2019-07-08
Grano «sovrano». Non è una questione di autarchia, è che noi italiani lo facciamo meglio
Per pasta, pane e pizza, le origini della materia prima contano. C'è chi sostiene che quello straniero sia necessario a coprire tutto il fabbisogno e che i nostri prodotti si tutelino solo aprendo il mercato alla globalizzazione. Un contratto di filiera 100% tricolore, però, mostra che possiamo cavarcela da soli...C'è un settore alimentare nel quale si sta svolgendo una battaglia tricolore molto importante: il grano. In primis per la pasta, poi - aggiungiamo noi - per pane e pizze (come sapete bene, a parte ricette che sono eccezioni, la norma è semola di grano duro per la pasta e farina di grano tenero per i lievitati). A febbraio 2018, sulla scia di quanto avvenuto con il decreto per il latte e i suoi derivati diventato effettivo ad aprile 2017, è entrato in vigore il cosiddetto decreto Grano/pasta, per la precisione il numero 113.552/2017. Esso prevede che sull'etichetta della pasta debbano essere obbligatoriamente esplicitati il «Paese di coltivazione del grano» e il «Paese di molitura» (cioè il luogo nel quale è stata ottenuta la semola di grano duro). Se i grani sono stati coltivati in più Paesi e le semole sono state ottenute in più Paesi, si può indicare «Ue», «non Ue», «Ue e non Ue» e, se il grano è stato coltivato per almeno il 50% in un singolo Paese, si può indicare il «nome del Paese» aggiungendo «e altri Paesi», sempre specificando se siano Ue, non Ue, o «Ue e non Ue». L'obbligo è valido fino al 30 dicembre 2020. Prima, il regolamento Ue 1.169/2011 riconosceva alle aziende agroalimentari la facoltà di indicare volontariamente in etichetta il luogo di provenienza del grano. E molte lo facevano. Ma non tutte. Perché, secondo alcune aziende, presumibilmente anche quelle che hanno anche fatto ricorso al Tar - perdendolo - contro il decreto pasta, ciò che fa il «made in Italy» non è tanto la materia prima, ma è il processo produttivo di mescola dei singoli ingredienti. Cioè una sorta di «saper fare» italiano della pasta che in qualche modo italianizzerebbe anche un grano canadese. Generalmente, gli italiani non la pensano così. Il decreto Pasta nasce, infatti, per accontentare i desiderata della popolazione: «Oltre l'85% degli italiani considera importante conoscere l'origine delle materie prime per questioni legate al rispetto degli standard di sicurezza alimentare, in particolare per la pasta. Sono questi i dati emersi dalla consultazione pubblica online sulla trasparenza delle informazioni in etichetta dei prodotti agroalimentari, svolta sul sito del ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali, a cui hanno partecipato oltre 26.000 cittadini», spiegava il dicastero all'epoca retto da Maurizio Martina. Pare un po' una concessione obtorto collo, perché, negli stessi giorni dell'approvazione del decreto, Martina invia al quotidiano Il Foglio, lo stesso sul quale la settimana scorsa Carlo Calenda ha pubblicato una sorta di manifesto di Siamo europei, intitolato «Rivoluzione immoderata», un intervento dall'esplicito titolo, «Uniamoci contro i protezionisti»... Contro i protezionisti stranieri? No, contro quelli italiani! In esso ribadisce che, dal punto di vista progressista, «il solo modo per proteggere è integrare, il solo modo per tutelare davvero è aprire e regolare». Come dire che «per lasciare liberi bisogna imprigionare», che «per pulire davvero bisogna sporcare». Secondo Martina la globalizzazione non va combattuta ma regolamentata: questo tutelerebbe soprattutto i piccoli produttori. Ma se è così, perché sono proprio i piccoli produttori a lottare per il made in Italy fatto con materia prima italiana e i grandi produttori, magari multinazionali, quelli che invece vogliono accogliere nella loro pasta, italiana per modo di dire, grano canadese o ucraino? Sono proprio i piccoli produttori che hanno riscoperto i grani antichi, per esempio. Sono i piccoli produttori che, contro i colossi industriali della pasta, si ostinano a mantenere il made in Italy per tutta la filiera. E sono sempre i piccoli produttori che stanno dietro una specie di battaglia del grano messa in piedi da Coldiretti. Ma non soltanto.C'è anche la lotta dell'associazione Granosalus, fondata da