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2025-03-12
Golpe rumeno confermato: Georgescu è fuori
Calin Georgescu (Getty Images)
«Oggi i padroni hanno deciso: niente uguaglianza, niente libertà, niente fraternità per i rumeni. Lunga vita alla Francia e a Bruxelles, lunga vita alla loro colonia chiamata Romania!». Così Calin Georgescu ha commentato la decisione definitiva e vincolante della Corte costituzionale rumena (Ccr): il candidato non può candidarsi alla più alta carica dello Stato. Il vincitore al primo turno delle presidenziali di novembre, con il maggior numero dei voti (23%) e in testa ai sondaggi in vista delle elezioni di maggio, si è visto respingere il ricorso. Altri dodici appelli, presentati da cittadini in suo sostegno, sono stati rigettati. Così le alte toghe hanno affossato definitivamente un processo democratico. Le motivazioni saranno pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale della Romania.
Con misure di sicurezza senza precedenti (gendarmi posizionati perfino davanti alla sala riunioni), ieri pomeriggio la Ccr si era riunita in sessione plenaria per discutere dei 13 ricorsi contro la decisione dell’Ufficio elettorale nazionale di Bucarest (Bec) di respingere la candidatura di Georgescu, perché non avrebbe soddisfatto i requisiti fondamentali per «difendere la democrazia» e le istituzioni statali. Nel suo ricorso, il politico sosteneva invece che compito del Bec è quello di accertare il rispetto delle sole condizioni sostanziali e formali previste dalla legge per le candidature e di registrare coloro che soddisfano tali condizioni e di respingere coloro che non le soddisfano. Ma la Corte ha considerato ogni appello carta straccia. Lo scorso dicembre, aveva annullato le elezioni a 48 ore dal ballottaggio, sulla base di «documenti desegretati» nei quali sarebbero risultate manipolazioni attraverso Tik Tok e un contributo estero di 381.000 euro alla campagna elettorale di Georgescu.
Fuori dal palazzo del Parlamento dove ha sede la Corte costituzionale, centinaia di sostenitori si erano radunati nel pomeriggio di ieri, sventolando bandiere, scandendo il nome del candidato e chiedendo «giustizia» in attesa del verdetto dei giudici. «Recitano preghiere in coro», informavano le agenzie di stampa. Appresa la decisione, erano già un migliaio, si sono alzate grida di protesta: «Ladri, non ci arrenderemo, non torneremo a casa», mentre si intensificavano le misure di sicurezza delle forze di polizia. Martedì mattina la Procura aveva convocato cinque deputati dell’Alleanza per l’unità dei rumeni (Aur) per presunto incitamento alla violenza durante le proteste di domenica sera per la bocciatura della candidatura di Georgescu, che avevano provocato il ferimento di 13 agenti, incendi, auto distrutte e sette arresti. George Simion, leader di Aur, l’aveva definita una «nuova dimostrazione di abuso e intimidazione politica». Dopo aver appreso la pronuncia della Ccr ha reagito duramente in un messaggio su Facebook: «Vergogna! Vergogna! Vergogna! Non ci sconfiggerete! Il popolo rumeno si è già svegliato! E sarà vittorioso!».
Dmitry Peskov, portavoce del presidente russo Vladimir Putin già aveva commentato: «Certo, per essere onesti, qualsiasi elezione organizzata senza di lui (Georgescu, ndr) non avrebbe alcuna legittimità». Aveva sottolineato che il rifiuto di candidarlo alle elezioni presidenziali è una «violazione di tutte le norme della democrazia nel centro dell’Europa» e definito «assurdità» le accuse secondo cui la Russia avrebbe legami con Georgescu.
