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2019-11-11
Gli scandali della Chiesa. Le scelte sbagliate di Francesco
Ansa
Sostiene la vulgata: papa Francesco vorrebbe riformare la Chiesa, ma un manipolo di avidi curiali glielo impedisce. Eppure i fatti mostrano che, nella migliore delle ipotesi, Jorge Mario Bergoglio ha pasticciato il suo disegno di «moralizzazione» della Santa Sede, perché l'ha affidato a persone inadatte, moralmente o penalmente esposte. Nella peggiore delle ipotesi - che per ossequio verso il Pontefice ci sentiremmo di escludere - quel progetto è un bluff. Cioè, Francesco non vuole davvero cambiare.
L'esempio più eclatante degli scricchiolii del riformismo del Papa lo fornisce l'organismo vaticano che gestisce il patrimonio economico della Chiesa, l'Apsa, presieduta dall'estate 2018 da monsignor Nunzio Galantino. Un prelato in perfetta linea Bergoglio, grande sostenitore della linea sui porti aperti e l'accoglienza dei migranti. Sull'Amministrazione del patrimonio della Santa Sede c'è una grande domanda da porsi: perché non è stata «ripulita» come s'è fatto, almeno in parte, con lo Ior? Diciamo «in parte», perché all'Istituto per le opere di religione sono finiti personaggi discutibili. Ad esempio, Francesco vi ha nominato prelato monsignor Battista Ricca, dai chiacchierati trascorsi come nunzio apostolico in Uruguay. A Montevideo erano sulla bocca di tutti le sue frequentazioni di locali gay e una convivenza «sospetta» con un capitano delle guardie svizzere, Patrick Haari.
Ma torniamo all'Apsa, la banca centrale del Vaticano. Proprio presso lo Ior essa opera mediante dieci conti in differenti valute: 30 milioni di euro più altri 14,3 milioni in titoli, 500.000 dollari americani, 26.000 dollari canadesi, 80.000 sterline, 36.000 franchi svizzeri. Ma ci sarebbe anche un sistema di conti sommersi e bilanci non pubblicati, già fotografato da Benedetto XVI, il quale ne aveva debitamente informato il suo successore. E Francesco, per fare chiarezza, chi aveva pensato di chiamare a Roma? Un uomo a lui molto vicino: Gustavo Óscar Zanchetta, nominato da Bergoglio vescovo di Orán, in Argentina. Senonché, monsignor Zanchetta, collocato all'Apsa nel dicembre del 2017, nel luglio di quell'anno si era dimesso dalla sua diocesi, adducendo mai precisati motivi di salute. In verità, su di lui incombevano le pesanti accuse di abusi sessuali di alcuni seminaristi, accuse per le quali, nell'estate 2019, è finito alla sbarra. Formalmente, Zanchetta era stato rimosso subito dopo lo scandalo. Eppure, pochi mesi fa, il giudice argentino lo ha autorizzato a rientrare a Roma «per continuare il suo lavoro quotidiano». A giustificazione era stato addotto un documento del 3 giugno 2019, firmato da un avvocato della Segreteria di Stato, Vincenzo Mauriello e da monsignor Edgar Peña Parra, sostituto per gli Affari generali della stessa Segreteria, secondo cui Zanchetta era ancora «impiegato dal Vaticano» all'Apsa e abitava «nella residenza di Santa Marta». Ossia, accanto al Papa. Come se non bastasse, un quotidiano argentino, El Tribuno, alcuni mesi fa aveva pubblicato delle carte che dimostravano come diversi vescovi, il primate di Argentina, il nunzio apostolico e anche il Pontefice fossero al corrente già dal 2015 delle macchie nel passato di monsignor Zanchetta.
Un personaggio potenzialmente ricattabile era in grado di infilare liberamente il naso nei conti segreti dell'Apsa? Si poteva sperare che portasse a termine con successo una riforma così delicata? Tanto più che persino Francesco, interpellato da una giornalista messicana sui motivi di quella nomina, ha definito Zanchetta «economicamente disordinato». Ma come? Si incarica un uomo «economicamente disordinato» di sistemare i conti di una banca centrale?
