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2024-11-04
Harris - Trump. L’ora della verità
Ormai ci siamo. Domani, negli Stati Uniti, si terrà l’Election Day. La sfida tra Donald Trump e Kamala Harris si preannuncia serrata. Ma non sono escluse delle sorprese. Cominciamo col ricordare che, domani, gli americani non si recheranno a votare per il prossimo presidente: voteranno invece per i grandi elettori che, a loro volta, eleggeranno il nuovo inquilino della Casa Bianca. L’elezione del presidente degli Stati Uniti è infatti indiretta e avviene in seno al cosiddetto Electoral College, che comprende un totale di 538 grandi elettori. Il quorum necessario per arrivare alla Casa Bianca è di 270. Ma come funziona tecnicamente l’elezione?
Ogni Stato mette in palio una quota di grandi elettori sulla base della propria quantità di popolazione. Per esempio, la California, che è lo Stato più popoloso, ne offre 54, mentre il Wyoming, che è quello più spopolato, ne ha appena tre. In 48 Stati su 50, chi vince il voto popolare conquista automaticamente tutti i grandi elettori presenti in un determinato Stato. Fanno eccezione Nebraska e Maine, che li assegnano invece su base proporzionale. Ne consegue che, per arrivare alla Casa Bianca, non è strettamente necessario avere la maggioranza del voto popolare a livello nazionale: l’importante è avere la maggioranza del voto popolare negli Stati che permettono di arrivare a ottenere un minimo di 270 grandi elettori. Del resto, Trump, nel 2016, e George W. Bush, nel 2000, vinsero la presidenza senza conquistare il voto popolare a livello nazionale. Questo poi non vuol dire che i due elementi, voto nazionale ed Electoral College, siano completamente scissi. A settembre, il sondaggista Nate Silver ha pubblicato delle statistiche, secondo cui la Harris supererebbe il 50% di probabilità di ottenere 270 grandi elettori solo a fronte di un vantaggio nel voto nazionale di (almeno) due punti.
Ma che cosa dicono i sondaggi? Al 2 novembre, la media di Real Clear Politics dava Trump avanti nel voto nazionale dello 0,3%. Venendo agli Stati chiave, il tycoon era in testa in Arizona (del 2,3%), in Nevada (dell’1,5%), in Georgia (del 2,6%) e in Pennsylvania (dello 0,4%). Dall’altra parte, secondo la stessa media, la Harris era avanti in Michigan (dello 0,8%) e in Wisconsin (dello 0,3%). Come è facile comprendere, i sondaggi certificano una situazione di testa a testa. Non a caso, l’altro ieri il modello predittivo di Decision Desk dava a Trump il 54% delle chance di vittoria: il tycoon è quindi leggermente favorito, anche se il quadro complessivo resta fondamentalmente in bilico.
È chiaro che, se i sondaggi sono corretti, si configura un testa a testa. Il che aprirebbe probabilmente la porta a richieste di riconteggio e a ricorsi legali. Dall’altra parte, c’è chi sospetta però che non ci si debba fidare troppo di questi sondaggi. «Ci sono troppi sondaggi negli Stati indecisi che mostrano la corsa esattamente con Harris +1, testa a testa, Trump +1. Dovrebbe esserci più variazione di così. Tutti stanno facendo herding», ha scritto Nate Silver su X a fine ottobre. Ora, secondo l’American association for public opinion research, l’herding è quel fenomeno che si verifica quando «alcuni sondaggisti politici aggiustano i loro risultati, affinché corrispondano o si avvicinino molto ai risultati di altri sondaggi». In altre parole, non si può escludere che gli istituti sondaggistici si stiano allineando tra loro per evitare di presentare risultati troppo differenti e proteggersi così da eventuali situazioni di imbarazzo nel post voto. Della serie: se sbagliamo tutti, non sbaglia nessuno.
