2025-03-13
Groenlandia a destra: indipendenza vicina. The Donald se la gode
Senza i fondi danesi, l’isola può aprire agli Usa. Che vogliono chiudere il cerchio delle materie prime dopo l’accordo col Congo.Nemmeno in Groenlandia, isola di circa 57.000 abitanti e oltre due milioni di chilometri quadrati, i sondaggi hanno previsto i risultati elettorali. A «sorpresa», dalle urne sono usciti vincitori i Demokraatit, liberali di centrodestra (nonostante il nome possa trarre in inganno), e i nazionalisti di Naleraq. I primi hanno triplicato i loro voti rispetto al 2021, passando dal 9,1% al 29,9%, mentre i secondi hanno registrato un raddoppio, dal 12,3% al 24,5%. Male invece le forze politiche del governo uscente: gli ambientalisti di Inuit Ataqatigiit si sono fermati al 21% (15 punti in meno rispetto al 2021) e i socialdemocratici di Siumut hanno praticamente dimezzato il loro consenso, raggiungendo appena il 15%. Nessuno, tuttavia, ha ottenuto la maggioranza assoluta, e a breve partiranno i negoziati per formare il nuovo governo. Benché con differenze di vedute sui tempi e sui modi, tutte le forze dell’isola sono favorevoli all’indipendenza da Copenaghen. Colonia danese dal 1814 al 1953, la Groenlandia ha conosciuto una parentesi americana durante la seconda guerra mondiale, allorché gli Stati Uniti, dopo l’occupazione nazista della Danimarca, hanno preso il controllo dell’isola. Con la fine del conflitto, i groenlandesi (composti all’88% dal popolo indigeno degli Inuit) sono tornati sotto il dominio danese, passando, nel 1953, dallo status di colonia a quello di contea d’oltremare e raggiungendo negli anni una sempre maggiore autonomia, in particolare dopo un referendum nel 1979. La partita per l’indipendenza si è riaccesa nel 2008, quando un secondo referendum ha conferito all’isola ulteriori gradi di autonomia, ottenendo, l’anno successivo, l’autogoverno su alcune competenze come gli affari giudiziari, le forze di polizia e le risorse naturali. Tuttavia, la politica estera e la difesa sono rimasti in capo a Copenaghen, che sostiene l’isola con un contributo annuo - noto come bloktilskud - di oltre 500 milioni di euro, più della metà del bilancio pubblico di Nuuk. Insomma, nonostante le spinte autonomiste e l’ostilità verso Copenaghen, al momento la Groenlandia rimane una realtà altamente dipendente sia sotto il profilo finanziario e sia per la sicurezza. Per queste ragioni, non è così impossibile che il nuovo governo, dopo il rinnovato interesse mostrato da Donald Trump per l’isola, accetti in futuro di sedersi al tavolo con gli Stati Uniti. D’altra parte, benché le affermazioni del tycoon abbiano suscitato preoccupazione o ilarità, era già chiaro allora - e lo è sempre di più oggi - che esse si inseriscono all’interno di un ampio piano strategico. Dal canto loro, i Demokraatit hanno ribadito l’obiettivo dell’indipendenza ma, al contrario dei nazionalisti che vorrebbero un’azione immediata, essi intendono prima raggiungere l’indipendenza economica, forse proprio per non presentarsi davanti agli Usa - le cui mire hanno comunque generato allarme - in una posizione di debolezza. Un’eventuale annessione del grande territorio artico da parte degli Stati Uniti, o anche solo una forma negoziata di controllo su alcuni settori, presenta due grandi vantaggi per la prima potenza mondiale: in primo luogo, si tratta di un territorio assai ricco di idrocarburi (gas e petrolio), minerali critici e terre rare fondamentali per il settore tecnologico e la transizione energetica; non secondariamente, l’isola si trova in una posizione strategica per il controllo delle rotte artiche, su cui anche Russia e Cina puntano ad aumentare i loro traffici. Tant’è che anche l’amministrazione Biden si era mossa aprendo una sede diplomatica a Nuuk e pubblicando, l’anno scorso, la «Strategia artica del Dipartimento della Difesa per il 2024».Come spiegato su queste pagine da Stefano Piazza, lo scioglimento dei ghiacciai renderà l’artico sempre più strategico per il commercio internazionale e per la sicurezza mondiale. Russia e Cina l’hanno capito in anticipo e, negli ultimi anni, hanno aumentato significativamente la loro influenza sull’area, all’interno di una collaborazione nota come Via della Seta Polare. Entrambi i Paesi sono piuttosto avanti nello sviluppo di infrastrutture commerciali, e non è detto che l’apertura di Trump nei confronti di Vladimir Putin non miri a staccare Mosca dal Dragone anche in questo campo. Quanto alla Groenlandia, Pechino è già impegnata nella costruzione di alcuni aeroporti e ha acquisito i diritti per diverse miniere, tra cui una di uranio. Il controllo dell’isola, dunque, sarebbe un passo strategico per recuperare terreno, anche letteralmente, nei confronti dei rivali. Non meno importante è il fronte delle materie prime, anche in ottica di reshoring, tenuto conto che molte delle filiere legate al settore tecnologico sono in mano alla Cina. Un esempio è il Congo, dove, sulla scia di quanto sta avvenendo in Ucraina, è in fase di negoziazione un accordo sui minerali critici con gli Usa. Paese ricco di rame, cobalto, coltan e uranio (ma anche oro e diamanti), da anni la Repubblica del Congo è alle prese con i ribelli dell’M23 che, con il sostegno del Ruanda (supportato dagli Stati Uniti), cercano di conquistarne la zona orientale, assai ricca di materie prime. Kinshasa ha offerto un accordo a Trump in cambio di un piano di addestramento ed equipaggiamento per le forze armate congolesi, intesa che si rivelerebbe utile anche per arginare la presenza cinese nel settore minerario. La guerra tecnologica, dunque, implica tensioni sul piano geopolitico, e l’interesse del tycoon per le materie prime, fondamentali anche per i grandi attori della Silicon Valley, è un chiaro indizio del fatto che gli Stati Uniti di Trump non intendono perdere questa partita.
L'ex amministratore delegato di Mediobanca Alberto Nagel (Imagoeconomica)
Giorgia Meloni ad Ancona per la campagna di Acquaroli (Ansa)
«Nessuno in Italia è oggetto di un discorso di odio come la sottoscritta e difficilmente mi posso odiare da sola. L'ultimo è un consigliere comunale di Genova, credo del Pd, che ha detto alla capogruppo di Fdi «Vi abbiamo appeso a testa in giù già una volta». «Calmiamoci, riportiamo il dibattito dove deve stare». Lo ha detto la premier Giorgia Meloni nel comizio di chiusura della campagna elettorale di Francesco Acquaroli ad Ancona. «C'é un business dell'odio» ha affermato Giorgia Meloni. «Riportiamo il dibattito dove deve stare. Per alcuni è difficile, perché non sanno che dire». «Alcuni lo fanno per strategia politica perché sono senza argomenti, altri per tornaconto personale perché c'e' un business dell'odio. Le lezioni di morale da questi qua non me le faccio fare».
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