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Pubblichiamo il dialogo di Carlo Pelanda con Consultique Scf, la tv dei consulenti finanziari indipendenti.
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Benjamin Harnwell, corrispondente italiano per War Room, il podcast diretto dall’ideologo Steve Bannon, ex consigliere di Donald Trump nella precedente tornata elettorale e noto stratega politico, dal suo osservatorio ci fa uno scenario di quelli che secondo lui saranno i rapporti tra Usa e Europa e tra Italia e Usa.
Harnwell è stato protagonista di una vicenda giudiziaria, poi risoltasi a suo favore, che ha visto al centro la creazione di una scuola del pensiero sovranista nella Certosa di Trisulti. Bannon ha scontato la pena per non aver voluto collaborare con l’indagine sull’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021. Al momento è rimasto sullo sfondo dello scacchiere delle nomine dell’amministrazione Trump, non è dato sapere se avrà un ruolo.
Cosa significa per l’Europa la presidenza Trump?
«Significa che per i prossimi quattro anni l’Europa dovrà trattare con un leader del Paese più potente al mondo che porrà gli interessi del suo popolo prima di tutto. Significa che l’Europa avrà bisogno di trovare i soldi per pagare un po’ di più per la propria difesa. Significa che l’Europa avrà bisogno di trovare un modo per coesistere con la Russia (e per estensione, con Vladimir Putin). Più che altro, significa però che i nostri leader europei avranno bisogno di interrogarsi sempre su cosa penserà Donald Trump di questo o quello. Ma soprattutto non avranno più la mano libera a fare gli sbagli tipici dei globalisti. Era ora».
Cosa cambierà nei rapporti tra Usa e Europa?
«Vedo ad esempio le mosse dell’Unione Europea nell’ambito della concorrenza. È chiaro che la Commissione europea avvia le cause contro le grosse aziende americane, tipo Apple, Google, Qualcomm ecc. solo per arrivare ai loro soldi tramite “multe”. L’Ue, purtroppo, agisce come un gigantesco stato-mafia. Vedremo cosa accadrà con queste cause, ora che l'America ha un capo politico che difenderà, con orgoglio e vigore gli interessi americani all’estero».
Il ruolo di Musk nell’amministrazione Trump, avrà una influenza in Europa?
«Magari! A differenza di molti, io penso che Elon Musk sia più che altro un uomo d’affari, anziché un uomo che si interessa alla politica per cambiare il mondo. Cioè cerca le opportunità di fare soldi. Purtroppo in Europa non pensiamo come gli americani e tanto meno non pensiamo come Donald Trump o Elon Musk. In Europa, il nostro dibatto politico gira attorno a come distribuire la ricchezza, quasi mai invece, a come dobbiamo crearla. Quanto al rapporto con l’Europa, temo che con Musk, sarà alla fine un dialogo fra sordi, perché ripeto, lui vuole arrivare a fare più soldi possibile mentre i politici europei, invece, vogliono soltanto arrivare ai suoi soldi!».
Cosa cambierà per l’Italia nei rapporti con gli Usa?
«La premier Giorgia Meloni sì è impegnata molto a seguire la politica storica dell’Italia nell’offrire la massima fedeltà agli Stati Uniti. Il suo appoggio alla guerra in Ucraina è l’esempio più lampante. Dunque se avesse vinto la leader dem Kamala Harris, la presidente del Consiglio si sarebbe trovata molto ben posizionata a continuare a massimizzare l’influenza dell’Italia con gli Stati Uniti. Però il fatto è che alcuni in Trumpworld hanno il sospetto che la Meloni sì sia dimostrata, come posso esprimermi qui, forse un po’ troppo disponibile verso l’amministrazione Biden. Perciò dato che ha invece vinto Donald Trump, forse avrà un po’ di lavoro da fare per riparare i rapporti. Ma è ancora troppo presto per dire con qualsiasi certezza come si svilupperanno i rapporti».
Musk è stato ricevuto da Meloni, può preludere a maggiori rapporti commerciali?
«Spero di sì. La presidente del Consiglio è una persona molto carismatica, ed anche molto simpatica. La classe politica italiana in generale - mi permetto - si distingue per essere poltronista, opportunista e incapace. Ma la Meloni assolutamente non lo è. Avete la persona giusta a rappresentare il Paese - mi scusi, la nazione - con gente seria come Elon Musk. Auspico che la Meloni riesca ad attirare le grandi multinazionali a venire qui, nel Paese più bello al mondo, per investire e creare lavoro».
