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2025-03-12
Golpe rumeno confermato: Georgescu è fuori
Calin Georgescu (Getty Images)
«Oggi i padroni hanno deciso: niente uguaglianza, niente libertà, niente fraternità per i rumeni. Lunga vita alla Francia e a Bruxelles, lunga vita alla loro colonia chiamata Romania!». Così Calin Georgescu ha commentato la decisione definitiva e vincolante della Corte costituzionale rumena (Ccr): il candidato non può candidarsi alla più alta carica dello Stato. Il vincitore al primo turno delle presidenziali di novembre, con il maggior numero dei voti (23%) e in testa ai sondaggi in vista delle elezioni di maggio, si è visto respingere il ricorso. Altri dodici appelli, presentati da cittadini in suo sostegno, sono stati rigettati. Così le alte toghe hanno affossato definitivamente un processo democratico. Le motivazioni saranno pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale della Romania.
Con misure di sicurezza senza precedenti (gendarmi posizionati perfino davanti alla sala riunioni), ieri pomeriggio la Ccr si era riunita in sessione plenaria per discutere dei 13 ricorsi contro la decisione dell’Ufficio elettorale nazionale di Bucarest (Bec) di respingere la candidatura di Georgescu, perché non avrebbe soddisfatto i requisiti fondamentali per «difendere la democrazia» e le istituzioni statali. Nel suo ricorso, il politico sosteneva invece che compito del Bec è quello di accertare il rispetto delle sole condizioni sostanziali e formali previste dalla legge per le candidature e di registrare coloro che soddisfano tali condizioni e di respingere coloro che non le soddisfano. Ma la Corte ha considerato ogni appello carta straccia. Lo scorso dicembre, aveva annullato le elezioni a 48 ore dal ballottaggio, sulla base di «documenti desegretati» nei quali sarebbero risultate manipolazioni attraverso Tik Tok e un contributo estero di 381.000 euro alla campagna elettorale di Georgescu.
Fuori dal palazzo del Parlamento dove ha sede la Corte costituzionale, centinaia di sostenitori si erano radunati nel pomeriggio di ieri, sventolando bandiere, scandendo il nome del candidato e chiedendo «giustizia» in attesa del verdetto dei giudici. «Recitano preghiere in coro», informavano le agenzie di stampa. Appresa la decisione, erano già un migliaio, si sono alzate grida di protesta: «Ladri, non ci arrenderemo, non torneremo a casa», mentre si intensificavano le misure di sicurezza delle forze di polizia. Martedì mattina la Procura aveva convocato cinque deputati dell’Alleanza per l’unità dei rumeni (Aur) per presunto incitamento alla violenza durante le proteste di domenica sera per la bocciatura della candidatura di Georgescu, che avevano provocato il ferimento di 13 agenti, incendi, auto distrutte e sette arresti. George Simion, leader di Aur, l’aveva definita una «nuova dimostrazione di abuso e intimidazione politica». Dopo aver appreso la pronuncia della Ccr ha reagito duramente in un messaggio su Facebook: «Vergogna! Vergogna! Vergogna! Non ci sconfiggerete! Il popolo rumeno si è già svegliato! E sarà vittorioso!».
Dmitry Peskov, portavoce del presidente russo Vladimir Putin già aveva commentato: «Certo, per essere onesti, qualsiasi elezione organizzata senza di lui (Georgescu, ndr) non avrebbe alcuna legittimità». Aveva sottolineato che il rifiuto di candidarlo alle elezioni presidenziali è una «violazione di tutte le norme della democrazia nel centro dell’Europa» e definito «assurdità» le accuse secondo cui la Russia avrebbe legami con Georgescu.
Ai primi di marzo il Servizio di intelligence estero russo (Svr) aveva dichiarato che dietro la decisione di presentare accuse contro il candidato presidenziale rumeno ci sarebbe la leadership dell’Unione europea. «Secondo i dati disponibili, la burocrazia europea ha dichiarato guerra ai “leader non di sistema” che sostengono apertamente il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e si rifiutano di seguire le istruzioni delle élite liberali al potere nell’Ue», sosteneva in una nota. «La Comunità europea deve prendere posizione sulle elezioni presidenziali in Romania. E assumersene la responsabilità», postava due giorni fa il premier slovacco Robert Fico. «Se il signor Georgescu viene danneggiato semplicemente perché ha un’opinione diversa, deve ricevere protezione europea […] L’unica cosa che la Ce non può fare è restare in silenzio. Altrimenti, si sta creando un pericoloso precedente, in cui, in una libera competizione democratica, sarà possibile rimuovere un candidato vincente semplicemente perché non è in linea a causa delle sue opinioni diverse».