Ai primi di marzo il Servizio di intelligence estero russo (Svr) aveva dichiarato che dietro la decisione di presentare accuse contro il candidato presidenziale rumeno ci sarebbe la leadership dell’Unione europea. «Secondo i dati disponibili, la burocrazia europea ha dichiarato guerra ai “leader non di sistema” che sostengono apertamente il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e si rifiutano di seguire le istruzioni delle élite liberali al potere nell’Ue», sosteneva in una nota. «La Comunità europea deve prendere posizione sulle elezioni presidenziali in Romania. E assumersene la responsabilità», postava due giorni fa il premier slovacco Robert Fico. «Se il signor Georgescu viene danneggiato semplicemente perché ha un’opinione diversa, deve ricevere protezione europea […] L’unica cosa che la Ce non può fare è restare in silenzio. Altrimenti, si sta creando un pericoloso precedente, in cui, in una libera competizione democratica, sarà possibile rimuovere un candidato vincente semplicemente perché non è in linea a causa delle sue opinioni diverse».
Regime ibrido e posizione strategica. Ecco perché Bucarest è così cruciale
Comprendiamo bene, Calin Georgescu può piacere o meno, ma ciò che è successo e sta succedendo in Romania è davvero grave. Riavvolgiamo per un attimo il nastro. Le elezioni presidenziali in Romania avrebbero dovuto tenersi a novembre 2024, il primo turno, e l’eventuale ballottaggio il mese successivo.
In effetti, il primo turno si è svolto regolarmente e aveva decretato un vantaggio elettorale per Calin Georgescu, sull’altra contendente Elena Lasconi. Ma due giorni prima del ballottaggio, tra l’altro con i seggi aperti all’estero, la Corte costituzionale rumena ha assunto la decisione di annullare le elezioni, che pure aveva validato al primo turno. Il motivo di tale scelta si riassume nell’accusa verso Georgescu di aver utilizzato finanziamenti elettorali non motivati, avanzando il sospetto di averli ricevuti dalla Russia e financo di proporre e organizzare un golpe a favore di Mosca. Qualche settimana fa lo stesso Georgescu è stato arrestato e tenuto in stato di fermo per più di cinque ore per essere poi rilasciato ma con l’obbligo di non lasciare la Romania. Il motivo del fermo è il solito. Tuttavia, in questi mesi non sono emersi fatti nuovi e le stesse accuse formulate contro di lui non hanno ancora trovato riscontro. Mancano le prove e tutto il castello accusatorio appare fragilissimo con motivazioni aleatorie e farlocche. Ora la decisione di non ammettere Georgescu alla competizione elettorale chiude definitivamente il cerchio. Gli accadimenti rumeni sollecitano importanti riflessioni sullo stato della democrazia in quel Paese, ma più in generale anche in Europa.
Ciò che appare chiaro è che un insieme di forze sembrano voler ostacolare l’ascesa alla presidenza di Georgescu. In diverse occasioni Georgescu ha più volte criticato l’azione della Nato, ha posto sotto severa critica la politica europea e affermato a chiare lettere che se fosse stato eletto avrebbe ripensato il ruolo della Romania nel conflitto ucraino indirizzando Bucarest verso una sorta di disimpegno.
Queste sue posizioni hanno allarmato Bruxelles e altri ambienti, i quali probabilmente hanno esercitato fortissime pressioni perché l’eventuale vittoria di Georgescu fosse scongiurata. È da leggere in tale modo l’intervento a gamba tesa della Corte costituzionale rumena. Ricordo che la Corte costituzionale è composta da nove membri: tre nominati dall’attuale presidente uscente Joannis, tre nominati dalla Camera dei deputati e tre dal Senato. È evidente che gli attuali membri sono chiaramente espressione della maggioranza politica rumena attuale.
Non vi è dubbio che la Romania ha assunto nella fase geopolitica attuale uno spazio strategico importantissimo: basti ricordare la presenza di importanti basi militari (Develesu, Mihail Kogalniceanu), oppure che la Romania ha il confine più lungo, anche rispetto alla Polonia, con l’Ucraina, confine dal quale passano i rifornimenti militari. Oppure ancora la Romania si posiziona sull’istmo ideale dell’Europa che lega il Mar Baltico al Mar Nero.
Ma la strategicità di questo Paese e l’esclusione del candidato dalla corsa elettorale non può assolutamente giustificare ciò che è stato fatto con l’annullamento delle elezioni. Le pressioni esercitate dall’Unione europea hanno qualcosa di paradossale. Bruxelles finge di essere silente, nel quadro di un presunto rispetto delle decisioni della Corte costituzionale rumena, ma così facendo mette in mostra il tentativo di un vero e proprio sovvertimento della democrazia europea. L’idea che, se in un Paese vince qualcuno che non piace e si fa di tutto per annullare il responso popolare, tutto ciò conduce solo all’oblio della democrazia.
