2018-11-30
Grande retata a Deutsche Bank. L’accusa è di riciclaggio a Panama
Oltre 170 poliziotti perquisiscono le sedi dell'istituto. L'indagine iniziata nel 2016 scaturisce dalle rivelazioni sul paradiso fiscale. Altro colpo all'immagine della banca, che dal 2008 ha dovuto pagare multe per 18 miliardi.L'inchiesta nasce dalle rivelazioni sui paradisi fiscali favorite dagli Stati Uniti di Barack Obama. Berlino non si è messa in riga. A questo si è aggiunta la guerra di Trump al surplus tedesco. Ma il commissario Günther Oettinger insiste: presto dazi Ue contro le automobili Usa.Il blitz aggiunge un altro collegamento tra il colosso e lo scandalo dei soldi sporchi di Danske Bank. Denaro proveniente dalla Russia e diretto anche a politici tedeschi.Lo speciale contiene tre articoliLe prime foto della sede principale di Deutsche Bank a Francoforte emerse ieri mostravano una lunga fila di auto della polizia parcheggiate con le luci lampeggianti accese. Con un blitz, 170 inquirenti della polizia tedesca hanno perquisito le diverse sedi dell'istituto. Il sospetto è che la banca abbia aiutato i clienti a costituire entità offshore in paradisi fiscali, soprattutto le British Virgin Island, e non abbia adeguatamente allertato le autorità sul possibile riciclaggio di denaro.L'indagine, iniziata nell'agosto di quest'anno, si concentra su due impiegati di 50 e 46 anni dell'istituto di credito e «su altri funzionari di cui non è stata resa nota l'identità», ha sottolineato la Procura di Francoforte.«Le misure sono relative a sei uffici fra Francoforte (quartier generale del gruppo, ndr), Eschborn e Gross-Umstadt e coinvolgono un totale di circa 170 funzionari del Bundeskriminalamt, della Guardia di finanza e della polizia federale», ha commentato il procuratore Nadja Niesen che ha spiegato anche che gli inquirenti ieri hanno perquisito la residenza privata di uno dei sospettati. Le indagini riguardano attività avvenute tra il 2013 e il 2018.Dal canto suo, Deutsche Bank ha assicurato piena collaborazione. «Per quanto ci riguarda, abbiamo già fornito alle autorità tutte le informazioni relative ai Panama papers», ha fatto sapere il gruppo. La banca «coopererà strettamente» in questa recente indagine «poiché è anche nostro interesse chiarire i fatti», continua la nota del colosso tedesco.I sospetti della Procura tedesca sono nati infatti dopo aver esaminato con attenzione il contenuto dei Panama papers, il fascicolo composto da 11,5 milioni di documenti confidenziali creato dallo studio legale panamense Mossack Fonseca. Nel dossier sono presenti informazioni dettagliate su oltre 214.000 società offshore, includendo le identità degli azionisti e dei manager. Inoltre, la Procura tedesca avrebbe iniziato a maturare dei sospetti sull'istituto guidato da Christian Sewing anche dopo aver visionato email e documenti segreti emersi con l'inchiesta chiamata Offshore leaks nel quale si fanno i nomi di 130.000 correntisti e 122.000 società di oltre 170 Paesi. D'altronde solo nel 2016, riporta la stampa in Germania citando come fonte il pubblico ministero, oltre 900 clienti con un volume d'affari da 311 milioni di euro sarebbero stati assistiti nel compiere attività illecite da una sede di Deutsche Bank registrata nelle Isole Vergini Britanniche. Ieri il numero uno del gruppo in Italia, Flavio Valeri, contattato a margine di un evento ha risposto «non ne so nulla» a chi gli chiedeva se l'inchiesta in corso in Germania potesse coinvolgere anche l'Italia.Di certo tutto il fragore scatenato dalle indagini non è piaciuto agli investitori in Borsa. Il titolo ieri ha chiuso a 8,3 euro perdendo il 3,4%. Non poco rispetto agli 8,59 della seduta precedente. Anche