È chiaro che, se ci trovassimo davanti a un caso di herding, le elezioni potrebbero non concludersi con un testa a testa. Potrebbero, invece, portare a qualche sorpresa eclatante. In caso, la domanda da farsi sarebbe: quale dei due candidati risulterebbe attualmente sottostimato? Qualcuno sta ipotizzando che potrebbe essere proprio la Harris. In particolare, secondo Politico, i sondaggi potrebbero riscontrare delle difficoltà nell’intercettare quegli elettori di Nikki Haley che avrebbero intenzione di sostenere la vicepresidente. Tuttavia, a livello storico, è Trump a essere sottostimato a causa di elettori restii a parlare con i sondaggisti. Basta guardare al Wisconsin. Nel 2016, i sondaggi davano Hillary Clinton avanti di quasi sette punti in loco: eppure, alla fine il tycoon espugnò lo Stato con un vantaggio dello 0,7%. Quattro anni dopo, pur perdendo in Wisconsin contro Joe Biden, Trump prese circa sei punti in più rispetto a quanto i sondaggi gli avevano attribuito. Evidentemente soltanto nel post voto potremo sapere se i sondaggi, quest’anno, avranno funzionato o se, al contrario, si saranno rivelati fallimentari. Il punto vero, al momento, è che però non possiamo dare nulla per scontato. Un testa a testa è senz’altro possibile. Ma, forse, non inevitabile. E faremmo quindi bene a prepararci per qualche eventuale (e non del tutto improbabile) sorpresa.
Nel frattempo, Trump sta elettoralmente dando battaglia soprattutto nei tre Stati operai della Rust Belt: Michigan, Wisconsin e Pennsylvania. È lì che il tycoon vuole togliere alla Harris il terreno sotto i piedi. La vicepresidente, dal canto suo, sferra i suoi attacchi elettorali negli hinterland benestanti delle grandi città di Georgia, Pennsylvania e North Carolina. Quel North Carolina su cui la candidata dem sta da tempo concentrando la propria attenzione: se riuscisse a espugnarlo, per Trump il percorso verso la Casa Bianca si complicherebbe. Attenzione infine a quegli Stati di cui quasi nessuno sta parlando: ci riferiamo, in particolare, a Virginia, Minnesota e New Hampshire. Si tratta di aree in cui il tycoon sta performando meglio del previsto. Resta difficile per lui conquistare anche soltanto uno di questi tre Stati, ma non è neppure del tutto impossibile.
Dall’altra parte, Trump deve fare attenzione in Iowa, dove la Harris si sta mostrando più competitiva del previsto.
Teheran, Mosca e Pechino già in fibrillazione
Uno degli interrogativi più pressanti che riguardano l’attuale corsa alla Casa Bianca è quello sugli scenari internazionali che si aprirebbero in caso di vittoria di Donald Trump o di Kamala Harris.
A ben vedere, la differenza più significativa tra i due riguarda la crisi mediorientale. Se diventasse presidente, la Harris proseguirebbe prevedibilmente sulla strada dell’amministrazione Biden, non rinunciando a tendere cautamente la mano a Teheran. È d’altronde noto che la vicepresidente avrebbe, in caso, intenzione di nominare consigliere per la sicurezza nazionale quel Phil Gordon che fu tra gli artefici del controverso accordo sul nucleare con l’Iran. Dall’altra parte, Trump punterebbe a ripristinare la politica della «massima pressione» sul regime khomeinista, promuovendo al contempo un riavvicinamento tra Israele e i Paesi sunniti gravitanti attorno all’Arabia Saudita. Non a caso, è assai probabile che, in un’eventuale nuova amministrazione Trump, possano entrare Mike Pompeo e Robert O’Brien: entrambi, nel 2020, furono tra i principali artefici degli Accordi di Abramo.
Più sfumati appaiono invece gli scenari sulla crisi ucraina. Intervistata il mese scorso dalla Cbs, la Harris non ha escluso di poter favorire un eventuale incontro tra Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky. Una posizione, questa, non poi così distante da quella di Trump. «Incontrerebbe il presidente Putin per negoziare una soluzione alla guerra in Ucraina?», aveva chiesto il giornalista Bill Whitaker alla candidata dem, che aveva replicato: «Non bilateralmente senza l’Ucraina, no. L’Ucraina deve avere voce in capitolo sul futuro dell’Ucraina». Dal canto suo, il candidato repubblicano ha, in passato, detto di voler far finire la guerra in 24 ore, senza specificare i dettagli del suo proposito.