Il nuovo Global Democracy Index, rilasciato dalla rivista britannica The Economist, definisce oggi la Romania un regime ibrido. L’aggiornamento dello status fatto da uno dei giornali più noti e citati al mondo segue proprio le vicende che riguardano il Paese per le elezioni presidenziali annullate. Il rapporto parla chiaro e denuncia una generale tendenza alla degradazione delle istituzioni democratiche. C’è da immaginare che qualcuno a Bruxelles abbia letto questo rapporto, ma il silenzio che ne è seguito appare colpevole. Il rischio per l’Unione europea è di vendere sé stessa, i suoi valori, fondati sulla democrazia, sulla libertà e sui diritti. E per tale via risultare ai cittadini europei un’entità politica sempre meno credibile.
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La Corte costituzionale ha respinto il ricorso del candidato «filorusso» e di 12 cittadini: no alle presidenziali per colui che aveva preso più voti nelle elezioni poi annullate. Duro il suo commento: «I padroni hanno deciso: niente uguaglianza, libertà e fraternità per noi».L’Ue non vuole perdere un Paese con basi militari e un lungo confine con l’Ucraina.Lo speciale contiene due articoli.«Oggi i padroni hanno deciso: niente uguaglianza, niente libertà, niente fraternità per i rumeni. Lunga vita alla Francia e a Bruxelles, lunga vita alla loro colonia chiamata Romania!». Così Calin Georgescu ha commentato la decisione definitiva e vincolante della Corte costituzionale rumena (Ccr): il candidato non può candidarsi alla più alta carica dello Stato. Il vincitore al primo turno delle presidenziali di novembre, con il maggior numero dei voti (23%) e in testa ai sondaggi in vista delle elezioni di maggio, si è visto respingere il ricorso. Altri dodici appelli, presentati da cittadini in suo sostegno, sono stati rigettati. Così le alte toghe hanno affossato definitivamente un processo democratico. Le motivazioni saranno pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale della Romania.Con misure di sicurezza senza precedenti (gendarmi posizionati perfino davanti alla sala riunioni), ieri pomeriggio la Ccr si era riunita in sessione plenaria per discutere dei 13 ricorsi contro la decisione dell’Ufficio elettorale nazionale di Bucarest (Bec) di respingere la candidatura di Georgescu, perché non avrebbe soddisfatto i requisiti fondamentali per «difendere la democrazia» e le istituzioni statali. Nel suo ricorso, il politico sosteneva invece che compito del Bec è quello di accertare il rispetto delle sole condizioni sostanziali e formali previste dalla legge per le candidature e di registrare coloro che soddisfano tali condizioni e di respingere coloro che non le soddisfano. Ma la Corte ha considerato ogni appello carta straccia. Lo scorso dicembre, aveva annullato le elezioni a 48 ore dal ballottaggio, sulla base di «documenti desegretati» nei quali sarebbero risultate manipolazioni attraverso Tik Tok e un contributo estero di 381.000 euro alla campagna elettorale di Georgescu. Fuori dal palazzo del Parlamento dove ha sede la Corte costituzionale, centinaia di sostenitori si erano radunati nel pomeriggio di ieri, sventolando bandiere, scandendo il nome del candidato e chiedendo «giustizia» in attesa del verdetto dei giudici. «Recitano preghiere in coro», informavano le agenzie di stampa. Appresa la decisione, erano già un migliaio, si sono alzate grida di protesta: «Ladri, non ci arrenderemo, non torneremo a casa», mentre si intensificavano le misure di sicurezza delle forze di polizia. Martedì mattina la Procura aveva convocato cinque deputati dell’Alleanza per l’unità dei rumeni (Aur) per presunto incitamento alla violenza durante le proteste di domenica sera per la bocciatura della candidatura di Georgescu, che avevano provocato il ferimento di 13 agenti, incendi, auto distrutte e sette arresti. George Simion, leader di Aur, l’aveva definita una «nuova dimostrazione di abuso e intimidazione politica». Dopo aver