il prezzo del prestito obbligazionario emesso da Deutsche Bank con scadenza ad aprile 2019 ieri ha toccato il minimo annuale in seguito alle accuse. Sebbene non sia chiaro dove porterà questo filone di indagini, Deutsche Bank si conferma istituto perennemente nell'occhio del ciclone. Dal 2008 ad oggi, ha sborsato, per multe e dispute legali, qualcosa come 18 miliardi di dollari. In Europa, solo Royal Bank of Scotland Group ha fatto peggio, con un esborso di 18,1 miliardi.Un fattore che sta logorando la credibilità del gruppo, che da tempo appare inceppato. Nel terzo trimestre 2018 l'istituto tedesco ha comunicato conti con utili in calo del 65% a 229 milioni, un valore più basso rispetto alle attese degli analisti che stimavano una chiusura del periodo a quota 240 milioni di euro. Per questo il nuovo ceo arrivato ad aprile, Christian Sewing, sta continuando nell'opera di ristrutturazione iniziata dal suo predecessore John Cryan. Un progetto che prevede onerosi tagli del personale e un notevole abbattimento dei costi. In più, secondo indiscrezioni di stampa, Tom Patrick, numero uno di Deutsche Bank negli Usa nominato da Cryan, potrebbe lasciare l'incarico, probabilmente entro fine anno. Del resto, proprio al di là dell'oceano dove il gruppo tedesco è particolarmente esposto, Deutsche Bank ha fallito lo stress test condotto dalla Fed.Ora con tutti questi problemi e queste indagini in corso (di recente ne è emersa un'altra legata a Danske Bank) gli analisti hanno paura che il gruppo possa vacillare ancora di più e la dirigenza sia costretta a tagliare altri posti di lavoro. Gianluca Baldini<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/grande-retata-a-deutsche-bank-laccusa-e-di-riciclaggio-a-panama-2621895147.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="e-un-blitz-figlio-delle-martellate-americane" data-post-id="2621895147" data-published-at="1758145834" data-use-pagination="False"> È un blitz figlio delle martellate americane Giphy La storia dei Panama Papers che oggi serve a colpire con nuovo vigore la prima banca tedesca parte da lontano. Dal 2009, quando la finanza Usa decise, mandando avanti Barack Obama, di abbattere il sistema offshore mondiale. Almeno quello che non garantiva agli Stati Uniti una supremazia più o meno indiscussa. Negli anni successivi, gran parte dei Paesi occidentali, sotto l'ombrello dell'Ocse, ha impugnato le armi (soprattutto quelle della propaganda) per contrastare l'evasione fiscale. Da lì, una lunga serie rivelazioni (a partire da Paradise Papers) gestite da consorzi giornalistici ha raccontato al mondo di documenti riservati con schemi di autoriciclaggio e pulizia di denaro sporco che hanno coinvolto man mano Stati interi, dittatori e grandi banche. Sono nate le liste nere dell'Ocse e dell'Unione europea, ma soprattutto gli Usa hanno imposto a metà mondo (compresa l'Italia di sottoscrivere) il Facta. Un accordo che impone la trasparenza dei conti bancari in una sola direzione. Le altre nazioni rivelano agli Usa i dettagli dei propri conti correnti che riguardano cittadini o aziende americane. Mai il contrario. La guerra serrata ha portato all'eliminazione dei paradisi fiscali. Singapore, Hong Kong e altre isole dei Caraibi hanno capitolato e si sono trasformati in piazze finanziarie specializzate. Ma nel complesso i flussi carsici non sono scomparsi. L'Unctad, associazione Onu che si occupa di scambi e sviluppo, ha diffuso nel 2013 una serie di dati relativi agli investimenti esteri diretti e liquidi verso una serie di Paesi. Le Isole Vergini britanniche - splendido arcipelago a forma di tartaruga, zeppo di spiagge bianche e di trust - hanno attratto nel 2013 denaro per 92 