Regime ibrido e posizione strategica. Ecco perché Bucarest è così cruciale
Comprendiamo bene, Calin Georgescu può piacere o meno, ma ciò che è successo e sta succedendo in Romania è davvero grave. Riavvolgiamo per un attimo il nastro. Le elezioni presidenziali in Romania avrebbero dovuto tenersi a novembre 2024, il primo turno, e l’eventuale ballottaggio il mese successivo.
In effetti, il primo turno si è svolto regolarmente e aveva decretato un vantaggio elettorale per Calin Georgescu, sull’altra contendente Elena Lasconi. Ma due giorni prima del ballottaggio, tra l’altro con i seggi aperti all’estero, la Corte costituzionale rumena ha assunto la decisione di annullare le elezioni, che pure aveva validato al primo turno. Il motivo di tale scelta si riassume nell’accusa verso Georgescu di aver utilizzato finanziamenti elettorali non motivati, avanzando il sospetto di averli ricevuti dalla Russia e financo di proporre e organizzare un golpe a favore di Mosca. Qualche settimana fa lo stesso Georgescu è stato arrestato e tenuto in stato di fermo per più di cinque ore per essere poi rilasciato ma con l’obbligo di non lasciare la Romania. Il motivo del fermo è il solito. Tuttavia, in questi mesi non sono emersi fatti nuovi e le stesse accuse formulate contro di lui non hanno ancora trovato riscontro. Mancano le prove e tutto il castello accusatorio appare fragilissimo con motivazioni aleatorie e farlocche. Ora la decisione di non ammettere Georgescu alla competizione elettorale chiude definitivamente il cerchio. Gli accadimenti rumeni sollecitano importanti riflessioni sullo stato della democrazia in quel Paese, ma più in generale anche in Europa.
Ciò che appare chiaro è che un insieme di forze sembrano voler ostacolare l’ascesa alla presidenza di Georgescu. In diverse occasioni Georgescu ha più volte criticato l’azione della Nato, ha posto sotto severa critica la politica europea e affermato a chiare lettere che se fosse stato eletto avrebbe ripensato il ruolo della Romania nel conflitto ucraino indirizzando Bucarest verso una sorta di disimpegno.
Queste sue posizioni hanno allarmato Bruxelles e altri ambienti, i quali probabilmente hanno esercitato fortissime pressioni perché l’eventuale vittoria di Georgescu fosse scongiurata. È da leggere in tale modo l’intervento a gamba tesa della Corte costituzionale rumena. Ricordo che la Corte costituzionale è composta da nove membri: tre nominati dall’attuale presidente uscente Joannis, tre nominati dalla Camera dei deputati e tre dal Senato. È evidente che gli attuali membri sono chiaramente espressione della maggioranza politica rumena attuale.
Non vi è dubbio che la Romania ha assunto nella fase geopolitica attuale uno spazio strategico importantissimo: basti ricordare la presenza di importanti basi militari (Develesu, Mihail Kogalniceanu), oppure che la Romania ha il confine più lungo, anche rispetto alla Polonia, con l’Ucraina, confine dal quale passano i rifornimenti militari. Oppure ancora la Romania si posiziona sull’istmo ideale dell’Europa che lega il Mar Baltico al Mar Nero.
Ma la strategicità di questo Paese e l’esclusione del candidato dalla corsa elettorale non può assolutamente giustificare ciò che è stato fatto con l’annullamento delle elezioni. Le pressioni esercitate dall’Unione europea hanno qualcosa di paradossale. Bruxelles finge di essere silente, nel quadro di un presunto rispetto delle decisioni della Corte costituzionale rumena, ma così facendo mette in mostra il tentativo di un vero e proprio sovvertimento della democrazia europea. L’idea che, se in un Paese vince qualcuno che non piace e si fa di tutto per annullare il responso popolare, tutto ciò conduce solo all’oblio della democrazia.