produttori di grano duro, «produttori in difesa di consumatori». Le cui ragioni riguardo al sovranismo farinaceo non derivano da un'adesione politica leghista, ma da una serie di caratteristiche positive, che il grano italiano ha e quello straniero no, o da caratteristiche negative, mancanti nel grano tricolore e presenti in quello estero. In quell'intervento, Martina attribuisce ai «populisti di casa nostra Lega e grillini» di aver fatto molto rumore per nulla riguardo alla cooperazione straordinaria con la Tunisia sull'importazione senza dazi di olio tunisino. Dimostrando di non capire che, nella partita sul made in Italy è un po' come diceva il maestro Yoda di Guerre stellari a proposito di «fare o non fare, non c'è provare». Non si può combattere l'italian sounding, cioè il finto italiano, all'estero (di questo si vanta Martina e questi sono gli accordi per «integrare proteggendo») e però, al contempo, propinarci una sorta di italian sounding interno rifiutandosi di mettere in condizione gli agricoltori italiani di produrre più grano possibile, a un prezzo giusto e non di sfruttamento, e rendendo meno competitive, sul suolo italiano, le offerte di grano straniero. Perché una pasta fatta con grano non italiano non è molto dissimile da un finto parmigiano. Le recriminazioni di Granosalus, per altro molto simili a quelle di Coldiretti, nonostante talvolta siano in conflitto anche tra di loro, sono esattamente queste e vengono diffuse con una sorta di dodecalogo intitolato Le 12 verità su pasta e grano che i pastifici non ti diranno mai.1 - I grani duri italiani sono i migliori del mondo. 2 - La pasta è italiana se fatta con grano duro italiano. 3 - L'origine italiana del grano è sinonimo di qualità. 4 - La qualità del grano non è determinata dalle proteine alte. 5 - Importiamo grano duro perché gli agricoltori italiani sono obbligati a produrre di meno.6 - Il grano estero che importiamo contiene micotossine e glifosate. 7 - Importiamo grano duro contaminato perché costa meno contiene più glutine. 8 - Il glutine alto serve ad abbassare i costi della pastificazione a danneggia chi consuma. 9 - I pastai italiani distruggono l'agricoltura nazionale. 10 - I contratti di filiera sono una truffa ai danni dell'agricoltura.11 - L'etichetta con le informazioni sui contaminanti informa chi consuma. 12 - Sostenere l'agricoltura vuol dire sostenere l'ambiente e il territorio in cui viviamo. Le ragioni di chi non sta con Granosalus, né con Coldiretti, sono opposte. Le riassume Aidepi (Associazione delle industrie del dolce e della pasta italiane), confluita con Aiipa (Associazione italiana industrie prodotti alimentari) in Unione italiana food da gennaio 2019. Il grano italiano copre soltanto il fabbisogno del 60-70% della produzione a scaffali alimentari sempre pieni. Il restante va per forza importato. Un po' come gli immigrati sui barconi che devono approdare per forza in Italia. Secondo Aidepi, poi, l'Italia ha sempre importato grano straniero e quello della pasta 100% italiana è un mito, il grano estero costa anche più dell'italiano, il grano italiano è troppo poco proteico e la contaminazione da micotossine riguarda sia il grano italiano sia quello straniero e, soprattutto, in caso di partita non a norma non lo si utilizza per la pastificazione. Ma allora perché alcune analisi di pasta in commercio avrebbero dato risultato positivo a micotossine e glifosate? Granosalus ha analizzato perfino pastina per bimbi, alla ricerca degli elementi che non sono indicati in etichetta, come micotossine, metalli pesanti, erbicidi (il glifosate), pesticidi, radioattività. È difficile comprendere da che parte stare, non è un processo e noi non siamo i giudici, ma seppure non ne facessimo una questione di salute, certo appare molto più di buon senso mangiare una pasta con grano 100% italiano, trovandosi in Italia, che non una composta da miscele di frumenti di agricoltura europea o addirittura non europea. Appare molto credibile che il grano canadese, dovendo viaggiare a lungo prima di giungere in Italia, venga raccolto ancora acerbo (seccato con glifosate). Così come è vero che chiedere un grano italiano non vuol dire essere ottusi «trogloditi che osteggiano l'ingrediente estero che viene a rubare il dosaggio - in