan (dello 0,8%) e in Wisconsin (dello 0,3%). Come è facile comprendere, i sondaggi certificano una situazione di testa a testa. Non a caso, l’altro ieri il modello predittivo di Decision Desk dava a Trump il 54% delle chance di vittoria: il tycoon è quindi leggermente favorito, anche se il quadro complessivo resta fondamentalmente in bilico.È chiaro che, se i sondaggi sono corretti, si configura un testa a testa. Il che aprirebbe probabilmente la porta a richieste di riconteggio e a ricorsi legali. Dall’altra parte, c’è chi sospetta però che non ci si debba fidare troppo di questi sondaggi. «Ci sono troppi sondaggi negli Stati indecisi che mostrano la corsa esattamente con Harris +1, testa a testa, Trump +1. Dovrebbe esserci più variazione di così. Tutti stanno facendo herding», ha scritto Nate Silver su X a fine ottobre. Ora, secondo l’American association for public opinion research, l’herding è quel fenomeno che si verifica quando «alcuni sondaggisti politici aggiustano i loro risultati, affinché corrispondano o si avvicinino molto ai risultati di altri sondaggi». In altre parole, non si può escludere che gli istituti sondaggistici si stiano allineando tra loro per evitare di presentare risultati troppo differenti e proteggersi così da eventuali situazioni di imbarazzo nel post voto. Della serie: se sbagliamo tutti, non sbaglia nessuno.È chiaro che, se ci trovassimo davanti a un caso di herding, le elezioni potrebbero non concludersi con un testa a testa. Potrebbero, invece, portare a qualche sorpresa eclatante. In caso, la domanda da farsi sarebbe: quale dei due candidati risulterebbe attualmente sottostimato? Qualcuno sta ipotizzando che potrebbe essere proprio la Harris. In particolare, secondo Politico, i sondaggi potrebbero riscontrare delle difficoltà nell’intercettare quegli elettori di Nikki Haley che avrebbero intenzione di sostenere la vicepresidente. Tuttavia, a livello storico, è Trump a essere sottostimato a causa di elettori restii a parlare con i sondaggisti. Basta guardare al Wisconsin. Nel 2016, i sondaggi davano Hillary Clinton avanti di quasi sette punti in loco: eppure, alla fine il tycoon espugnò lo Stato con un vantaggio dello 0,7%. Quattro anni dopo, pur perdendo in Wisconsin contro Joe Biden, Trump prese circa sei punti in più rispetto a quanto i sondaggi gli avevano attribuito. Evidentemente soltanto nel post voto potremo sapere se i sondaggi, quest’anno, avranno funzionato o se, al contrario, si saranno rivelati fallimentari. Il punto vero, al momento, è che però non possiamo dare nulla per scontato. Un testa a testa è senz’altro possibile. Ma, forse, non inevitabile. E faremmo quindi bene a prepararci per qualche eventuale (e non del tutto improbabile) sorpresa.Nel frattempo, Trump sta elettoralmente dando battaglia soprattutto nei tre Stati operai della Rust Belt: Michigan, Wisconsin e Pennsylvania. È lì che il tycoon vuole togliere alla Harris il terreno sotto i piedi. La vicepresidente, dal canto suo, sferra i suoi attacchi elettorali negli hinterland benestanti delle grandi città di Georgia, Pennsylvania e North Carolina. Quel North Carolina su cui la candidata dem sta da tempo concentrando la propria attenzione: se riuscisse a espugnarlo, per Trump il percorso verso la Casa Bianca si complicherebbe. Attenzione infine a quegli Stati di cui quasi nessuno sta parlando: ci riferiamo, in particolare, a Virginia, Minnesota e New Hampshire. Si tratta di aree in cui il tycoon sta performando meglio del previsto. Resta difficile per lui conquistare anche soltanto uno di questi tre Stati, ma non è neppure del tutto impossibile.Dall’altra parte, Trump deve fare attenzione in Iowa, dove la Harris si sta mostrando più competitiva del previsto.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/harris-trump-ora-della-verita-2669569111.