appreso la pronuncia della Ccr ha reagito duramente in un messaggio su Facebook: «Vergogna! Vergogna! Vergogna! Non ci sconfiggerete! Il popolo rumeno si è già svegliato! E sarà vittorioso!».Dmitry Peskov, portavoce del presidente russo Vladimir Putin già aveva commentato: «Certo, per essere onesti, qualsiasi elezione organizzata senza di lui (Georgescu, ndr) non avrebbe alcuna legittimità». Aveva sottolineato che il rifiuto di candidarlo alle elezioni presidenziali è una «violazione di tutte le norme della democrazia nel centro dell’Europa» e definito «assurdità» le accuse secondo cui la Russia avrebbe legami con Georgescu.Ai primi di marzo il Servizio di intelligence estero russo (Svr) aveva dichiarato che dietro la decisione di presentare accuse contro il candidato presidenziale rumeno ci sarebbe la leadership dell’Unione europea. «Secondo i dati disponibili, la burocrazia europea ha dichiarato guerra ai “leader non di sistema” che sostengono apertamente il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e si rifiutano di seguire le istruzioni delle élite liberali al potere nell’Ue», sosteneva in una nota. «La Comunità europea deve prendere posizione sulle elezioni presidenziali in Romania. E assumersene la responsabilità», postava due giorni fa il premier slovacco Robert Fico. «Se il signor Georgescu viene danneggiato semplicemente perché ha un’opinione diversa, deve ricevere protezione europea […] L’unica cosa che la Ce non può fare è restare in silenzio. Altrimenti, si sta creando un pericoloso precedente, in cui, in una libera competizione democratica, sarà possibile rimuovere un candidato vincente semplicemente perché non è in linea a causa delle sue opinioni diverse».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/golpe-rumeno-confermato-georgescu-fuori-2671314585.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="regime-ibrido-e-posizione-strategica-ecco-perche-bucarest-e-cosi-cruciale" data-post-id="2671314585" data-published-at="1741784642" data-use-pagination="False"> Regime ibrido e posizione strategica. 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Qualche settimana fa lo stesso Georgescu è stato arrestato e tenuto in stato di fermo per più di cinque ore per essere poi rilasciato ma con l’obbligo di non lasciare la Romania. Il motivo del fermo è il solito. Tuttavia, in questi mesi non sono emersi fatti nuovi e le stesse accuse formulate contro di lui non hanno ancora trovato riscontro. Mancano le prove e tutto il castello accusatorio appare fragilissimo con motivazioni aleatorie e farlocche. Ora la decisione di non ammettere Georgescu alla competizione elettorale chiude definitivamente il cerchio. Gli accadimenti rumeni sollecitano importanti riflessioni sullo stato della democrazia in quel Paese, ma più in generale anche in Europa. Ciò che appare chiaro è che un insieme di forze sembrano voler ostacolare l’ascesa alla presidenza di Georgescu. In diverse occasioni Georgescu ha più volte criticato l’azione della Nato, ha posto sotto severa critica la politica europea e affermato a chiare lettere che se fosse stato eletto avrebbe ripensato il ruolo della Romania nel conflitto ucraino indirizzando Bucarest verso una sorta di disimpegno. Queste sue posizioni hanno allarmato Bruxelles e altri ambienti, i quali probabilmente hanno esercitato fortissime pressioni perché l’eventuale vittoria di Georgescu fosse scongiurata. È da leggere in tale modo l’intervento a gamba tesa della Corte costituzionale rumena. Ricordo che la Corte costituzionale è composta da nove membri: tre nominati dall’attuale presidente uscente Joannis, tre nominati dalla Camera dei deputati e tre dal Senato. È evidente che gli attuali membri sono chiaramente espressione della maggioranza politica rumena attuale. Non vi è dubbio che la Romania ha assunto nella fase geopolitica attuale uno spazio strategico importantissimo: basti ricordare la presenza di importanti basi militari (Develesu, Mihail