2020-01-23
Greta ha creato l’internazionale dell’angoscia
In un caustico pamphlet, il francese Régis Debray fulmina la sinistra passata dall'utopia «rossa» all'ansia «verde» per l'avvenire. «Prima attaccavano i padroni, ora ce l'hanno con il fumo delle fabbriche. Se vedono un rivoluzionario lo mandano dallo psicologo».«L'obiettivo non è più una società senza classi e sfruttatori, ma una senza carbone e rifiuti alla deriva. Il nemico principale non è più il padrone, ma il fumo della fabbrica». Dal secolo rosso al secolo verde, dalle passioni entusiaste e sanguinarie della palingenesi sociale a quelle tiepide e bacchettone della salvaguardia ambientale. Una deriva grottesca che solo il sismografo culturale di un intellettuale raffinato come Régis Debray poteva cogliere e raccontare in tutta la sua portata. Ecco allora Le siècle vert. Un changement de civilisation, pamphlet scintillante appena uscito per Gallimard. L'ex compagno di guerriglia di Che Guevara in Bolivia, poi uomo di fiducia di François Mitterrand, ci regala uno dei suoi soliti libelli incendiari: breve, corrosivo, scritto magnificamente. Del resto il tema si presta. «Uno spettro si aggira per l'Occidente: la distruzione del sistema Terra. Tutte le potenze del vecchio mondo cercano di scongiurare o contenere l'inquietudine montante. Dappertutto, la gioventù scolarizzata si solleva con, da Berlino a Roma, da New York a Parigi, da Madrid a Manchester, un solo grido: “Basta discorsi, servono fatti!". L'avvenire accusa il passato e convoca Prometeo alla sbarra, dato che domani non sapremo più cos'è un pupazzo di neve, una fonte d'acqua potabile o una spiaggia di sabbia fine. Abbiamo conosciuto l'internazionale della speranza, ora scopriamo l'internazionale dell'angoscia». Tutta colpa di Faust, ovviamente. Per Debray l'era faustiana è quella che va da Petrarca all'uomo sulla luna. Al protagonista terminale di quest'epoca, lo scrittore non fa sconti: «Ha inventato il glifosato, le chatbot, il coniglio fluorescente, il fast food, la maternità surrogata e l'utero artificiale. Un intrepido corridore. Instancabile». Le sue parole d'ordine sono «citius, altius, fortius. Più veloce, più alto, più forte». Il faustiano, lo si capisce, «è un bianco, un uomo indaffarato, un manager a cui piacciono i grafici e le tabelle Excel. È un uomo di città, uno startupper, un uomo di iniziativa e industria». Ma qualcosa è andato storto: «Faust non è solo invecchiato. Ha portato i fuochi dell'antropocene fino al Brasile e alla Groenlandia. Nel peggiore dei casi un incendiario, nella migliore delle ipotesi un irresponsabile. Ignorando il fatto che ciò che stiamo distruggendo distrugge noi stessi, l'inquilino del pianeta che si pensa suo proprietario si trova in un insediamento abusivo, minacciato di sfratto». Questa crisi provoca però una mutazione antropologica: della sinistra occidentale, innanzitutto, e poi di conseguenza del senso comune delle élite mediatiche. La liberazione cambia di significato: «Emanciparsi, ieri, significava affrancarsi dai flagelli naturali, oggi è affrancarsi dal martello pneumatico per sposare la fotosintesi. Abbandoniamo i cantieri per abbracciare gli alberi».Non è solo un cambio dell'agenda, è una mutazione antropologica. Lo studente idealista prende il posto del guerrigliero arrabbiato. Una nuova figura militante si fa largo: «Il rivoluzionario professionista, lo Spartaco su di giri che sognava di abbattere la baracca senza riflettere sul giorno successivo, sembra ora buono per lo psicologo. L'aspirazione generale va verso il soft, il light, il fun. Medicina dolce e tradizionale, indiana o cinese. Meditazione, silenzio, lentezza, spirito zen e piante medicinali».Gli unti dal senso della Storia si riscoprono investiti dalle vibrazioni della Terra. Ma non si tratta solo di una trasformazione interna all'orizzonte attivistico. È tutta la contemporaneità che è investita da cambiamenti epocali e la sensibilità neo ambientalista ne è allo stesso tempo causa ed effetto. Debray ha quindi buon gioco nel raccontare un mondo «in cui i ragazzini, quando hanno 10 anni, non giocano più ai soldatini e quando ne hanno 20 sognano di raggiungere non le Brigate internazionali in Spagna ma i battelli delle Ong nel Mediterraneo». Un mondo «in cui lo Stato, nome maschile, affonda di fronte alla società civile e sogna di acconciarsi da Big Mother votata al care e alle cure per farsi perdonare di chiedere le imposte». Si tratta, lo si vede bene, di