La politica di Trump su immigrazione e green deal influenzerà l’Europa?
«La politica di Trump non è altro che il desiderio del popolo americano manifestato alle urne. È il popolo stesso che vuole vedere le deportazioni di massa degli “invasori” illegali dal terzo mondo. Direi che è quello che vuole vedere anche il popolo europeo. Però in Europa abbiamo l'Unione Europea e diversi gradi di magistratura sia al livello comunitario che al livello nazionale che si sono auto concessi il potere di alterare ripetutamente la volontà popolare. Alla fine, o il popolo europeo o “Il Regime” - uno dei due - avrà bisogno di piegarsi davanti all’altro».
Prime mosse del presidente eletto: chiama Zelensky (con Musk) e progetta una rivoluzione conservatrice. Così vuol smontare il delirio gender in scuole, sport ed esercito. E si scaldano Ladapo e Robert Kennedy.
Una delle cause che spiegano la vittoria di Donald Trump alle ultime presidenziali è il rifiuto dell’estremismo woke da parte della maggioranza degli americani. Questa ubriacatura ideologica ha man mano portato il Partito democratico a combattere battaglie astruse, settarie e fondamentalmente impopolari.
Non a caso, dopo la disfatta di Kamala Harris, dall’Asinello sono arrivati dei segnali significativi. Ben due deputati dem, Tom Suozzi e Seth Moulton, hanno apertamente criticato la competizione dei transgender negli sport femminili. «I democratici passano troppo tempo a cercare di non offendere nessuno, invece di essere brutalmente onesti sulle sfide che molti americani affrontano», ha detto Moulton l’altro ieri. «Ho due bambine, non voglio che vengano investite su un campo da gioco da un atleta maschio o ex maschio, ma come democratico dovrei avere paura di dirlo», ha proseguito.
Più o meno nelle stesse ore, il sindaco dem di New York, Eric Adams, annunciava lo stop ai buoni pasto per i migranti. Tutto questo, mentre ieri l’ex consigliere di Hillary Clinton, Philippe Reines, sosteneva che l’Asinello è ormai «ostaggio» dell’estrema sinistra. Insomma, è chiaro che, nel redde rationem scattato in seno al Partito democratico, uno dei punti principali di scontro sarà rappresentato proprio dal destino dell’ideologia woke: il simbolo del potere «californiano» che, negli ultimi dieci anni, ha mortificato sistematicamente l’ala «operaia» dell’Asinello. Del resto, anche alcuni settori del Partito democratico newyorchese si stanno ricredendo, iniziando a comprendere i danni prodotti dal wokeismo.
Non è quindi un caso che Trump sia deciso a dare battaglia per contrastare questa deriva ideologica nelle istituzioni e nelle scuole statunitensi. Ieri, The Hill riportava che il presidente in pectore punta a riformare strutturalmente il Pentagono: vuole diminuirne le spese, snellirne i vertici e, soprattutto, «ridurre gli sforzi per rendere l’esercito più inclusivo nei confronti dei soldati transgender e delle donne». Non è del resto un mistero che, negli ultimi quattro anni, i repubblicani abbiano spesso criticato l’amministrazione Biden per le sue politiche su diversità, equità e inclusione all’interno del Dipartimento della Difesa. Trump vuole quindi agire in fretta. La questione non è soltanto di costi economici ma anche di efficienza e, in particolare, di ripristino della capacità di deterrenza americana sul piano internazionale.
Ma non è tutto. A metà ottobre, l’allora candidato repubblicano aveva annunciato di voler proibire la competizione dei transgender negli sport femminili. Quando gli fu chiesto come avrebbe potuto introdurre un tale divieto, rispose: «Il presidente lo vieta. Semplicemente non permetti che accada. Non è un grande problema». Questo vuol dire che, con ogni probabilità, Trump ha intenzione di affrontare la questione attraverso un decreto. Non solo. Lo scorso maggio, il tycoon aveva altresì promesso che avrebbe abolito i cambiamenti apportati da Joe Biden al Titolo IX: l’attuale presidente ha infatti stabilito che le discriminazioni nei programmi d’istruzione dovrebbero essere vietate non solo sulla base del sesso ma anche su quella dell’orientamento di genere.