C’è chi ritiene che, in caso di vittoria, Trump darebbe avvio a un appeasement nei confronti di Mosca. In realtà, non è troppo probabile che ciò avvenga. Innanzitutto, nonostante sia spesso presentato come filorusso, il tycoon fu tutt’altro che tenero con il Cremlino da presidente: mise le sanzioni al gasdotto Nord Stream 2, fornì a Kiev i missili Javelin, chiuse il consolato russo di Seattle e uscì dall’accordo sul nucleare iraniano, irritando notevolmente Mosca. In secondo luogo, Trump sa che, se tornasse alla Casa Bianca, avrà urgente necessità di ripristinare la deterrenza verso Russia, Cina e Iran. Alla luce di ciò, un eventuale appeasement nei confronti di Putin rischierebbe di pagarlo a caro prezzo in altre aree, a partire dall’Indo-Pacifico. Tra l’altro, un appeasement verso la Russia Trump non può permetterselo neanche sul fronte energetico, visto l’export di gas statunitense in direzione dell’Europa.
E veniamo infine alla Cina. La Harris probabilmente cercherebbe di proseguire nella cooperazione sul cambiamento climatico: una strada che verosimilmente Trump abbandonerebbe. Inoltre, il candidato repubblicano tornerebbe prevedibilmente al tentativo di «disaccoppiare» l’economia americana da quella cinese: una linea, questa, rispetto a cui l’attuale amministrazione americana si è mostrata finora assai scettica.
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Riduci
I pronostici della vigilia vedono il candidato repubblicano in lievissimo vantaggio. In caso di testa a testa si aprirebbe la porta a ricorsi legali e richieste di riconteggio.Iran, Russia e Cina già in fibrillazione. Kamala guarda agli ayatollah, il tycoon a un’intesa Israele-sunniti. Incertezze sul futuro dell’Ucraina.Lo speciale contiene due articoli.Ormai ci siamo. Domani, negli Stati Uniti, si terrà l’Election Day. La sfida tra Donald Trump e Kamala Harris si preannuncia serrata. Ma non sono escluse delle sorprese. Cominciamo col ricordare che, domani, gli americani non si recheranno a votare per il prossimo presidente: voteranno invece per i grandi elettori che, a loro volta, eleggeranno il nuovo inquilino della Casa Bianca. L’elezione del presidente degli Stati Uniti è infatti indiretta e avviene in seno al cosiddetto Electoral College, che comprende un totale di 538 grandi elettori. Il quorum necessario per arrivare alla Casa Bianca è di 270. Ma come funziona tecnicamente l’elezione?Ogni Stato mette in palio una quota di grandi elettori sulla base della propria quantità di popolazione. Per esempio, la California, che è lo Stato più popoloso, ne offre 54, mentre il Wyoming, che è quello più spopolato, ne ha appena tre. In 48 Stati su 50, chi vince il voto popolare conquista automaticamente tutti i grandi elettori presenti in un determinato Stato. Fanno eccezione Nebraska e Maine, che li assegnano invece su base proporzionale. Ne consegue che, per arrivare alla Casa Bianca, non è strettamente necessario avere la maggioranza del voto popolare a livello nazionale: l’importante è avere la maggioranza del voto popolare negli Stati che permettono di arrivare a ottenere un minimo di 270 grandi elettori. Del resto, Trump, nel 2016, e George W. Bush, nel 2000, vinsero la presidenza senza conquistare il voto popolare a livello nazionale. Questo poi non vuol dire che i due elementi, voto nazionale ed Electoral College, siano completamente scissi. A settembre, il sondaggista Nate Silver ha pubblicato delle statistiche, secondo cui la Harris supererebbe il 50% di probabilità di ottenere 270 grandi elettori solo a fronte di un vantaggio nel voto nazionale di (almeno) due punti. Ma che cosa dicono i sondaggi? Al 2 novembre, la media di Real Clear Politics dava Trump avanti nel voto nazionale dello 0,3%. Venendo agli Stati chiave, il tycoon era in testa in Arizona (del 2,3%), in Nevada (dell’1,5%), in Georgia (del 2,6%) e in Pennsylvania (dello 0,4%). Dall’altra parte, secondo la stessa media, la Harris era avanti in Michigan (dello 0,8%) e in Wisconsin (dello 0,3%). Come è facile comprendere, i sondaggi certificano una situazione di testa a testa. Non a caso, l’altro ieri il modello predittivo di Decision Desk dava a Trump il 54% delle chance di vittoria: il tycoon è quindi leggermente favorito, anche se il quadro complessivo resta fondamentalmente in bilico.