Non finisce qui. Sull'Apsa grava pure il dossier immobiliare. Una seconda branca dell'organismo gestisce infatti l'immenso patrimonio (2,7 miliardi di euro) di palazzi della Santa Sede. Una miriade di appartamenti di lusso affittati a canoni irrisori ad alti prelati. Come ha denunciato Gianluigi Nuzzi nel suo ultimo libro, si tratta di «4.421 unità, di cui 2.400 appartamenti e 600 tra negozi e uffici di proprietà diretta dell'Apsa». Tra questi, 800 risultano sfitti, altri 3.200 sono in locazione, ma il 15% è a canone zero, mentre il resto è a prezzi di favore, con morosità che «arrivano a 2,7 milioni». L'Apsa, sostiene Nuzzi, si è vista costretta a tamponare le perdite ricorrendo ai milioni tratti dall'Obolo di San Pietro. Il nuovo vertice dell'ente, monsignor Galantino, ha replicato che nei mastodontici palazzi della Chiesa, «se ci fai un albergo extra lusso è un discorso, se ci metti gli uffici della Curia romana, come adesso, non valgono niente». I canoni agevolati sarebbero «una forma di housing sociale» a beneficio dei dipendenti. E l'Apsa avrebbe invero un utile di 22 milioni, anche se il Vaticano sta lavorando alla spending review. Nel frattempo, nella bufera potrebbero finire pure alcuni investimenti immobiliari realizzati dall'Apsa per l'ospedale Bambin Gesù: un complesso in Villa Pamphili (32,8 milioni), la casa di cura Villa Luisa (15,2 milioni) e l'affitto del rinascimentale Palazzo Alicorni.
L'Aif, Autorità vaticana di controllo finanziario realizzata da Benedetto XVI, tanto efficiente da aver scoperchiato lo scandalo degli investimenti a Londra collegati alla Segreteria di Stato, ha invece ribadito in più di un'occasione di non avere poteri di supervisione sull'Apsa. Papa Francesco aveva accentrato le funzioni di controllo nella Segreteria per l'economia, creata per accelerare il processo riformatore. Ma anche in questo caso, qualcosa s'è intoppato. Prefetto del dicastero era stato nominato, nel 2014, il cardinale australiano George Pell. Tre anni dopo, però, Pell è stato travolto dalle accuse di molestie su minori risalenti al 1996. Curiosa coincidenza: la tempesta giudiziaria si è scatenata solo dopo che Pell aveva dichiarato di aver scoperto un milione di euro di fondi custoditi in conti occulti. Non ha fatto in tempo ad annunciare un report, che è finito alla sbarra in Australia. Chi contesta la versione ufficiale evoca le forti resistenze dalla Segreteria di Stato e dagli uomini di Tarcisio Bertone. Quel che è certo, è che il processo a Pell, che ne ha portato alla condanna nel marzo 2019, si fondava su elementi tutt'altro che solidi: un'unica testimonianza, con parecchie incongruenze. In particolare, questa implicava che Pell avesse molestato i chierichetti nei corridoi della cattedrale di Melbourne subito dopo la messa, dove si radunavano i fedeli e dove tutti avrebbero potuto sorprenderlo in flagrante. Però nessuno si è mai accorto di nulla.
Che Pell sia vittima di una congiura, o che fosse soltanto un'alra figura dal passato oscuro, come Zanchetta, è comunque un dato di fatto che la sua condanna abbia sancito una battuta d'arresto nell'attività della Segreteria dell'economia. E la prefettura del dicastero, cioè la carica occupata dal cardinale australiano, a mesi dalla sua rimozione, è ancora vacante. I riflettori sull'Apsa si sono spenti. Il suo nuovo vertice, monsignor Galantino, nega l'esistenza di conti occulti e celebra i passi avanti sulla spending review. Possibile che all'Apsa basti una cura Cottarelli?
