Il capo dei geologi dell’Emilia-Romagna Paride Antolini: «Non c’è manutenzione in zone ad alto rischio. Però sprechiamo soldi col superbonus».
Il capo dei geologi dell’Emilia-Romagna Paride Antolini: «Non c’è manutenzione in zone ad alto rischio. Però sprechiamo soldi col superbonus».Paride Antolini, presidente dell’Ordine dei geologi in Emilia Romagna, la disturbo?«Sono in bici e sto arrivando in prossimità del fiume. Vedo molti suoi colleghi. Mi faccia controllare il livello».Quale fiume?«Il Savio qui al ponte nuovo di Cesena... sì, la piena si è abbassata molto. Meglio».Infuria senza sosta il dibattito sul cambiamento climatico, ma lei parla soprattutto di dissesto idrogeologico.«Abbiamo avuto a inizio maggio piogge estremamente intense. Ma l’acqua non aveva sormontato gli argini, bensì li aveva rotti. E questo riguarda principalmente la manutenzione più che il clima. Poi sono arrivate altre eccezionali piogge, intorno a 250 millilitri: un fenomeno ovviamente diverso. Chiaro che di fronte a un evento del genere gli argini anche ben manutenuti difficilmente tengono. Fra Lombardia, Veneto ed Emilia ci sono 2.500 chilometri di argini da gestire. L’incidente in queste situazioni estreme è pressocché inevitabile».«Houston abbiamo un problema», dicevano gli astronauti nello spazio in Apollo 13.«Una volta avevamo il presidio delle case cantoniere a livello comunale. Oggi siamo a raschiare il fondo del barile. Anche nella sanità, vediamo situazioni analoghe. Non abbiamo più questi presidi che pulivano il fossetto nella strada. Abbiamo appalti gestiti a livello centralizzato con imprese e mezzi meccanici che arrivano da fuori, coi loro tempi».Micro interventi di buon senso che mancano….«Prenda le comunità montane. Queste unioni di 14-15 Comuni vivono il territorio e dovrebbero essere loro a farsi carico di questi interventi ma hanno uffici tecnici ridotti all’osso e possono a malapena sbrigare pratiche di autorizzazione».Sintetizzando il suo pensiero: «Alberi a monte e bacini di espansione a valle». Sintesi brutale?«Esattamente così. Prima bisogna fermare le acque a monte e per far questo servono foreste e boschi. Tutte le autorizzazioni al taglio vanno quindi coordinate a livello di bacino. Per vedere quanto bosco si taglia e se si può. Se piove in una montagna con la foresta integra, l’acqua rallenta verso la pianura. E quando arriva qui, si immette in canali e qui gli alberi non ci devono stare. Gli argini devono essere puliti. Il corso d’acqua dalla sorgente alla foce ha delle caratteristiche precise e diverse a seconda di dove ci si trova. Talvolta i tagli sono indiscriminati».Lei ha citato un recente rapporto Ispra da cui spunta una mappatura molto dettagliata del rischio idrogeologico in Italia.«Calabria e Romagna sono le aree più problematiche. Da noi il 60% della popolazione vive in zone a rischio alluvione medio. Gli interventi sul territorio vanno congegnati di concerto con i meteorologi. Se dobbiamo fronteggiare eventi così gravi, che hanno una probabilità di accadimento ogni 200 anni, è una cosa. Se l’arco si riduce a 30 la situazione cambia». Se su 750.000 frane censite a livello europeo, secondo il suo collega Mario Tozzi, ne abbiamo 620.000 solo in Italia ne deduco che abbiamo un problema di dissesto idrogeologico. Perché altrimenti il cambiamento climatico lo avremmo solo noi. «Considero questo evento come eccezionale. La nostra regione ha un dissesto idrogeologico molto pronunciato, sia per conformazione geomorfologica del territorio che per densità abitativa. Situazione quest’ultima ereditata addirittura dagli antichi romani, che centuriavano la pianura per reperire terre coltivabili. Gli Estensi hanno poi bonificato molto. Pure il Papato cercava terre coltivabili e a stretti fiumi. Dal dopoguerra si è aggiunta un’incredibile continuità di costruzioni alimentata dal boom economico. In passato c’era meno attenzione al territorio. Si cercavano di superare i vincoli in assoluta buona fede. Oggi certe situazioni in prossimità dei fiumi - se la piovosità rimane a questi