È chiaro che, se i sondaggi sono corretti, si configura un testa a testa. Il che aprirebbe probabilmente la porta a richieste di riconteggio e a ricorsi legali. Dall’altra parte, c’è chi sospetta però che non ci si debba fidare troppo di questi sondaggi. «Ci sono troppi sondaggi negli Stati indecisi che mostrano la corsa esattamente con Harris +1, testa a testa, Trump +1. Dovrebbe esserci più variazione di così. Tutti stanno facendo herding», ha scritto Nate Silver su X a fine ottobre. Ora, secondo l’American association for public opinion research, l’herding è quel fenomeno che si verifica quando «alcuni sondaggisti politici aggiustano i loro risultati, affinché corrispondano o si avvicinino molto ai risultati di altri sondaggi». In altre parole, non si può escludere che gli istituti sondaggistici si stiano allineando tra loro per evitare di presentare risultati troppo differenti e proteggersi così da eventuali situazioni di imbarazzo nel post voto. Della serie: se sbagliamo tutti, non sbaglia nessuno.È chiaro che, se ci trovassimo davanti a un caso di herding, le elezioni potrebbero non concludersi con un testa a testa. Potrebbero, invece, portare a qualche sorpresa eclatante. In caso, la domanda da farsi sarebbe: quale dei due candidati risulterebbe attualmente sottostimato? Qualcuno sta ipotizzando che potrebbe essere proprio la Harris. In particolare, secondo Politico, i sondaggi potrebbero riscontrare delle difficoltà nell’intercettare quegli elettori di Nikki Haley che avrebbero intenzione di sostenere la vicepresidente. Tuttavia, a livello storico, è Trump a essere sottostimato a causa di elettori restii a parlare con i sondaggisti. Basta guardare al Wisconsin. Nel 2016, i sondaggi davano Hillary Clinton avanti di quasi sette punti in loco: eppure, alla fine il tycoon espugnò lo Stato con un vantaggio dello 0,7%. Quattro anni dopo, pur perdendo in Wisconsin contro Joe Biden, Trump prese circa sei punti in più rispetto a quanto i sondaggi gli avevano attribuito. Evidentemente soltanto nel post voto potremo sapere se i sondaggi, quest’anno, avranno funzionato o se, al contrario, si saranno rivelati fallimentari. Il punto vero, al momento, è che però non possiamo dare nulla per scontato. Un testa a testa è senz’altro possibile. Ma, forse, non inevitabile. E faremmo quindi bene a prepararci per qualche eventuale (e non del tutto improbabile) sorpresa.Nel frattempo, Trump sta elettoralmente dando battaglia soprattutto nei tre Stati operai della Rust Belt: Michigan, Wisconsin e Pennsylvania. È lì che il tycoon vuole togliere alla Harris il terreno sotto i piedi. La vicepresidente, dal canto suo, sferra i suoi attacchi elettorali negli hinterland benestanti delle grandi città di Georgia, Pennsylvania e North Carolina. Quel North Carolina su cui la candidata dem sta da tempo concentrando la propria attenzione: se riuscisse a espugnarlo, per Trump il percorso verso la Casa Bianca si complicherebbe. Attenzione infine a quegli Stati di cui quasi nessuno sta parlando: ci riferiamo, in particolare, a Virginia, Minnesota e New Hampshire. Si tratta di aree in cui il tycoon sta performando meglio del previsto. Resta difficile per lui conquistare anche soltanto uno di questi tre Stati, ma non è neppure del tutto impossibile.Dall’altra parte, Trump deve fare attenzione in Iowa, dove la Harris si sta mostrando più competitiva del previsto.