un mondo completamente femminilizzato: «L'uomo nuovo va in ufficio in bici ad Amsterdam, fa vasellame a Stoccolma, fa sci di fondo vicino a Helsinki, prende il congedo di paternità a Copenaghen, si immerge nell'acqua gelata a Oslo. A dire il vero, l'uomo nuovo è una donna, capelli corti, tacchi piatti, una capa di governo che fa acquisti al minimarket, pagando il suo cartone di latte pastorizzato con la sua carta di credito personale». La geofilosofia dell'impegno cambia di segno, il polo magnetico della buona coscienza si trasla da Sud a Nord, il rosso acceso della rivoluzione scolora tra i ghiacci della socialdemocrazia inclusiva scandinava: «Il “divenite cinesi, cubani, algerini" di Sartre nel 1960 è precluso. L'ingiunzione, nel 2020, è “divenite lapponi, islandesi, danesi"». L'orizzonte morale, politico, persino ontologico di questo cittadino pensato a misura di mammo islandese è per l'appunto quello neo ecologista. Scrive il pensatore francese: «Per millenni, l'uomo morale si è domandato: “Dove sono io rispetto a Dio?". Poi, a partire dal Rinascimento: “Dove sono io rispetto ai miei congeneri?". E oggi: “Dove sono io rispetto agli animali?". L'occidentale si cercava in cielo; si è poi cercato nei suoi simili; al presente si cerca nello scimpanzé - col rischio di ritrovarvisi».Ecco allora che l'ecoresponsabilità diventa l'ultima epifania religiosa della tarda postmodernità. Il modello, a ben vedere, è esattamente quello. «Non abbiamo forse i nostri sinodi in duplicato - i Cop e gli One planet summitts? Le nostre carte e dichiarazioni solenni in guisa di professioni di fede, senza grandi effetti ma confortanti? I nostri miscredenti, i realisti climatici, e i nostri eretici, gli scettici climatici? Le nostre processioni, le nostre rogazioni urbane con stendardi, salmi e giuramenti? I nostri profeti di sventura, che ci annunciano l'estinzione della specie da qui a 50 anni, e i nostri sublimi sognatori, che ci annunciano una società ecoresponsabile, collaborativa e trasparente? Le nostre cerimonie di voto, con i giuramenti di lealtà presi in gran numero da tutti i candidati alla presidenza senza eccezioni (ognuno di loro chiede la sua parte di aureola)? I nostri praticanti di stretta osservanza, i vegani, e i semplici credenti, modalità carote grattugiata e yogurt bio, ma che non rinunciano alla bistecca frollata, anche se le vacche allevate a soia contribuiscono alla rovina delle risorse vegetali?». E non manca neppure, anche se Debray evita di nominarla, la nostra Bernadette, la pastorella umile che attinge alle radici del sacro in modo più puro dei chierici e dalla fede più integrale: ovviamente Greta Thunberg. Manca solo una cosa, per fare una religione vera e propria: il martirio. Non si rischia nulla, a uscire dalle ecocatacombe. Chiosa, perfido, lo scrittore: «Agli apostoli della causa non mettiamo più le manette, ma sciarpe tricolori. Niente a che vedere con gli spossessati autoctoni e le comunità contadine di Brasile, Guatemala, Colombia, Filippine, che difendono la loro terra a rischio della propria vita, contro l'estrazione sotterranea e la confisca illegale. Questi “senza terra" stanno pagando a caro prezzo la loro lotta contro il rullo compressore del profitto totale ottenuto al costo di dozzine di leader assassinati lo scorso anno dagli scagnozzi del capitale, brasiliani o globali. Questa guerra asimmetrica è ancora una lotta di classe - sfruttatori contro proletari. D'altra parte, e senza voler minimizzare un innegabile spirito di sacrificio, la difesa della Terra con lettere maiuscole non è, nelle nostre metropoli, passibile di procedimento giudiziario».E allora, che fare? Sfruttare il pianeta senza ritegno per fare dispetto ai fricchettoni di Reykjavik? Debray ha in mente una soluzione diversa e l'ha già lasciata trasparire nel suo confronto tra chi lotta per la terra, quella propria, e chi idolatra la Terra, quella di tutti. La soluzione è l'ecologia, sì, ma a partire dal locale. «Nessun terrestre è figlio dell'aria e chi risiede dappertutto non risiede da nessuna parte. Un essere non può crescere né prosperare senza un certo perimetro di vita, e il mammifero al momento ancora ragionevole ma fondamentalmente accasabile che noi siamo non può sopravvivere senza un fuoco e una casa. Rischierebbe di fluttuare in una Terra-patria come in un cappotto troppo grande».
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)
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