Il nuovo Global Democracy Index, rilasciato dalla rivista britannica The Economist, definisce oggi la Romania un regime ibrido. L’aggiornamento dello status fatto da uno dei giornali più noti e citati al mondo segue proprio le vicende che riguardano il Paese per le elezioni presidenziali annullate. Il rapporto parla chiaro e denuncia una generale tendenza alla degradazione delle istituzioni democratiche. C’è da immaginare che qualcuno a Bruxelles abbia letto questo rapporto, ma il silenzio che ne è seguito appare colpevole. Il rischio per l’Unione europea è di vendere sé stessa, i suoi valori, fondati sulla democrazia, sulla libertà e sui diritti. E per tale via risultare ai cittadini europei un’entità politica sempre meno credibile.
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Riduci
La Corte costituzionale ha respinto il ricorso del candidato «filorusso» e di 12 cittadini: no alle presidenziali per colui che aveva preso più voti nelle elezioni poi annullate. Duro il suo commento: «I padroni hanno deciso: niente uguaglianza, libertà e fraternità per noi».L’Ue non vuole perdere un Paese con basi militari e un lungo confine con l’Ucraina.Lo speciale contiene due articoli.«Oggi i padroni hanno deciso: niente uguaglianza, niente libertà, niente fraternità per i rumeni. Lunga vita alla Francia e a Bruxelles, lunga vita alla loro colonia chiamata Romania!». Così Calin Georgescu ha commentato la decisione definitiva e vincolante della Corte costituzionale rumena (Ccr): il candidato non può candidarsi alla più alta carica dello Stato. Il vincitore al primo turno delle presidenziali di novembre, con il maggior numero dei voti (23%) e in testa ai sondaggi in vista delle elezioni di maggio, si è visto respingere il ricorso. Altri dodici appelli, presentati da cittadini in suo sostegno, sono stati rigettati. Così le alte toghe hanno affossato definitivamente un processo democratico. Le motivazioni saranno pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale della Romania.Con misure di sicurezza senza precedenti (gendarmi posizionati perfino davanti alla sala riunioni), ieri pomeriggio la Ccr si era riunita in sessione plenaria per discutere dei 13 ricorsi contro la decisione dell’Ufficio elettorale nazionale di Bucarest (Bec) di respingere la candidatura di Georgescu, perché non avrebbe soddisfatto i requisiti fondamentali per «difendere la democrazia» e le istituzioni statali. Nel suo ricorso, il politico sosteneva invece che compito del Bec è quello di accertare il rispetto delle sole condizioni sostanziali e formali previste dalla legge per le candidature e di registrare coloro che soddisfano tali condizioni e di respingere coloro che non le soddisfano. Ma la Corte ha considerato ogni appello carta straccia. Lo scorso dicembre, aveva annullato le elezioni a 48 ore dal ballottaggio, sulla base di «documenti desegretati» nei quali sarebbero risultate manipolazioni attraverso Tik Tok e un contributo estero di 381.000 euro alla campagna elettorale di Georgescu. Fuori dal palazzo del Parlamento dove ha sede la Corte costituzionale, centinaia di sostenitori si erano radunati nel pomeriggio di ieri, sventolando bandiere, scandendo il nome del candidato e chiedendo «giustizia» in attesa del verdetto dei giudici. «Recitano preghiere in coro», informavano le agenzie di stampa. Appresa la decisione, erano già un migliaio, si sono alzate grida di protesta: «Ladri, non ci arrenderemo, non torneremo a casa», mentre si intensificavano le misure di sicurezza delle forze di polizia. Martedì mattina la Procura aveva convocato cinque deputati dell’Alleanza per l’unità dei rumeni (Aur) per presunto incitamento alla violenza durante le proteste di domenica sera per la bocciatura della candidatura di Georgescu, che avevano provocato il ferimento di 13 agenti, incendi, auto distrutte e sette arresti. George Simion, leader di Aur, l’aveva definita una «nuova dimostrazione di abuso e intimidazione politica». Dopo aver appreso la pronuncia della Ccr ha reagito duramente in un messaggio su Facebook: «Vergogna! Vergogna! Vergogna! Non ci sconfiggerete! Il popolo rumeno si è già svegliato! E sarà vittorioso!».Dmitry Peskov, portavoce del presidente russo Vladimir Putin già aveva commentato: «Certo, per essere onesti, qualsiasi elezione organizzata senza di lui (Georgescu, ndr) non avrebbe alcuna