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/harris-trump-ora-della-verita-2669569111.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="teheran-mosca-e-pechino-gia-in-fibrillazione" data-post-id="2669569111" data-published-at="1730670679" data-use-pagination="False"> Teheran, Mosca e Pechino già in fibrillazione Uno degli interrogativi più pressanti che riguardano l’attuale corsa alla Casa Bianca è quello sugli scenari internazionali che si aprirebbero in caso di vittoria di Donald Trump o di Kamala Harris. A ben vedere, la differenza più significativa tra i due riguarda la crisi mediorientale. Se diventasse presidente, la Harris proseguirebbe prevedibilmente sulla strada dell’amministrazione Biden, non rinunciando a tendere cautamente la mano a Teheran. È d’altronde noto che la vicepresidente avrebbe, in caso, intenzione di nominare consigliere per la sicurezza nazionale quel Phil Gordon che fu tra gli artefici del controverso accordo sul nucleare con l’Iran. Dall’altra parte, Trump punterebbe a ripristinare la politica della «massima pressione» sul regime khomeinista, promuovendo al contempo un riavvicinamento tra Israele e i Paesi sunniti gravitanti attorno all’Arabia Saudita. Non a caso, è assai probabile che, in un’eventuale nuova amministrazione Trump, possano entrare Mike Pompeo e Robert O’Brien: entrambi, nel 2020, furono tra i principali artefici degli Accordi di Abramo. Più sfumati appaiono invece gli scenari sulla crisi ucraina. Intervistata il mese scorso dalla Cbs, la Harris non ha escluso di poter favorire un eventuale incontro tra Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky. Una posizione, questa, non poi così distante da quella di Trump. «Incontrerebbe il presidente Putin per negoziare una soluzione alla guerra in Ucraina?», aveva chiesto il giornalista Bill Whitaker alla candidata dem, che aveva replicato: «Non bilateralmente senza l’Ucraina, no. L’Ucraina deve avere voce in capitolo sul futuro dell’Ucraina». Dal canto suo, il candidato repubblicano ha, in passato, detto di voler far finire la guerra in 24 ore, senza specificare i dettagli del suo proposito. C’è chi ritiene che, in caso di vittoria, Trump darebbe avvio a un appeasement nei confronti di Mosca. In realtà, non è troppo probabile che ciò avvenga. Innanzitutto, nonostante sia spesso presentato come filorusso, il tycoon fu tutt’altro che tenero con il Cremlino da presidente: mise le sanzioni al gasdotto Nord Stream 2, fornì a Kiev i missili Javelin, chiuse il consolato russo di Seattle e uscì dall’accordo sul nucleare iraniano, irritando notevolmente Mosca. In secondo luogo, Trump sa che, se tornasse alla Casa Bianca, avrà urgente necessità di ripristinare la deterrenza verso Russia, Cina e Iran. Alla luce di ciò, un eventuale appeasement nei confronti di Putin rischierebbe di pagarlo a caro prezzo in altre aree, a partire dall’Indo-Pacifico. Tra l’altro, un appeasement verso la Russia Trump non può permetterselo neanche sul fronte energetico, visto l’export di gas statunitense in direzione dell’Europa. E veniamo infine alla Cina. La Harris probabilmente cercherebbe di proseguire nella cooperazione sul cambiamento climatico: una strada che verosimilmente Trump abbandonerebbe. Inoltre, il candidato repubblicano tornerebbe prevedibilmente al tentativo di «disaccoppiare» l’economia americana da quella cinese: una linea, questa, rispetto a cui l’attuale amministrazione americana si è mostrata finora assai scettica.
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Riduci
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Riduci
Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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