Giochi finanziari e scalate al potere. Ritratto della segreteria di Stato
C'è un altro organismo della Chiesa apparentemente refrattario alla riforme di Francesco: si tratta della Segreteria di Stato, l'esecutivo vaticano, dicastero a lungo monopolizzato dal cardinale Tarcisio Bertone, che sarebbe riuscito a frenare chiunque avesse cercato di vederci chiaro sui presunti capitali segreti nei forzieri vaticani, dall'ex revisore dei conti Libero Milone all'ex prefetto della Segreteria per l'economia, George Pell.
Un giro di vite in Curia era uno dei desiderata di Francesco. Era a questo scopo che Jorge Mario Bergoglio, nel settembre 2013, aveva istituito il Consiglio dei cardinali, il cosiddetto C9, con il compito di modificare la costituzione apostolica Pastor Bonus, che aveva istituito i cinque dicasteri della Santa Sede - capitanati, appunto, dalla Segreteria di Stato. Tuttavia, anche l'avventura del C9 non è stata fortunata. Di risultati concreti nemmeno l'ombra. D'altronde, a coordinare il Consiglio, Bergoglio ha chiamato a Roma un suo fedelissimo, il cardinale Óscar Rodriguez Maradiaga, arcivescovo di Tegucigalpa, la capitale honduregna. Peccato che, a fine 2017, Maradiaga - il quale, in una recente intervista a Repubblica, ha accusato i prelati conservatori nordamericani di ostacolare le riforme di Francesco - sia stato coinvolto in un controverso investimento. Il cardinale avrebbe convinto Martha Alegria Reichman, la vedova di un ex diplomatico vaticano dell'Honduras, a piazzare i risparmi di una vita in un fondo britannico, gestito da un musulmano amico del cardinale. Il mediatore, purtroppo, ha incassato il gruzzolo e per poi sparire. La signora avrebbe voluto riottenere la somma, ma nonostante un'udienza in Vaticano con Francesco, sia Maradiaga sia il Papa finora hanno glissato.
Grosse somme di denaro, investimenti temerari, la capitale britannica. Elementi che tornano nelle ultime vicissitudini della Segreteria di Stato. Come l'indagine a carico di alcuni dipendenti del dicastero per una controversa operazione finanziaria.
Nel 2013, l'allora sostituto per gli Affari generali della Segreteria, monsignor Angelo Becciu, tratta con un consulente di Credit suisse, Enrico Crasso, un investimento di 250 milioni di dollari per un blocco petrolifero in Angola. A tale scopo, viene disposta la creazione dell'Athena capital commodities fund, gestito dal finanziere Raffaele Mincione. Qualcosa, però, non funziona. E dall'oro nero si passa a un investimento immobiliare a Londra, a Sloane Square, per 200 milioni di euro, provenienti stavolta dall'Obolo di San Pietro. Vale a dire, dalle offerte dei fedeli per le attività caritatevoli e il sostentamento della Chiesa. Alla fine, lo scorso luglio, per chiudere definitivamente con i fondi, monsignor Edgar Peña Parra chiede allo Ior d'intervenire con 150 milioni di euro. Il tribunale vaticano ora ipotizza «gravi indizi di peculato, truffa, abuso d'ufficio e autoriciclaggio», oltre che i reati di «appropriazione indebita e favoreggiamento». Intanto, la Procura di Roma sta indagando anche Mincione per associazione a delinquere finalizzata a corruzione e truffa, insieme ad alcuni funzionari di Enasarco: nel mirino c'è una somma che la cassa dei commercialisti avrebbe dovuto utilizzare per altri scopi e che invece sarebbe stata dirottata per l'acquisto del famoso immobile londinese da parte di Mincione, il quale poi lo avrebbe rivenduto alla Santa Sede a prezzo maggiorato. Al di là degli eventuali risvolti penali, siamo lontani dal paradigma di Chiesa povera per i poveri, su cui insiste il Papa.