Kogalniceanu), oppure che la Romania ha il confine più lungo, anche rispetto alla Polonia, con l’Ucraina, confine dal quale passano i rifornimenti militari. Oppure ancora la Romania si posiziona sull’istmo ideale dell’Europa che lega il Mar Baltico al Mar Nero. Ma la strategicità di questo Paese e l’esclusione del candidato dalla corsa elettorale non può assolutamente giustificare ciò che è stato fatto con l’annullamento delle elezioni. Le pressioni esercitate dall’Unione europea hanno qualcosa di paradossale. Bruxelles finge di essere silente, nel quadro di un presunto rispetto delle decisioni della Corte costituzionale rumena, ma così facendo mette in mostra il tentativo di un vero e proprio sovvertimento della democrazia europea. L’idea che, se in un Paese vince qualcuno che non piace e si fa di tutto per annullare il responso popolare, tutto ciò conduce solo all’oblio della democrazia. Il nuovo Global Democracy Index, rilasciato dalla rivista britannica The Economist, definisce oggi la Romania un regime ibrido. L’aggiornamento dello status fatto da uno dei giornali più noti e citati al mondo segue proprio le vicende che riguardano il Paese per le elezioni presidenziali annullate. Il rapporto parla chiaro e denuncia una generale tendenza alla degradazione delle istituzioni democratiche. C’è da immaginare che qualcuno a Bruxelles abbia letto questo rapporto, ma il silenzio che ne è seguito appare colpevole. Il rischio per l’Unione europea è di vendere sé stessa, i suoi valori, fondati sulla democrazia, sulla libertà e sui diritti. E per tale via risultare ai cittadini europei un’entità politica sempre meno credibile.
MR. BRAINWASH, Banksy thrower, opera unica su carta, 2022
Contrariamente a quanto si possa pensare, la street art, così straordinariamente attuale e rivoluzionaria, affonda le sue radici negli albori della storia: si può dire che parta dalle incisioni rupestri (i graffiti primitivi sono temi ricorrenti in molti street artist contemporanei) e millenni dopo, passando per le pitture murali medievali, i murales politici del dopoguerra e il « muralismo » messicano di Diego Rivera, José Clemente Orozco e David Alfaro Siqueiros, approdi nella New York ( o meglio, nel suo sottosuolo…) di fine anni ’60, dove tag, firme e strani simboli si moltiplicano sui treni e sui muri delle metropolitane, espressione di quella nuova forma d’arte che prende il nome di writing, quell’arte urbana che è la «parente più prossima » della street art, meno simbolica e più figurativa.
E quando si parla di street art, il primo nome che viene in mente è in assoluto quello di Banksy, la figura più enigmatica della scena artistica contemporanea, che ha fatto del mistero la sua cifra espressiva. Banksy è «l‘ artista che non c’è » ma che lascia ovunque il segno del suo passaggio, con una comunicazione che si muove con intelligenza tra arte e media: i suoi profili social sono il primo canale di diffusione e le sue opere, spesso realizzate con stencil (una maschera normografica su cui viene applicata una vernice, così da ottenere un'immagine sullo spazio retrostante), sono interventi rapidi nello spazio urbano, capaci di coniugare arte e messaggio politico. Quella di Bansky è un’arte clandestina, quasi abusiva, fulminea, che compare dal nulla un po’ovunque, in primis sui grandi scenari di guerra, dal muro che divide Israele e Palestina ai palazzi bombardati in Ucraina. Le sue immagini, dall’iconica Balloon Girl (la ragazzina con un palloncino rosso a forma di cuore) ai soldati che disegnano il segno della pace, dai bambini con maschere antigas, alle ragazzine che abbracciano armi da guerra, sono ironiche e dissacranti, a volte disturbanti, ma lanciano sempre messaggi politici e chiare invettive contro i potenti del mondo.
Ed è proprio il misterioso artista (forse) di Bristol il fulcro della mostra a Conegliano, curata da Daniel Buso e organizzata da ARTIKA in collaborazione con Deodato Arte e la suggestiva cittadina veneta.