legittimità». Aveva sottolineato che il rifiuto di candidarlo alle elezioni presidenziali è una «violazione di tutte le norme della democrazia nel centro dell’Europa» e definito «assurdità» le accuse secondo cui la Russia avrebbe legami con Georgescu.Ai primi di marzo il Servizio di intelligence estero russo (Svr) aveva dichiarato che dietro la decisione di presentare accuse contro il candidato presidenziale rumeno ci sarebbe la leadership dell’Unione europea. «Secondo i dati disponibili, la burocrazia europea ha dichiarato guerra ai “leader non di sistema” che sostengono apertamente il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e si rifiutano di seguire le istruzioni delle élite liberali al potere nell’Ue», sosteneva in una nota. «La Comunità europea deve prendere posizione sulle elezioni presidenziali in Romania. E assumersene la responsabilità», postava due giorni fa il premier slovacco Robert Fico. «Se il signor Georgescu viene danneggiato semplicemente perché ha un’opinione diversa, deve ricevere protezione europea […] L’unica cosa che la Ce non può fare è restare in silenzio. Altrimenti, si sta creando un pericoloso precedente, in cui, in una libera competizione democratica, sarà possibile rimuovere un candidato vincente semplicemente perché non è in linea a causa delle sue opinioni diverse».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/golpe-rumeno-confermato-georgescu-fuori-2671314585.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="regime-ibrido-e-posizione-strategica-ecco-perche-bucarest-e-cosi-cruciale" data-post-id="2671314585" data-published-at="1741784642" data-use-pagination="False"> Regime ibrido e posizione strategica. Ecco perché Bucarest è così cruciale Comprendiamo bene, Calin Georgescu può piacere o meno, ma ciò che è successo e sta succedendo in Romania è davvero grave. Riavvolgiamo per un attimo il nastro. Le elezioni presidenziali in Romania avrebbero dovuto tenersi a novembre 2024, il primo turno, e l’eventuale ballottaggio il mese successivo. In effetti, il primo turno si è svolto regolarmente e aveva decretato un vantaggio elettorale per Calin Georgescu, sull’altra contendente Elena Lasconi. Ma due giorni prima del ballottaggio, tra l’altro con i seggi aperti all’estero, la Corte costituzionale rumena ha assunto la decisione di annullare le elezioni, che pure aveva validato al primo turno. Il motivo di tale scelta si riassume nell’accusa verso Georgescu di aver utilizzato finanziamenti elettorali non motivati, avanzando il sospetto di averli ricevuti dalla Russia e financo di proporre e organizzare un golpe a favore di Mosca. Qualche settimana fa lo stesso Georgescu è stato arrestato e tenuto in stato di fermo per più di cinque ore per essere poi rilasciato ma con l’obbligo di non lasciare la Romania. Il motivo del fermo è il solito. Tuttavia, in questi mesi non sono emersi fatti nuovi e le stesse accuse formulate contro di lui non hanno ancora trovato riscontro. Mancano le prove e tutto il castello accusatorio appare fragilissimo con motivazioni aleatorie e farlocche. Ora la decisione di non ammettere Georgescu alla competizione elettorale chiude definitivamente il cerchio. Gli accadimenti rumeni sollecitano importanti riflessioni sullo stato della democrazia in quel Paese, ma più in generale anche in Europa. Ciò che appare chiaro è che un insieme di forze sembrano voler ostacolare l’ascesa alla presidenza di Georgescu. In diverse occasioni Georgescu ha più volte criticato l’azione della Nato, ha posto sotto severa critica la politica europea e affermato a chiare lettere che se fosse stato eletto avrebbe ripensato il ruolo della Romania nel conflitto ucraino indirizzando Bucarest verso una sorta di disimpegno. Queste sue posizioni hanno allarmato Bruxelles e altri ambienti, i quali probabilmente hanno esercitato fortissime pressioni perché l’eventuale vittoria di Georgescu fosse scongiurata. È da leggere in tale modo l’intervento a gamba tesa della Corte costituzionale rumena. Ricordo che la Corte costituzionale è composta da nove membri: tre nominati dall’attuale presidente uscente Joannis, tre nominati dalla Camera dei deputati e tre dal Senato. È evidente che gli attuali membri sono chiaramente espressione della maggioranza politica rumena attuale. Non vi è dubbio che la Romania ha assunto nella fase geopolitica