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="teheran-mosca-e-pechino-gia-in-fibrillazione" data-post-id="2669569111" data-published-at="1730670679" data-use-pagination="False"> Teheran, Mosca e Pechino già in fibrillazione Uno degli interrogativi più pressanti che riguardano l’attuale corsa alla Casa Bianca è quello sugli scenari internazionali che si aprirebbero in caso di vittoria di Donald Trump o di Kamala Harris. A ben vedere, la differenza più significativa tra i due riguarda la crisi mediorientale. Se diventasse presidente, la Harris proseguirebbe prevedibilmente sulla strada dell’amministrazione Biden, non rinunciando a tendere cautamente la mano a Teheran. È d’altronde noto che la vicepresidente avrebbe, in caso, intenzione di nominare consigliere per la sicurezza nazionale quel Phil Gordon che fu tra gli artefici del controverso accordo sul nucleare con l’Iran. Dall’altra parte, Trump punterebbe a ripristinare la politica della «massima pressione» sul regime khomeinista, promuovendo al contempo un riavvicinamento tra Israele e i Paesi sunniti gravitanti attorno all’Arabia Saudita. Non a caso, è assai probabile che, in un’eventuale nuova amministrazione Trump, possano entrare Mike Pompeo e Robert O’Brien: entrambi, nel 2020, furono tra i principali artefici degli Accordi di Abramo. Più sfumati appaiono invece gli scenari sulla crisi ucraina. Intervistata il mese scorso dalla Cbs, la Harris non ha escluso di poter favorire un eventuale incontro tra Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky. Una posizione, questa, non poi così distante da quella di Trump. «Incontrerebbe il presidente Putin per negoziare una soluzione alla guerra in Ucraina?», aveva chiesto il giornalista Bill Whitaker alla candidata dem, che aveva replicato: «Non bilateralmente senza l’Ucraina, no. L’Ucraina deve avere voce in capitolo sul futuro dell’Ucraina». Dal canto suo, il candidato repubblicano ha, in passato, detto di voler far finire la guerra in 24 ore, senza specificare i dettagli del suo proposito. C’è chi ritiene che, in caso di vittoria, Trump darebbe avvio a un appeasement nei confronti di Mosca. In realtà, non è troppo probabile che ciò avvenga. Innanzitutto, nonostante sia spesso presentato come filorusso, il tycoon fu tutt’altro che tenero con il Cremlino da presidente: mise le sanzioni al gasdotto Nord Stream 2, fornì a Kiev i missili Javelin, chiuse il consolato russo di Seattle e uscì dall’accordo sul nucleare iraniano, irritando notevolmente Mosca. In secondo luogo, Trump sa che, se tornasse alla Casa Bianca, avrà urgente necessità di ripristinare la deterrenza verso Russia, Cina e Iran. Alla luce di ciò, un eventuale appeasement nei confronti di Putin rischierebbe di pagarlo a caro prezzo in altre aree, a partire dall’Indo-Pacifico. Tra l’altro, un appeasement verso la Russia Trump non può permetterselo neanche sul fronte energetico, visto l’export di gas statunitense in direzione dell’Europa. E veniamo infine alla Cina. La Harris probabilmente cercherebbe di proseguire nella cooperazione sul cambiamento climatico: una strada che verosimilmente Trump abbandonerebbe. Inoltre, il candidato repubblicano tornerebbe prevedibilmente al tentativo di «disaccoppiare» l’economia americana da quella cinese: una linea, questa, rispetto a cui l’attuale amministrazione americana si è mostrata finora assai scettica.
Il governatore della banca centrale indiana Sanjay Malhotra (Getty Images)
La decisione arriva dopo i dati ufficiali diffusi la scorsa settimana, che certificano un’espansione dell’8,2% nel trimestre chiuso a settembre. Numeri che mostrano come l’economia indiana abbia finora assorbito senza scosse l’impatto dei dazi al 50% imposti dagli Stati Uniti sulle esportazioni di Nuova Delhi.