livelli - non potremo più permettercele. E comunque bisogna studiare la situazione e serve buon senso perché ci sono ormai attività economiche consolidate. Non sempre puoi spostarle. Intanto però partiamo dal cantoniere che pulisce il fosso e poi possiamo arrivare alle grandi strutture che costano centinaia di milioni. Abbiamo margini di recupero piccolissimi in ogni settore. Ma se li recuperiamo possiamo fare tanto». Non saranno molto sexy questi interventi agli occhi dei politici…«La tecnologia oggi ci aiuta nella costruzione degli argini. È chiaro che la gente apprezza più una bella rotonda asfaltata di queste iniziative meno visibili. Come, ad esempio, gli studi relativi alle tane che la fauna realizza lungo gli argini. C’è un passaggio anche culturale. Ormai da tempo si parla solo di Protezione civile ma bisogna soprattutto tornare a vedere uffici con la targhetta e su scritto “pianificazione del territorio”. E chi prima faceva pianificazione ora si occupa di Protezione civile. Se poi cerco un geologo quasi sempre non lo trovo o se lo trovo si occupa di cose di cui potrebbe occuparsi un’altra persona, senza le sue qualifiche».Domanda retorica con risposta scontata: quale dovrebbe essere la priorità quando sentiamo parlare di Pnrr? «Ovviamente il dissesto idrogeologico ma anche il rischio terremoto. Prenda il superbonus e il bonus facciate. Interventi dove si sono spesi un sacco di soldi senza dare priorità alla sicurezza. Questa per noi è la vera emergenza. Si danno soldi solo per fare delle belle case».Ma sono green …«Però prima bisogna pensare alla sicurezza. Cosa ce ne facciamo dei cappotti termici alle case quando poi arriva il terremoto (o la frana) e la casa crolla? Di quella casa mi rimangono le fotografie».
Stefano Puzzer (Ansa)
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Lo speciale contiene due articoli.
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Siluro dell’ex economista Bce, il teutonico Jürgen Stark: «È chiaro perché l’Eliseo l’ha voluta lì...».
Stefano Antonio Donnarumma, ad di Fs
L’amministratore delegato Stefano Antonio Donnarumma: «Diamante 2.0 è il convoglio al centro dell’intero progetto».
Rete ferroviaria italiana (Rfi), società del gruppo Fs, ha avviato un piano di rinnovo della propria flotta di treni diagnostici, i convogli speciali impiegati per monitorare lo stato dell’infrastruttura ferroviaria. L’operazione prevede nei prossimi mesi l’ingresso in servizio di due nuovi treni ad Alta velocità, cinque destinati alle linee nazionali e 15 per le reti territoriali.
L’obiettivo dichiarato è quello di rafforzare la sicurezza e la regolarità del traffico ferroviario, riducendo i rischi di guasti e rendendo più efficace la manutenzione. Tra i nuovi mezzi spicca il convoglio battezzato Diamante 2.0 (Diamante è l’unione delle prime tre sillabe delle parole «diagnostica», «manutenzione» e «tecnologica»), un treno-laboratorio che utilizza sensori e sistemi digitali per raccogliere dati in tempo reale lungo la rete.
Secondo le informazioni diffuse da Rfi, il convoglio è in grado di monitorare oltre 500 parametri dell’infrastruttura, grazie a più di 200 sensori, videocamere e strumenti dedicati all’analisi del rapporto tra ruota e rotaia, oltre che tra pantografo e catenaria. Può viaggiare fino a 300 chilometri orari, la stessa velocità dei Frecciarossa, consentendo così di controllare le linee Av senza rallentamenti.
Un’ulteriore funzione riguarda la misurazione della qualità della connettività Lte/5G a bordo dei treni ad Alta velocità, un aspetto considerato sempre più rilevante per i passeggeri.
«Diamante 2.0 è il fiore all’occhiello della flotta diagnostica di Rfi», ha affermato l’amministratore delegato del gruppo, Stefano Antonio Donnarumma, che ha viaggiato a bordo del nuovo treno in occasione di una corsa da Roma a Milano.
Attualmente, oltre al nuovo convoglio, Rfi dispone di quattro treni dedicati al monitoraggio delle linee tradizionali e di 15 rotabili destinati al servizio territoriale.
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