miliardi di dollari posizionandosi al quarto posto nella relativa classifica mondale. Nel 2016 la somma ha superato i 100 miliardi. Tanto? Sì. Basti pensare che l'Italia si è fermata a 29 miliardi di dollari. Al primo posto restano gli Stati Uniti con 159 miliardi, poi Cina con 127. Oltre il 99% dei 92 miliardi sono finiti nei trust e nelle banche che continuano a mantenere quasi totale segretezza per poi fuoriuscire verso altre località. Un discorso simile si può fare anche per Panama, sebbene la cifra sia molto più bassa (circa 5 milairdi). Il che lascia capire che nonostante tutti gli scandali, i flussi di denaro proseguono almeno dove Washington non è contraria. Nel 2011 Tim Geithner, allora Segretario al Tesoro Usa, ammise che a quella data negli Stati Uniti fossero depositate presso conti offshore somme non tassabili (perché si tratta di proventi generati all'estero) per circa 3.000 miliardi di dollari. L'arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca non ha cambiato le carte in tavola, anzi ha rafforzato lo schema. La volontà del tycoon è quella di riportare denaro in Patria e rafforzare i controlli contro chi aiuta la fuga di capitali. Nulla in contrario contro chi sostiene il flusso inverso. In questa guerra Deutsche Bank ci è finita con tutti e due i piedi. È stata un attore fondamentale in passato e ora raccoglie i frutti degli errori e della eventuali illegalità. Non solo perché a oggi ha pagato 18 miliardi di ammende, ma anche per via del filo diretto che ha mantenuto fino all'ultimo minuto con l'istituto danese Danske Bank a sua volta coinvolta in un maxi scandalo da 150 miliardi di euro di riciclaggio. Il fatto che gli inquirenti che ieri hanno perquisito la sede del colosso di Francoforte siano ovviamente tedeschi non deve trarre in inganno. Le evidenze penali, se ci sono, sono state benedette nel 2016 dagli Stati Uniti quando i Panama Papers sono stati diffusi. Sempre loro hanno fatto scoppiare il caso Danske Bank e finché Berlino non capirà che non vale la pena sostenere una guerra commerciale con gli Usa, la Casa Bianca non mollerà la pressione politica. Eppure il messaggio non deve essere chiaro. Visto che ieri il Commissario Ue al bilancio nonché politico tedesco di professione, Günther Oettinger, ha dichiarato di avere un obiettivo: dazi alle auto Usa entro Natale. Non sembra una mossa intelligente quando la prima banca del Paese è in ginocchio e lo scandalo europeo del riciclaggio di denaro (soprattutto rubli) rischia di travolgere più di un partito della maggioranza di Angela Merkel. Claudio Antonelli <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/grande-retata-a-deutsche-bank-laccusa-e-di-riciclaggio-a-panama-2621895147.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="miliardi-di-rubli-inguaiano-listituto" data-post-id="2621895147" data-published-at="1758145834" data-use-pagination="False"> Miliardi di rubli inguaiano l’istituto Per chi ha seguito in questi anni le inchieste per riciclaggio su Danske Bank e Deutsche Bank, quella di ieri è stata la giornata della quadratura del cerchio. Perché se sulla prima banca danese ora è ufficiale l'indagine per riciclaggio, come scritto dalla polizia danese, le perquisizioni nella sede di Francoforte della seconda riportano le lancette indietro di ameno cinque anni, quando iniziò a comparire sui quotidiani il presunto scandalo sulla più grande operazione di riciclaggio di denaro delle ex repubbliche dell'Unione Sovietica. Nel 2014 fu Occrp, Organized crime and corruption reporting project, a parlare per la prima volta dei collegamenti bancari tra le banche russe, la Moldavia e la Lettonia, con il presunto riciclaggio di 20 miliardi