Inoltre, almeno in parte, Trump punta a contrastare il wokeismo nelle scuole attraverso l’eliminazione del dipartimento dell’Istruzione. Non è chiaro se riuscirà a conseguire questo obiettivo. Tuttavia l’idea di base è che i sistemi scolastici debbano far capo ai singoli Stati e non al governo federale. Per di più, la nuova amministrazione potrebbe cercare di promuovere anche delle restrizioni alla propaganda di contenuti progressisti nelle scuole.
E poi abbiamo la lotta all’immigrazione clandestina: uno dei principali cavalli di battaglia del tycoon in campagna elettorale. Giovedì, parlando con Nbc News, Trump ha confermato che una delle sue priorità è quella di rendere la frontiera meridionale «forte e potente». Ha anche ribadito di avere intenzione di attuare dei rimpatri di massa. «Non abbiamo scelta», ha affermato il presidente in pectore. Secondo la Cnn, il tycoon ha intenzione di concentrarsi innanzitutto sui clandestini che si sono macchiati di reati. Probabilmente il suo team sta lavorando da tempo a questo dossier, anche perché - come detto - ha rappresentato uno dei capisaldi del suo messaggio elettorale. I punti su cui si stanno concentrando i collaboratori di Trump sono principalmente due: l’operatività dei rimpatri e, in particolare, la messa a punto di una strategia per affrontare eventuali ricorsi legali. Ricordiamo che, secondo un sondaggio Ipsos dello scorso settembre, il 54% degli americani si dice favorevole ai rimpatri di massa. È anche in quest’ottica che la squadra del presidente in pectore sta decidendo se attuare l’espulsione dei cosiddetti dreamers: gli immigrati irregolari entrati negli Stati Uniti da minorenni. Insomma, Trump sembra voler tirare risolutamente dritto contro la deriva woke. Non sarà affatto facile picconarla, è chiaro. Ma non è detto che non ce la possa fare.
È un no vax. Di Robert Francis Kennedy Jr si sente dire soltanto questo. Tanto che lui, in un’intervista a Nbc news, ha dovuto giurare che non ha nulla contro i vaccini. Il rampollo della dinastia più funestata della storia americana, nipote di Jfk, figlio di Bob, ha litigato pure con i parenti, per la sua scelta di lasciare il Partito democratico e poi sostenere, da indipendente, Donald Trump. Ma nella sua biografia c’è una certa coerenza: stare dalla parte dei più deboli, come il padre che andava tra i neri negli Stati del Sud. Schierarsi contro i poteri forti. Oggi, debole è il popolo che ha una delle aspettative di vita più basse nel mondo sviluppato. I forti, Kennedy jr li identifica con i predoni della salute: Big pharma e la Food and drug administration. L’autorità che dovrebbe disciplinare l’uso dei medicinali e che invece, a suo avviso, è contaminata dal germe della «corruzione». Anche da qui potrebbe passare la rivoluzione conservatrice della nuova amministrazione Trump: «Interi dipartimenti» dell’ente regolatore «devono essere eliminati», ha dichiarato a Msnbc l’avvocato di Washington. Quelle sezioni di Fda, «come il dipartimento per la nutrizione», «non stanno facendo il loro lavoro, non stanno proteggendo i nostri bambini».Durante il discorso con cui ha celebrato il trionfo elettorale, il tycoon ha lasciato intendere che Kennedy jr svolgerà un ruolo di primo piano nella sua squadra. Make America healthy again è lo slogan, variazione sul tema del classico «Maga»: rendere l’America di nuovo sana. C’è in serbo il ministero della Sanità? Per la nomina, servirebbe il via libera dal Senato. Controllato dai repubblicani, certo. Ma per scongiurare incidenti di percorso, forse sarebbe preferibile un un incarico per cui non occorra la ratifica del Congresso. Oppure, il dicastero dell’Agricoltura? In effetti, è sull’alimentazione che batte spesso Kennedy. E a seguire i cinque minuti di video che hanno diffuso su X i canali vicini a Trump, l’uomo accusato di complottismo durante la pandemia non sembra per niente uno svitato.Il suo ragionamento è lineare. Gli statunitensi, rispetto agli altri occidentali, campano meno e stanno peggio. La causa? Ingurgitano troppe schifezze. Non si tratta solo di invitarli a