La Mostra, Keith Haring e Obey
Ricca di 80 opere, con focus sulla figura di Bansky ( particolarmente significativa la sua Kids on Guns, un'opera del 2013 che rappresenta due bambini stilizzati in cima a una montagna di armi, simbolo della lotta contro la violenza), la mostra si articola attorno a quattro grandi temi - ribellione, pacifismo, consumismo e critica al sistema – ed ospita, oltre all’enigmatico artista britannico, altri due guru della street art: Keith Haring e Shepard Fairey, in arte Obey.
Convinto che «l’arte non è un’attività elitaria riservata all’apprezzamento di pochi: l’arte è per tutti e questo è il fine a cui voglio lavorare» Haring (morto prematuramente nel 1990, a soli 32 anni, stroncato dall’AIDS) ha creato un nuovo linguaggio comunicativo caratterizzato da tematiche legate alla politica e alla società, facendo degli omini stilizzati e del segno grafico nero i suoi tratti distintivi; Fairey, in arte Obey, attualmente uno degli street artist più importanti ( e discussi) al mondo, si è fin da subito reso conto di come la società in cui è nato e cresciuto lo abbia condotto all’obbedienza senza che lui se ne rendesse conto: da qui la scelta di chiamarsi Obey , che significa obbedire.
Bansky, Haring , Obey, praticamente la storia della street art racchiusa in una mostra che non è solo un'esposizione di opere d'arte, ma anche un'occasione per riflettere sulle contraddizioni di questo oramai popolarissimo movimento artistico e sul suo ruolo nella società contemporanea. Alla domanda se un’arte nata per contestare il sistema possa oggi essere esposta nei musei, venduta all’asta e diventare oggetto di mercato, non vengono offerte risposte, ma contributi per stimolare una riflessione personale in ogni visitatore. Perché, in fondo, anche questa è la forza della Street Art: porre questioni più che dare certezze...
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Da sx in alto: americani della 92ª Divisione, alpini della Divisione «Monterosa», paracadutisti tedeschi e la frazione di Sommocolonia oggi. Garfagnana, 26 dicembre 1944
La battaglia della Garfagnana, nota come Operazione «Wintergewitter» (tempesta invernale) fu l’ultima controffensiva delle forze dell’Asse sul fronte italiano. Iniziò la notte tra Natale e Santo Stefano del 1944 per terminare tre giorni più tardi. L’obiettivo, pur presentando scarse se non nulle possibilità di raggiungerlo, era quello di arrestare l’avanzata alleata lungo il fronte della linea Gotica allora in stallo per l’inverno rallentando l’avanzata degli angloamericani che puntavano verso Bologna e la Pianura Padana. Il teatro delle operazioni fu la valle del Serchio nella Garfagnana, in provincia di Lucca, dove gli americani del 92° Infantry Regiment, i famosi «Buffalo Soldiers» a maggioranza afroamericana, si erano acquartierati nei giorni precedenti al Natale, ritenendo le ostilità in pausa. L’effetto sorpresa era proprio il punto cardine dell’operazione pianificata dal comando tedesco guidato dal generale Otto Fretter-Pico. Le forze dell’Asse consistevano sostanzialmente di reparti da montagna, i «Gebirgsjaeger» tedeschi e gli alpini italiani della Divisione «Monterosa», uno dei primi reparti addestrati in Germania dopo la nascita della Repubblica Sociale. L’attacco fu fissato per la mezzanotte, tra il 25 e il 26 dicembre e procedette speditamente. I reparti speciali tedeschi e gli alpini iniziarono una manovra di accerchiamento da Montebono per Bobbio, Tiglio e Pian di Coreglia, mentre un reparto leggero prendeva in poche ore Sommocolonia. Contemporaneamente tutti i reparti si muovono, compreso un nucleo del Battaglione «San Marco», che in poco tempo occupava Molazzana. Entro la sera di Santo Stefano la linea dei Buffalo Soldiers era sfondata, mentre i reparti americani arretravano in massa. I prigionieri erano circa 250, mentre numerose armi e munizioni venivano requisite. Anche vettovaglie e generi di conforto cadevano nelle mani degli attaccanti.