Un sostegno decisivo è arrivato dal crollo dell’inflazione: dal sopra il 6% registrato nel 2024 a livelli prossimi allo zero. Un calo che, secondo gli analisti, offre ulteriore margine per nuovi tagli nei prossimi mesi. «Nonostante un contesto esterno sfavorevole, l’economia indiana ha mostrato una resilienza notevole», ha dichiarato Malhotra, pur avvertendo che la crescita potrebbe «attenuarsi leggermente». Ma la combinazione di espansione superiore alle attese e inflazione «benigna» nel primo semestre fiscale rappresenta, ha aggiunto, «un raro periodo Goldilocks».
Sulla scia dell’ottimismo, l’RBI ha rivisto al rialzo la stima di crescita per l’anno fiscale che si chiuderà a marzo: +7,3%, mezzo punto in più rispetto alle previsioni precedenti.
La reazione dei mercati è stata immediata: la Borsa di Mumbai ha chiuso in rialzo (Sensex +0,2%, Nifty 50 +0,3%), mentre la rupia si è indebolita dello 0,4% superando quota 90 sul dollaro, molto vicino ai minimi storici toccati due giorni prima. La valuta indiana è la peggiore d’Asia dall’inizio dell’anno. Malhotra ha ribadito che la banca centrale non persegue un tasso di cambio specifico: «Il nostro obiettivo è solo ridurre volatilità anomala o eccessiva».
Il Paese, fortemente trainato dalla domanda interna, risente meno di altri dell’offensiva tariffaria voluta da Donald Trump, che ad agosto ha raddoppiato i dazi sui prodotti indiani come ritorsione per gli acquisti di petrolio russo scontato. Una rupia debole, inoltre, aiuta alcuni esportatori a restare competitivi. Tuttavia, gli analisti prevedono che gli effetti più pesanti della guerra commerciale si vedranno nell’attuale trimestre e invitano a prudenza anche sulla recente lettura del Pil.
Tra gli obiettivi politici di lungo periodo rimane quello fissato dal premier Narendra Modi: diventare un Paese «sviluppato» entro il 2047, centenario dell’indipendenza. Per riuscirci, servirebbe una crescita media dell’8% l’anno. Il governo ha avviato negli ultimi mesi una serie di riforme strutturali - dalla semplificazione dell’imposta su beni e servizi alla revisione del codice del lavoro - per proteggere l’economia dagli shock esterni.
Malhotra aveva assunto la guida dell’RBI in una fase di rallentamento economico e inflazione oltre il tetto del 6%. Da allora ha accelerato sul fronte monetario: tre tagli consecutivi nei primi mesi del 2025 per un punto percentuale complessivo. L’inflazione retail di ottobre si è fermata allo 0,25% annuo.
Il governatore ha annunciato anche un intervento di liquidità: operazioni di mercato aperto per 1.000 miliardi di rupie e swap dollaro-rupia per 5 miliardi di dollari, per sostenere il sistema finanziario.
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Palazzo Berlaymont a Bruxelles, sede della Commissione europea (Getty Images)
Una di queste si chiama S-info, che sta per Sustainable information. Come si legge sul sito ufficiale, «si tratta di un progetto finanziato dall’Ue, incentrato sui media e ispirato dall’esigenza di rafforzare la democrazia. Ha una durata di due anni, da dicembre 2023 a novembre 2025. Coinvolge organizzazioni di quattro Paesi dell’Unione europea: Italia, Belgio, Romania e Malta. Il progetto esplorerà i modi in cui gli attivisti della società civile e i giornalisti indipendenti possono collaborare per svolgere giornalismo investigativo, combattere la disinformazione, combattere la corruzione, promuovere i diritti sociali e difendere l’ambiente. L’obiettivo finale è quello di creare un modello operativo di attivismo mediatico sostenibile che possa essere trasferito ad altri Paesi e contesti».