consumare più insalata e meno patatine. Il punto è tecnico, politico, giuridico. Il cibo spazzatura che divorano fa ingrassare, sì, ma è soprattutto un veleno. Contiene sostanze chimiche dannose. Per responsabilità di Fda: quegli ingredienti sono legali, autorizzati dall’agenzia che dovrebbe tutelare i cittadini, mentre li lascia in balìa di produttori privi di scrupoli. Perciò lui parla di corruzione: evoca un cortocircuito tra la grande industria e chi dovrebbe vigilare su di essa. La proposta: mettere al bando le sostanze pericolose, spingendo gli americani ad abitudini più salutari. Senza diktat e divieti, a differenza delle crociate anti vino dell’Oms, o della campagna inglese contro sigarette ed e-cig.Sembra banale. Non lo è. Sarebbe una trasformazione epocale. Il paradigma che si è imposto durante il Covid, anche a colpi di propaganda e censura, diventando un aspetto centrale dell’agenda dem, si fonda sulla sostituzione del cittadino con il paziente. È l’estremo approdo della medicalizzazione. Siamo tutti malati: soffriamo di patologie croniche, rischiamo di buscarcene altre. Soluzione? I farmaci. I vaccini per schermarci dalle infezioni, le terapie per trattare i mali già contratti. È questo circolo che la filosofia di Kennedy jr intende spezzare: mi alimento male, tracanno tossine, mi ammalo, faccio spendere allo Stato o spendo di tasca mia tanti soldi per comprare le medicine con cui curarmi. L’alternativa: mangio decentemente, evito il junk food, rifuggo la sedentarietà, quindi perdo peso, quindi riduco il rischio di patologie cardiovascolari e tumori, quindi ho meno bisogno di farmaci. Sono due modelli contrapposti. Proprio come qualcuno, sui social, provava a contrapporre le foto di Kennedy e Bill Gates. Due coetanei (Mr Microsoft è del 1955, il politico è del 1954), ma il re Mida dei vaccini ha il fisico decadente, il figlio di Bob è vigoroso e atletico. Anche se il salutismo non lo ha salvato da un disturbo neurologico, che gli crea problemi di fonazione.È una svolta culturale. Il medico è politico. Lo prova il precedente italiano: ricordate il putiferio che si scatenò, allorché Giorgia Meloni definì una «devianza» l’obesità? Apriti cielo: si gridò al body shaming, con strali verso i nostalgici della ginnastica fascista. Nell’ottica liberal, il corpo deforme è un proclama liberatorio. La body positivity è il paravento con cui si occultano gli effetti devastanti del sovrappeso. Intanto, l’organismo infiacchito dalla cornucopia di medicine nutre, con il feticcio di vaccinazioni, mascherine, autoquarantene, un’illusione di immunità. Ma l’élite progressista insegue le mode delle pietanze healthy: il tofu, il miglio, l’avocado. Snack e bibite edulcorate restano sulle tavole dei poveri. Per loro, garantisce Fda.
Il giornale inglese di sinistra The Guardian, dopo l’elezione di Donald Trump, ha inviato una mail ai dipendenti offrendo «servizi di supporto gratuiti» per ristabilire il benessere dei collaboratori dopo il trauma causato dalla vittoria di The Donald. Diversi professori di Harvard hanno cancellato le lezioni per le crisi in cui sono caduti molti studenti dopo la vittoria di Trump sulla Harris che, da quelle parti, aveva il suo quartier generale. Già nel 2016, quando vinse Trump per la prima volta, molti professori rimandarono gli esami e cambiarono molte lezioni scrivendo che potevano prendersi del tempo libero per riprendersi dai traumi psicologici di questo che oggi chiamano «A Very Dark Moment», un momento veramente buio, che richiama il titolo del film su Churchill a proposito della seconda guerra mondiale.
Un più modesto e casereccio Michele Serra, a proposito delle elezioni di Trump, ha detto che «è il capo patologico di un elettorato per metà incapace di accorgersene, per metà entusiasta di votarlo perché patologico a sua volta». Ad un’analisi anche sommaria il verdetto non può che essere il seguente: i malati non sono i 72 milioni di americani che hanno votato Trump, ma coloro che hanno inviato l’e-mail del Guardian, i professori dell’università di Harvard, il nostro vate Michele Serra.