ricetta - a quello italiano». Queste descrizioni e parodie dei sovranisti alimentari alla Martina sono false e strumentali a non ascoltarne le vere obiezioni al globalismo alimentare contemporaneo, brutalmente ipercapitalistico. Perfino Benito Mussolini, nella nota battaglia del grano, la campagna autarchica principiata nel 1925 che voleva portare l'Italia all'autosufficienza produttiva, selezionando i semi optò - per mano di Nazareno Strampelli - per ibridi italo-stranieri... Il metodo del noto e leggendario agronomo e genetista Nazareno Strampelli consisteva nell'incrociare diverse varietà, e non, com'era tradizione, all'interno della stessa varietà, per ottenere nuove cultivar: il grano Carlotta nacque dall'incrocio tra il Rieti e la varietà francese Massy; l'Ardito era grano Rieti più l'olandese Wilhelmina Tarwe e grano rosso giapponese Akakomugi; il famoso senatore Cappelli origina dall'incrocio di grano italomeridionale con quello di provenienza tunisina Jean Rhetifah. Il punto è che gli incroci di Strambelli erano incroci, sì, ma di buon senso. Del prodotto straniero si «combatteva» la potenzialità concorrenziale nei confronti di quello italiano. «Rubare» proprio al seme straniero la parte che migliorava quello italiano era una perfetta operazione di integrazione o speculazione economica, precedente lo scenario ultracapitalista. Gli incroci di Strampelli miravano a ottenere sementi ibridate ma da coltivare in Italia: diametralmente opposto è abbandonare la coltivazione delle proprie sementi, rassegnarsi o addirittura scegliere di non ampliarla per acquistare poi, magari a prezzi alti, i frutti di quelle sementi straniere concorrenti. È come accettare che gli italiani emigrino per disperazione per poi sostituirli con stranieri la cui accoglienza costa molto di più di quanto sarebbe costato non ridurre gli italiani t alla disperazione. Sacrosanto, poi, è il diritto del consumatore a essere informato e a decidere che tipo di pasta mangiare.Certo è che acquistare pasta realizzata con grano 100% italiano aiuta la nostra economia. Ci mette nello stomaco un prodotto che non ha dovuto attraversare gli oceani. E lancia anche un segnale ai produttori, talvolta - a nostro avviso - troppo pronti a importare ciò che in Italia non ci sarebbe, invece di lottare per farcelo nascere. Non sappiamo dire se abbia ragione Granosalus nel definire i contratti di filiera una truffa ai danni dell'agricoltura, ma nel campo della farina per panificazione, quella di grano tenero, ha fatto parlare - in positivo - Grano nostrum, un contratto di filiera avviato tre anni fa dall'azienda molitoria Molino Caputo con imprese agricole di Campania, Basilicata, Puglia, Molise, Lazio e Toscana. In virtù del contratto le aziende agricole coltivano solo alcune varietà di grano che poi Molino Caputo trasforma in farine per pizzerie, panifici, pasticcerie e prodotti da forno, perché siano, in Italia e fuori, made in Italy al 100%. La farina Grano nostrum comprende sei varietà di grano tenero: Caronte, Ambrogio, Montecarlo, Annibale, Caruso e la Don Carmine. Dopo la selezione delle varietà di grano, si è studiato il miglior adattamento delle varietà ai suoli, valutando le caratteristiche dei terreni e le esposizioni. L'obiettivo è raggiungere la certificazione di sostenibilità ambientale e il Qr code sul singolo pacco di farina per permettere al cliente di risalire al campo, o campi, di coltivazione dei grani. Come vedete, volendo si può fare tutto e di certo Grano nostrum non ci sembra un'iniziativa collegata a Matteo Salvini. Il pizzaiolo napoletano Gino Sorbillo ha detto: «Il brand Caputo è da sempre una garanzia per chi fa il nostro lavoro. Tuttavia dai primi test che ho potuto effettuare con le farine da Grano nostrum, Molino Caputo ha compiuto ancora un passo avanti mettendoci a disposizione un prodotto ancora di grande qualità ma con caratteristiche uniche che ne rivelano lo stretto legame al territorio d'origine». Origine. Una parola da riscoprire.
(Ansa)
L'ad di Cassa Depositi e Prestiti: «Intesa con Confindustria per far crescere le imprese italiane, anche le più piccole e anche all'estero». Presentato il roadshow per illustrare le opportunità di sostegno.
Carlo Nordio, Matteo Piantedosi, Alfredo Mantovano (Ansa)