Gli americani praticamente non reagirono, ma si spostarono in massa verso la linea difensiva di Bagni di Lucca. Per un breve tempo sembrò (soprattutto agli italiani, mentre i tedeschi sembravano paghi della riuscita sorpresa) che il fronte potesse cedere fino in Versilia e verso Livorno. L’ordine di Fretter-Pico di arrestare l’avanzata fu una doccia fredda. Le ragioni dell'arresto risiedevano principalmente nella difficoltà di mantenere le posizioni, la scarsità ormai cronica di uomini e munizioni (c’era solo l’artiglieria, nessun carro armato e soprattutto nessun supporto dall’Aviazione, praticamente sparita dai cieli del Nord Italia). Gli americani invece avevano il dominio assoluto del cielo, con i cacciabombardieri che potevano decollare dai vicini aeroporti della Toscana occupata, come quelli di Grosseto e Rosignano. Tra il 27 e il 30 dicembre 1944 i P-47 Thunderbolt dell’Usaf bombardarono a tappeto, mietendo vittime soprattutto tra la popolazione civile. La linea difensiva dell’Asse ritornò nei giorni successivi alle posizioni di partenza, mentre il fronte si assestava fino all’inizio del febbraio 1945 quando gli alleati lanciarono l’operazione «Fourth Term», che portò in pochi giorni alla conquista della Garfagnana. Durante l’operazione «Wintergewitter» lo scontro più violento si verificò nell’abitato di Sommocolonia dove la guarnigione americana perse quasi tutti gli uomini, compreso il proprio comandante tenente John R. Fox che, vistosi ormai circondato dai tedeschi, chiese all’artiglieria della 92ª di sparare sull’abitato nel tentativo disperato di rallentare l’attacco a sorpresa. Morì sotto le macerie della sua postazione e solamente nel 1997 fu insignito della medaglia d’onore.
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Lee Raybon avrebbe ambizioni da detective. Non da investigatore tout court. Piuttosto, vorrebbe essere un reporter, di quelli capaci - forti solo delle proprie risorse - di portare a termine indagini e inchieste, di dar forma alle notizie prima ancora che queste vengano diffuse dalle autorità competenti.
L'ambizione, tuttavia, è rimasta tale, nel corso di un'esistenza che ha costretto Raybon a ripiegare su altro per il mero sostentamento. Si è reinventato libraio, Lee Raybon, gestendo di giorno un negozio di libri rari. La notte, però, ha continuato a seguire il cuore, dando spazio alle sue indagini scalcagnate. Qualcuna è riuscito a trasformarla in articolo di giornale, venendola alle pagine di cronaca locale di Tulsa, città che ospita il racconto. E sono i pezzi ritagliati, insieme ai libri ormai giallognoli, ad affollare l'apportamento di Raybon, che la moglie ha mollato su due piedi, quando ben ha realizzato che non ci sarebbe stato spazio per altro nella vita di quell'uomo. Raybon, dunque, è rimasto solo. Non solo come il crime, per lo più, ha raccontato i suoi detective. Non è, cioè, una solitudine disperata, quella di Raybon. Non c'è tristezza né emarginazione. C'è passione, invece: quella per un mestiere cui anche la figlia dell'uomo sembra guardare con grande interesse.
Francis, benché quattordicenne, ha sviluppato per il secondo mestiere del padre una curiosità quasi morbosa, in nome della quale ha cominciato a seguirlo in ogni dove, partecipando lei pure alle indagini. Cosa, questa, che si ostina a fare anche quando la situazione diventa insolitamente complicata. Lee Raybon ha messo nel mirino i Washberg, una tra le famiglie più potenti di Tulsa. Ma uno di loro, Dale, si è tolto la vita, quando l'articolo di Raybon sulle faccende losche della dinastia è stato pubblicato su carta. Perché, però? Quali segreti nascondo i Washberg? Le domande muovono la nuova indagine di Raybon, la sostanziano. E, attorno alla ricerca di risposte, si dipana The Lowdon, riuscendo a bilanciare l'irrequietezza del suo protagonista, il suo cinismo, con il racconto di una dinamica familiare di solito estranea al genere crime.
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