La malattia della quale sono affetti è l’agorafobia, parola di origine greca che viene da agorà, «piazza», e phobia, «paura», etimologicamente «paura della piazza»: una sensazione di forte disagio e disorientamento quando un soggetto si ritrova in ambienti per lo più all’aperto o affollati, non familiari, dove ha la sensazione che la situazione gli possa sfuggire di mano. Questo lo porta a cercare immediatamente una via di fuga perché non sostiene l’ansia in lui crescente e corre verso una situazione, un luogo, uno spazio che considera più sicuro. È l’esatto contrario della claustrofobia, la paura dei luoghi chiusi, dal latino claustrum, «luogo chiuso». Questi signori, infatti, sono abituati a vivere nei loro luoghi chiusi, o meglio aperti solo a chi decidono loro, legittimamente; trovano un sicuro riparo all’interno delle loro convinzioni per lo più ideologiche - cioè costruite su pregiudizi che precedono i giudizi e, quindi, li falsano - e, appena accade qualcosa nell’agorà, al di fuori dei propri luoghi chiusi, che va in senso contrario a ciò che loro pensano dovesse accadere, vengono aggrediti dall’ansia - financo accompagnata da sudori freddi e, spesso, da incontinenze intestinali - perché è successo il contrario di quello che loro avevano previsto. Il problema centrale non è tanto che sia avvenuto il contrario, ma che ciò che è avvenuto è sbagliato e certamente rappresenta un errore in quanto non è quello che pensavano loro.
Del resto, se il Guardian e i professori di Harvard hanno ritenuto di dover offrire un supporto rispettivamente ai dipendenti e agli studenti, perché hanno considerato un trauma (pensate che uno studente di Harvard ha dichiarato che quando è stata proclamata la vittoria di Trump ha pianto per ben un’ora intera) ciò che è accaduto appena hanno saputo della vittoria, dall’altra parte Serra ha parlato chiaramente, come avete letto, di Trump come un capo patologico. In pratica 72 milioni di malati di mente che popolano gli Stati Uniti e ai quali, per essere conseguenti al ragionamento di Serra, si dovrebbe vietare il voto come è previsto per gli incapaci di intendere e di volere. Leggo poco, per sincerità, Michele Serra, e quindi non posso dare un giudizio complessivo su quello che scrive, ma su questa solenne cazzata mi sento di formulare la seguente domanda: «Chi cacchio è Serra per dare del patologico a 72 milioni di americani? Sigmund Freud? Carl Gustav Jung? Viktor Frankl? È forse un sociologo o uno psicologo delle masse? Ha condotto ricerche negli Stati Uniti circa la salute mentale degli elettori repubblicani? O è in preda a un attacco di claustrofobia perché in quella piazza è stato colto da ansia in quanto percepita come non familiare e abituale? C’è poco da fare, nella piazza c’è il popolo e il popolo, ci dispiace per il Guardian, per Harvard e un po’ meno per Serra, decide ciò che gli pare e piace spesso indipendentemente e in senso contrario a ciò che, dal chiuso delle loro stanze e dei loro circoli asfittici, costoro profetizzano. Sono agorafobici. Amano gli spazi chiusi e protetti delle loro convinzioni. Dà loro ansia qualsiasi cosa accada al di fuori di esse, come la vittoria di Donald Trump. L’agorafobia si cura ma per curarla uno dovrebbe non avere la convinzione di avere una sorta di verità assoluta in tasca.
La Grande Frenata. Dopo tre giorni in cui Donald Trump è stato dipinto come l’uomo nero riemerso dalle paludi della Florida (La Repubblica), il dittatore light che avvelenerà il mondo (La Stampa), il cancro americano votato da bifolchi (tutti gli altri, compreso il comitato centrale de La7), ecco che con stridore di ganasce qualcuno comincia a ragionare. E ad accennare timidamente che il tycoon dai capelli arancioni potrebbe perfino risolvere qualche problema globale.
