La scelta di abbandonare in fretta gli idrocarburi a favore di energie verdi è stata la più dannosa per l’economia europea. Seguita dalla liberalizzazione del sistema, dall’aver convogliato gli acquisti sulla Russia e poi dal graduale rifiuto delle forniture di Mosca.
La scelta di abbandonare in fretta gli idrocarburi a favore di energie verdi è stata la più dannosa per l’economia europea. Seguita dalla liberalizzazione del sistema, dall’aver convogliato gli acquisti sulla Russia e poi dal graduale rifiuto delle forniture di Mosca.Ancora una giornata di passione sui mercati energetici europei. Il Prezzo unico nazionale (Pun) dell’energia elettrica consegnata in Italia nella giornata di oggi è stato fissato al record di 718 euro/MWh, mentre il gas al Ttf con consegna a settembre ha raggiunto il massimo storico a 324 euro/MWh. Ogni giorno il mercato batte il primato precedente, in un crescendo che sembra non avere fine.Le aspettative sulla definitiva chiusura del gasdotto Nord Stream 1, che priverebbe la Germania dell’ultimo spiffero di gas proveniente dalla Russia, sono alla base della corsa in salita dei prezzi, mentre il tetto alle bollette dei cittadini francesi contribuisce allo squilibrio del sistema elettrico transalpino, che vede il parco centrali nucleari fuori servizio per più della metà della capacità.La situazione attuale non è figlia del caso o del destino cinico e baro, ma è frutto di precise scelte politiche compiute a monte. La prima scelta politica è stata quella presa dall’Unione europea di liberalizzare il sistema del gas favorendo l’ascesa di un mercato di dimensioni modeste e facilmente manipolabile (il Ttf olandese), portandolo a riferimento dei prezzi per tutto il continente. Per dare un’idea di quanto sia squilibrato questo mercato consideriamo due numeri. Il contratto per la consegna di gas settembre al Ttf ha chiuso il 24 agosto scorso a un prezzo di 290 euro/MWh. Tale prezzo è stato determinato da 22 scambi fisici di gas avvenuti al Ttf, per il volume irrisorio di 13 milioni di metri cubi. Per lo stesso prodotto, invece, il mercato finanziario dei futures su Ice nello stesso giorno ha mosso 3,12 miliardi di metri cubi, ovvero 240 volte tanto.La seconda scelta europea è stata quella di convogliare gli acquisti di gas per più di metà del proprio fabbisogno presso un unico fornitore, la Russia. Un mercato così concentrato dal lato dell’offerta è suscettibile di squilibri, a prescindere da quale sia il Paese straniero in questione.La terza scelta, contingente, che ha contribuito alla situazione attuale è stata quella di rifiutare gradualmente il gas proveniente dalla Russia, a seguito dell’invasione dell’Ucraina. Che si giudichi questa scelta come una risposta giusta all’invasione o meno, nei fatti i volumi di gas provenienti dalla Russia si sono più che dimezzati e rischiano di azzerarsi. Poiché l’economia europea dipende fortemente dalla presenza abbondante di gas, avere eliminato dal mercato il gas russo senza avere ancora trovato complete alternative ha comportato l’ulteriore esplosione dei prezzi cui stiamo assistendo.Ma la scelta europea più dannosa, che risale a qualche anno fa, è stata l’adesione al Green deal, un’idea secondo la quale il mondo sta per finire e per evitare la catastrofe è necessario abbandonare in fretta gli idrocarburi a favore di energie «verdi». Che l’allarme sul clima sia giustificato o meno, l’obiettivo della decarbonizzazione delle attività umane al 55% in meno di nove anni, come vuole il pacchetto europeo Fitfor55, è quanto di più spropositato si possa immaginare. Soprattutto per un’area che pesa solo per il 9% sul totale delle emissioni di CO2 mondiali.L’Unione europea si distingue per la pervicacia e l’ottusità con cui intende perseguire questo assurdo obiettivo. L’Ue ha inaugurato per prima anni fa un mercato obbligatorio dei permessi di emissione di CO2, che è stato il motore originario dei rincari del prezzo dell’energia nella primavera 2021, un anno prima dell’invasione russa dell’Ucraina. Le quotazioni in quel periodo hanno iniziato ad impennarsi, quando ai mercati è stato chiaro che Bruxelles sarebbe andata avanti nel folle progetto nonostante le evidenze. Il mercato dei permessi di emissione ha infatti un’offerta controllata in costante diminuzione, quindi il prezzo non può che salire, posto che per i soggetti obbligati a quel mercato ridurre le emissioni richiede tempo e corposi investimenti. Lo scopo del mercato è proprio che i permessi ad emettere costino tanto. Infatti il prezzo ha iniziato a correre e dai 37 euro a tonnellata di CO2 del marzo 2021 è arrivato a 98 euro ai primi di febbraio 2022, alimentato dal parallelo mercato dei futures su Ice. Ciò ha avuto un impatto rialzista sui prezzi dell’energia elettrica, per la cui produzione in Italia si usa molto gas e per cui quindi i produttori devono pagare le emissioni. Più in radice, il Green deal ha disincentivato investimenti negli idrocarburi, facendone aumentare i prezzi quando è stato chiaro che l’Europa non poteva ancora minimamente farne a meno. In più, il Green deal ha fatto crescere i corsi di tutte le materie prime necessarie alle catene del valore green, dalle terre rare all’alluminio, dal rame al litio. Senza contare che a controllare gran parte di questi materiali sono la Cina e la Russia, Paesi con i quali oggi i rapporti sono a dir poco tesi. A prescindere dalla vicenda russo-ucraina, per allentare la tensione sui fondamentali dei prezzi energetici è necessario che l’Unione europea chiuda il mercato dei permessi di emissione e fermi la corsa al green deal. Il piano Fitfor55 va messo nel cassetto e forse se ne potrà riparlare tra dieci anni, quando avremo investito sul gas e avremo fatto rigassificatori e gasdotti. Serve un grande piano europeo per l’abbassamento dei prezzi dell’energia che passi dall’abbondanza di offerta di gas, non dalla distruzione della domanda interna, vecchio vizio delle politiche economiche europee.