La tiritera è la solita: lotta alla disinformazione, promozione dei diritti... S-info è finanziato da Eacea, ovvero l’agenzia esecutiva della Commissione europea che gestisce il programma Europa creativa, il quale a sua volta finanzia il progetto giornalistico in questione con la bellezza di 492.989 euro. E che cosa fa con questi soldi il progetto europeo? Beh, tra le altre cose finanzia inchieste che sono presentate come giornalismo investigativo. Una di queste è stata realizzata da Alice Dominese, la cui biografia online descrive come «laureata in Scienze politiche e relazioni internazionali tra Italia e Francia, con un master in giornalismo. Collabora con L’Espresso e Domani, e ha scritto per La Stampa, Il Manifesto e The Post Internazionale, tra gli altri. Si occupa principalmente di diritti, migrazione e tematiche di genere».
La sua indagine, facilmente rintracciabile online, è intitolata Sottotraccia ed è dedicata ai temibili movimenti pro vita. «Questo articolo», si legge nella presentazione, «è il frutto di una delle due inchieste finanziate in Italia dal grant del progetto europeo S-info, cofinanziato dalla Commissione europea. La pubblicazione originale si trova sul sito ufficiale del progetto. In questa inchiesta, interviste e analisi di documenti ottenuti tramite una richiesta di accesso agli atti esplorano il rapporto tra movimento antiabortista, sanità e servizi pubblici in Piemonte. Le informazioni raccolte fanno luce sull’uso che le associazioni pro vita fanno dei finanziamenti regionali e sul ruolo della Stanza dell’ascolto, il presidio che ha permesso a queste associazioni di inserirsi nel primo ospedale per numero di interruzioni volontarie di gravidanza in Italia».
Niente in contrario ai finanziamenti pubblici, per carità. Ma guarda caso questi soldi finiscono a giornalisti decisamente sinistrorsi che, pronti via, se la prendono con i movimenti per la vita. Non stupisce, dopo tutto i partner italiani del progetto S-info sono Globalproject.info, Melting pot Europa e Sherwood.it, tutti punti di riferimento mediatici della sinistra antagonista.
Proprio Radio Sherwood, lo scorso giugno, ha organizzato a Padova il S-info day, durante il quale è stato presentato il manifesto per il giornalismo sostenibile. Evento clou della giornata un dibattito intitolato «Sovvertire le narrazioni di genere». Partecipanti: «L’attivista transfemminista Elena Cecchettin e la giornalista Giulia Siviero, moderato da Anna Irma Battino di Global project». La discussione si è concentrata «su come le narrazioni di genere, troppo spesso costruite attorno a stereotipi o plasmate da dinamiche di potere, possano essere decostruite e trasformate attraverso un giornalismo più consapevole, posizionato e inclusivo». Tutto meraviglioso: la Commissione europea combatte la disinformazione finanziando incontri sulla decostruzione del genere e inchieste contro i pro vita. Alla faccia della libera informazione.
«Da Bruxelles», ha dichiarato Maurizio Marrone, assessore piemontese alle Politiche sociali, «arriva una palese ingerenza estera per screditare azioni deliberate dal governo regionale eletto dai piemontesi, peraltro con allarmismi propagandistici smentiti dalla realtà. Il nostro fondo Vita nascente finanzia sì anzitutto i progetti dei centri di aiuto alla vita a sostegno delle madri in difficoltà, ma eroga contributi anche ai servizi di assistenza pubblica per le medesime finalità, partendo dall’accompagnamento nei parti in anonimato. Ci troviamo di fronte a un grave precedente, irrispettoso delle autonomie locali italiane e della loro sovranità».
Carlo Fidanza, capodelegazione europeo di Fdi, annuncia invece che presenterà «un’interrogazione parlamentare alla Commissione europea per far luce sui finanziamenti dell’agenzia Eacea a questi attacchi mediatici creati a tavolino per alimentare odio ideologico contro il volontariato pro vita. L’Unione europea dovrebbe sostenere le politiche delle Regioni italiane, non alimentare con soldi pubblici la macchina del fango contro le loro iniziative non omologate al pensiero unico woke».
Insomma, a Bruxelles piace il giornalismo libero. A patto che sia pagato dai contribuenti per prendersela con i nemici ideologici.
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