di euro. Al centro dell'inchiesta spuntò fuori pure Igor Putin, cugino del presidente e nel board di Rzb Bank. Ma è sempre Occrp nel 2017 a dare seguito a a una nuova inchiesta che questa volta riguarda l'Azerbaigian. Si parlò di Azerbaijani Laundromat, circa 16.000 operazioni bancarie realizzate da società nel Regno Unito ma controllate nei paradisi fiscali (Isole Marshall, Belize e Isole Vergini britanniche), che avrebbero fatto transitare in Europa circa 2,5 miliardi di euro tra il 2012 e 2014. Da dove sarebbero transitati? Dalla filiale estone di Danske Bank. E a chi sarebbero andati questi soldi? A diversi politici - come scritto da Elena Gerebizza, cofondatrice dell'associazione Re:Common - tra cui il tedesco Eduard Lintner, ex parlamentare e sottosegretario di Stato della Csu (alleato della Cdu di Angela Merkel). Fino al 2010, Lintner è stato vicepresidente e membro del Comitato di monitoraggio dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa. L'inchiesta attuale su Danske Bank riguarda altri 8 miliardi di euro sospetti transitati dalla filiale estone, tra il 2007 e il 2015. Quello che è emerso in queste ore è che la stessa Deutsche Bank era a conoscenza di quello che stava facendo la filiale estone di Danske. «Non ci vuole molto per rendere gli investitori della Danske Bank nervosi in questi giorni», ha detto a Bloomberg Mikkel Emil Jensen, analista di Sydbank. «Il raid della Deutsche potrebbe essere collegato a Danske, ma c'è molta incertezza. E sappiamo che c'erano collegamenti tra le transazioni di Deutsche e Danske». Del resto la grande banca danese ha utilizzato Deutsche, Jp Morgan Chase & Co. e Bank of America per convertire fondi sospetti in dollari ed euro. E sempre secondo gli analisti di Bloomberg Intelligence, le tre banche «potrebbero essere soggetti a multe significative da parte delle autorità statunitensi». Ma allo stesso tempo Deutsche «potrebbe essere quella più esposta» perché ha mantenuto con Danske il rapporto più solido in questi anni. Non a caso, proprio una settimana fa la banca tedesca aveva diramato un comunicato dove annunciava di aver chiuso i rapporti con la filiale Estone già nel 2015, per movimento sospetti. Jp Morgan invece aveva deciso di interrompere ogni tipo di collaborazione già nel 2013, perché già sospettava operazioni sospette. Deutsche Bank invece ha continuato tranquillamente a effettuare bonifici in dollari per conto dei clienti della filiale estone di Danske. La domanda che si fanno gli investigatori è per quale motivo Deutsche abbia continuato a operare nonostante già Jp avesse già chiuso i rubinetti. Del resto, l'istituto di credito tedesco era già stato costretto a pagare una multa di 630 milioni di dollari con le autorità di New York per chiudere le accuse di aver riciclato denaro di magnati russi. Secondo le accuse, i dipendenti dell'istituto avevano aiutato ricchi cittadini compaesani di Dimitry Medvedv a spostare il denaro all'estero. Il New York department of financial services impose una sanzione da 425 milioni di dollari, mentre fu di 163 milioni di pound, pari a 204 milioni di dollari, quella comminata dalla Financial conduct authority. Stando al dipartimento Servizi finanziari, i clienti compravano azioni di imprese russe in rubli e la filiale londinese della banca dava poi ordine di rivenderle immediatamente allo stesso prezzo. I proventi venivano registrati da società basate in paradisi fiscali. Lo stesso schema utilizzato con Danske. L'indagine prosegue. E non è detto che possa di nuovo emergere il ruolo degli azeri, impegnati in Italia per il gasdotto Tap. Alessandro Da Rold
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Giancarlo Tancredi (Ansa)