attuale uno spazio strategico importantissimo: basti ricordare la presenza di importanti basi militari (Develesu, Mihail Kogalniceanu), oppure che la Romania ha il confine più lungo, anche rispetto alla Polonia, con l’Ucraina, confine dal quale passano i rifornimenti militari. Oppure ancora la Romania si posiziona sull’istmo ideale dell’Europa che lega il Mar Baltico al Mar Nero. Ma la strategicità di questo Paese e l’esclusione del candidato dalla corsa elettorale non può assolutamente giustificare ciò che è stato fatto con l’annullamento delle elezioni. Le pressioni esercitate dall’Unione europea hanno qualcosa di paradossale. Bruxelles finge di essere silente, nel quadro di un presunto rispetto delle decisioni della Corte costituzionale rumena, ma così facendo mette in mostra il tentativo di un vero e proprio sovvertimento della democrazia europea. L’idea che, se in un Paese vince qualcuno che non piace e si fa di tutto per annullare il responso popolare, tutto ciò conduce solo all’oblio della democrazia. Il nuovo Global Democracy Index, rilasciato dalla rivista britannica The Economist, definisce oggi la Romania un regime ibrido. L’aggiornamento dello status fatto da uno dei giornali più noti e citati al mondo segue proprio le vicende che riguardano il Paese per le elezioni presidenziali annullate. Il rapporto parla chiaro e denuncia una generale tendenza alla degradazione delle istituzioni democratiche. C’è da immaginare che qualcuno a Bruxelles abbia letto questo rapporto, ma il silenzio che ne è seguito appare colpevole. Il rischio per l’Unione europea è di vendere sé stessa, i suoi valori, fondati sulla democrazia, sulla libertà e sui diritti. E per tale via risultare ai cittadini europei un’entità politica sempre meno credibile.
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Attualmente gli Stati Uniti mantengono 84.000 militari in Europa, dislocati in circa cinquanta basi. I principali snodi si trovano in Germania, Italia e Regno Unito, mentre la Francia non ospita alcuna base americana permanente. Il quartier generale del comando statunitense in Europa è situato a Stoccarda, da dove viene coordinata una forza che, secondo un rapporto del Congresso, risulta «strettamente integrata nelle attività e negli obiettivi della Nato».
Sul piano strategico-nucleare, sei basi Nato, distribuite in cinque Paesi membri – Belgio, Germania, Italia, Paesi Bassi e Turchia – custodiscono circa 100 ordigni nucleari statunitensi. Si tratta delle bombe tattiche B61, concepite esclusivamente per l’impiego da parte di bombardieri o caccia americani o alleati certificati. Dalla sua istituzione nel 1949, con il Trattato di Washington, la Nato è stata il perno della sicurezza americana in Europa, come ricorda il Center for Strategic and International Studies. L’articolo 5 garantisce che un attacco contro uno solo dei membri venga considerato un’aggressione contro tutti, estendendo di fatto l’ombrello militare statunitense all’intero continente.
Questo impianto, rimasto sostanzialmente invariato dalla fine della Seconda guerra mondiale, oggi appare messo in discussione. Il discorso del vicepresidente J.D. Vance alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, i segnali di dialogo tra Donald Trump e Vladimir Putin sull’Ucraina e la diffusione di una dottrina strategica definita «aggressiva» da più capitali europee hanno alimentato il timore di un possibile ridimensionamento dell’impegno americano.
Sul fronte finanziario, Washington ha alzato ulteriormente l’asticella chiedendo agli alleati di destinare il 5% del Pil alla difesa. Un obiettivo giudicato irrealistico nel breve termine dalla maggior parte degli Stati membri. Nel 2014, solo tre Paesi – Stati Uniti, Regno Unito e Grecia – avevano raggiunto la soglia minima del 2%. Oggi 23 Paesi Nato superano quel livello, e 16 di essi lo hanno fatto soltanto dopo il 2022, sotto la spinta del conflitto ucraino. La guerra in Ucraina resta infatti il contesto determinante. La Russia controlla quasi il 20% del territorio ucraino. Già dopo l’annessione della Crimea nel 2014, la Nato aveva rafforzato il fianco orientale schierando quattro gruppi di battaglia nei Paesi baltici (Estonia, Lettonia, Lituania) e in Polonia. Dopo il 24 febbraio 2022, altri quattro battlegroup sono stati dispiegati in Bulgaria, Ungheria, Romania e Slovacchia.