Il tocco è il copricapo che viene indossato insieme alla toga (Imagoeconomica)
La nuova legge sulla violenza sessuale poggia su presupposti inquietanti: anziché dimostrare gli abusi, sarà l’imputato in aula a dover certificare di aver ricevuto il consenso al rapporto. Muove tutto da un pregiudizio grave: ogni uomo è un molestatore.
Una legge non è mai tanto cattiva da non poter essere peggiorata in via interpretativa. Questo sembra essere il destino al quale, stando a taluni, autorevoli commenti comparsi sulla stampa, appare destinata la legge attualmente in discussione alla Camera dei deputati, recante quella che dovrebbe diventare la nuova formulazione del reato di violenza sessuale, previsto dall’articolo 609 bis del codice penale. Come già illustrato nel precedente articolo comparso sulla Verità del 18 novembre scorso, essa si differenzia dalla precedente formulazione essenzialmente per il fatto che viene ad essere definita e punita come violenza sessuale non più soltanto quella di chi, a fini sessuali, adoperi violenza, minaccia, inganno, o abusi della sua autorità o delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa (come stabilito dall’articolo 609 bis nel testo attualmente vigente), ma anche, ed in primo luogo, quella che consista soltanto nel compimento di atti sessuali «senza il consenso libero e attuale» del partner.
Tampone Covid (iStock)
Stefano Merler in commissione confessa di aver ricevuto dati sul Covid a dicembre del 2019: forse, ammette, serrando prima la Bergamasca avremmo evitato il lockdown nazionale. E incalzato da Claudio Borghi sulle previsioni errate dice: «Le mie erano stime, colpa della stampa».
Zero tituli. Forse proprio zero no, visto il «curriculum ragguardevole» evocato (per carità di patria) dall’onorevole Alberto Bagnai della Lega; ma uno dei piccoli-grandi dettagli usciti dall’audizione di Stefano Merler della Fondazione Bruno Kessler in commissione Covid è che questo custode dei big data, colui che in pandemia ha fornito ai governi di Giuseppe Conte e Mario Draghi le cosiddette «pezze d’appoggio» per poter chiudere il Paese e imporre le misure più draconiane di tutto l’emisfero occidentale, non era un clinico né un epidemiologo, né un accademico di ruolo.
La Marina colombiana ha cominciato il recupero del contenuto della stiva del galeone spagnolo «San José», affondato dagli inglesi nel 1708. Il tesoro sul fondo del mare è stimato in svariati miliardi di dollari, che il governo di Bogotà rivendica. Il video delle operazioni subacquee e la storia della nave.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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Manifestazione ex Ilva (Ansa)
Ok del cdm al decreto che autorizza la società siderurgica a usare i fondi del prestito: 108 milioni per la continuità degli impianti. Altri 20 a sostegno dei 1.550 che evitano la Cig. Lavoratori in protesta: blocchi e occupazioni. Il 28 novembre Adolfo Urso vede i sindacati.
Proteste, manifestazioni, occupazioni di fabbriche, blocchi stradali, annunci di scioperi. La questione ex Ilva surriscalda il primo freddo invernale. Da Genova a Taranto i sindacati dei metalmeccanici hanno organizzato sit-in per chiedere che il governo faccia qualcosa per evitare la chiusura della società. E il Consiglio dei ministri ha dato il via libera al nuovo decreto sull’acciaieria più martoriata d’Italia, che autorizza l’utilizzo dei 108 milioni di euro residui dall’ultimo prestito ponte e stanzia 20 milioni per il 2025 e il 2026.