L’immediata apertura di Vladimir Putin («Sono pronto a parlare con un uomo coraggioso») ha avuto l’effetto di uno sparo in un accampamento semiaddormentato all’alba. Mentre molti editorialisti di sinistra continuano a dormire sui luoghi comuni da bar social, gli osservatori più avveduti hanno cambiato linea e riescono a guardare un centimetro oltre il loro naso. L’esempio più concreto è rappresentato da Domenico Quirico, principe degli inviati di guerra, che sulla Stampa scrive: «Trump potrebbe riuscire in una pace di Westfalia e costruire un equilibrio duraturo, mentre l’Europa assiste come spettatrice». E spiega: «Intendo un vertice che non somigli a Yalta, che fu un incontro fra vincitori per spartirsi le sfere di dominio, semmai al classico insuperato di diplomazia fra potenze, Wesfalia, che ricucì il mondo fatto a pezzi dalla feroce Guerra dei 30 anni».
L’effetto è straniante perché, mentre nelle pagine precedenti dello stesso giornale si fa a gara ad elencare le colpe, le condanne e pure gli afrori ascellari di The Donald, il decano dei reporter continua così: «Trump potrebbe offrire la possibilità di quel summit internazionale dei Grandi che è l’unico modo per porre fine ai conflitti in corso, in particolare in Ucraina, e la costruzione di un equilibrio che regga per un certo numero di anni». I grandi sarebbero quattro: lui, Putin, Xi Jinping e Modi.
Non si sa se è una presa di coscienza o la reazione all’allarmismo turbo-progressista che gronda da altri commenti, ma la posizione si nota. Anche perché Quirico non ha finito. «Il ritorno di Trump alla Casa Bianca significa che verrà meno tutta una retorica a cui i democratici americani sono legati a doppio filo e in cui agiscono come cavalieri sfolgoranti in lotta con i draghi scelti di volta in volta da loro: le evocazioni offensive, lo spirito di Monaco, il nuovo Hitler che vuole conquistare l’Europa, crimini contro l’umanità, popoli assassinati. Un incendio mentale che in questi due anni e mezzo ha intossicato qualsiasi riflessione».
Benvenuto, maestro. Sberle e ancora sberle al conformismo mediatico; sembra la stroncatura di un qualsivoglia intervento di Alan Friedman, Antonio Caprarica o Tomaso Montanari in un talk show del pomeriggio. Queste conversioni a U non possono che far bene al dibattito, fin qui dominato da vaticinii da sottoscala del pensiero. Chi analizza i fatti senza farsi corrompere dal politically correct ricorda le partite a scacchi vinte da Trump nel primo mandato. E non dimentica gli accordi di Abramo, l’intesa (tutta basata sugli interessi, ci sta) con Putin, il confinamento dell’Iran dentro il perimetro delle sanzioni, la protezione di Israele per evitare le aggressioni di Hamas. Tutto distrutto da Joe Biden e dalla sua sgangherata, guerrafondaia, imbarazzante amministrazione liberal.
È curioso che oggi lo scoprano a scoppio ritardato anche campioni della geopolitica televisiva come Lucio Caracciolo e Dario Fabbri, pure loro imprigionati per mesi dentro la narrazione del pensiero unico della sacerdotessa Lilli Gruber, che definiva The Donald un prodotto di Satana e Kamala Harris un dono divino. Il mondo che conta (non solo i meravigliosi bifolchi del Montana) la pensa diversamente, con l’aggravante di non averle chiesto il permesso. Né a lei, e neppure a Ursula Von der Leyen, comparsa da terza fila al gran ballo della Storia.
Tutto ciò crea disorientamento non solo fra i lettori progressisti, avvezzi alle intemerate di Gad Lerner e alla melassa curiale di Fabio Fazio, ma anche fra quelli liberali che per due anni su altri quotidiani conservatori hanno letto editoriali nei quali un’unica opzione sembrava possibile in Ucraina: vincere senza condizioni. Il mood fantasmagorico era questo: «Bisogna cavalcare con gli ussari lanciati nella pianura sarmatica per conquistare Mosca». Li abbiamo visti tutti dipingere affreschi fuori dal tempo e struggersi davanti alla fotografia di Emmanuel Macron, Olaf Scholz e Mario Draghi sul treno della Forza.
Era una rappresentazione da operetta, ma siamo stati in pochi a coglierne la debolezza strategica. «L’Europa? Da un giorno all’altro ci siamo scoperti nudi, mentre correvamo verso felicità obbligatorie», commenta Quirico. Bambini, children. Buoni per addormentarci sull’amaca di Michele Serra. Incapaci di immaginare una pace fra uomini. Doveva tornare il Matto dal capello arancione per farcelo scoprire.