Queste forze contano complessivamente circa 10.000 soldati, tra cui 770 militari francesi – 550 in Romania e 220 in Estonia – e si aggiungono al vasto sistema di basi navali, aeree e terrestri già presenti sul continente. Nonostante questi numeri, la capacità reale dell’Europa rimane limitata. Come osserva Camille Grand, ex vicesegretario generale della Nato, molti eserciti europei, protetti per decenni dall’ombrello americano e frenati da bilanci contenuti, si sono trasformati in «eserciti bonsai»: strutture ridotte, con capacità parziali ma prive di profondità operativa. I dati confermano il quadro: 12 Paesi europei non dispongono di carri armati, mentre 14 Stati non possiedono aerei da combattimento. In molti casi, i mezzi disponibili non sono sufficientemente moderni o pronti all’impiego.
La dipendenza diventa totale nelle capacità strategiche. Intelligence, sorveglianza e ricognizione, così come droni, satelliti, aerei da rifornimento e da trasporto, restano largamente insufficienti senza il supporto statunitense. L’operazione francese in Mali nel 2013 richiese l’intervento di aerei americani per il rifornimento in volo, mentre durante la guerra in Libia nel 2011 le scorte di bombe a guida laser si esaurirono rapidamente. Secondo le stime del Bruegel Institute, riprese da Le Figaro, per garantire una sicurezza credibile senza l’appoggio degli Stati Uniti l’Europa dovrebbe investire almeno 250 miliardi di euro all’anno. Una cifra che fotografa con precisione il divario accumulato e pone una domanda politica inevitabile: il Vecchio Continente è disposto a sostenere un simile sforzo, o continuerà ad affidare la propria difesa a un alleato sempre meno disposto a farsene carico?
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Riduci
(Totaleu)
Lo ha detto il Ministro per gli Affari europei in un’intervista margine degli Ecr Study Days a Roma.
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Ed è quel che ha pensato il gran capo della Fifa, l’imbarazzante Infantino, dopo aver intestato a Trump un neonato riconoscimento Fifa. Solo che stavolta lo show diventa un caso diplomatico e rischia di diventare imbarazzante e difficile da gestire perché, come dicevamo, la partita celebrativa dell’orgoglio Lgbtq+ sarà Egitto contro Iran, due Paesi dove gay, lesbiche e trans finiscono in carcere o addirittura condannate a morte.
Ora, delle due l’una: o censuri chi non si adegua a certe regole oppure imporre le proprie regole diventa ingerenza negli affari altrui. E non si può. Com’è noto il match del 26 giugno a Seattle, una delle città in cui la cultura Lgbtq+ è più radicata, era stata scelto da tempo come pride match, visto che si giocherà di venerdì, alle porte del nel weekend dell’orgoglio gay. Diciamo che la sorte ha deciso di farsi beffa di Infantino e del politically correct. Infatti le due nazioni hanno immediatamente protestato: che c’entriamo noi con queste convenzioni occidentali? Del resto la protesta ha un senso: se nessuno boicotta gli Stati dove l’omosessualità è reato, perché poi dovrebbero partecipare ad un rito occidentale? Per loro la scelta è «inappropriata e politicamente connotata». Così Iran ed Egitto hanno presentato un’obiezione formale, tant’è che Mehdi Taj, presidente della Federcalcio iraniana, ha spiegato la posizione del governo iraniano e della sua federazione: «Sia noi che l’Egitto abbiamo protestato. È stata una decisione irragionevole che sembrava favorire un gruppo particolare. Affronteremo sicuramente la questione». Se le Federcalcio di Iran ed Egitto non hanno intenzione di cedere a una pressione internazionale che ingerisce negli affari interni, nemmeno la Fifa ha intenzione di fare marcia indietro. Secondo Eric Wahl, membro del Pride match advisory committee, «La partita Egitto-Iran a Seattle in giugno capita proprio come pride match, e credo che sia un bene, in realtà. Persone Lgbtq+ esistono ovunque. Qui a Seattle tutti sono liberi di essere se stessi». Certo, lì a Seattle sarà così ma il rischio che la Fifa non considera è quello di esporre gli atleti egiziani e soprattutto iraniani a ritorsioni interne. Andremo al Var? Meglio di no, perché altrimenti dovremmo rivedere certi errori macroscopici su altri diritti dei quali nessun pride si era occupato organizzando partite ad hoc. Per esempio sui diritti dei lavoratori; eppure non pochi operai nei cantieri degli stadi ci hanno lasciato le penne. Ma evidentemente la fretta di rispettare i tempi di consegna fa chiudere entrambi gli occhi. Oppure degli operai non importa nulla. E qui tutto il mondo è Paese.
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Riduci