Nella vicenda del fondo Mincione è protagonista monsignor Becciu, sostituto per gli Affari generali della Segreteria fino al 2018. Ma il vertice della Segreteria di Stato è monsignor Pietro Parolin. Di lui si vocifera sia entrato in rotta di collisione con il Pontefice. I fatti, però, parlano di una piena sintonia con Francesco, che lo aveva nominato anche nella commissione di vigilanza sullo Ior e del quale Parolin, nel maggio scorso, ha elogiato «le proposte in materia politica ed economica». Per un certo periodo, il segretario di Stato ha avuto una notevole influenza su Francesco, tanto da indurlo a un improvviso commissariamento dell'Ordine di Malta, finito nel caos per dissidi interni tra i suoi vertici e sul quale gravitavano notevoli interessi economici, come un lascito di 120 milioni di franchi svizzeri e un fondo milionario.
Poche settimane fa, l'editorialista del Corsera, Massimo Franco, ipotizzava che Parolin e Bergoglio fossero ai ferri corti. Motivo dello scontro, la progressiva messa da parte del segretario di Stato, che non sarebbe stato informato del blitz ai danni degli indagati per la vicenda dell'investimento immobiliare londinese. La Verità, però, ha appreso che Francesco sarebbe in procinto di nominare Parolin a Patriarca di Venezia. Una mossa che può essere interpretata in due modi: un tentativo di degradarlo e allontanarlo dalla Segreteria, oppure un modo per «tenerlo in caldo» in vista del futuro conclave, permettendogli di costruirsi le giuste credenziali da pastore d'anime. Se così fosse, la continuità nello stile di governo tra Parolin e Bergoglio apparirebbe lampante. Sullo sfondo, restano le illazioni su una delle operazioni politicamente più spregiudicate della Santa Sede, di cui spesso si è parlato sugli organi d'informazione tradizionalisti, ma che nessuno è riuscito a provare: l'utilizzo di una somma tratta, come nel caso di Londra, dall'Obolo di San Pietro, per finanziare la campagna elettorale di Hillary Clinton, nei mesi in cui Francesco, in visita negli Usa, praticamente scomunicava il candidato repubblicano Donald Trump. Chi ventila tale ipotesi, ritiene che a convincere il Papa a esporsi in quel modo fosse stato proprio il segretario di Stato Parolin.
«Incomprensibili le mosse del Pontefice»
aldomariavalli.it
Aldo Maria Valli è uno dei più noti vaticanisti in attività. Ha seguito da giornalista il cardinale Carlo Maria Martini, poi Giovanni Paolo II, ha scritto numerosi libri, anche critici nei confronti di papa Francesco.
A distanza di quasi sette anni dall'elezione al Soglio di Jorge Mario Bergoglio, in Vaticano ci sono ancora indagini sulla gestione finanziaria della Santa Sede?
«Benedetto XVI consegnò subito a Francesco le carte con i risultati dell'indagine commissionata ai tre cardinali Herranz, Tomko e De Giorgi. Lì c'era tutto su corruzione, malgoverno e irregolarità. Inoltre monsignor Carlo Maria Viganò ha riferito che nell'incontro con Francesco del 13 giugno 2013, quando l'allora nunzio negli Usa avvertì il Papa delle malefatte del cardinale Thedore McCarrick, consegnò a sua volta a Bergoglio un rapporto sulla cattiva gestione del governatorato, l'organismo che amministra la Città del Vaticano. Francesco dunque ebbe la possibilità di farsi un quadro della situazione, ma non ci sono mai state azioni conseguenti. Il problema arriva da lontano. Ricordiamo che già prima dell'avvento di Bergoglio il cardinale Tarcisio Bertone depotenziò la legge voluta da Benedetto XVI».
Nelle scorse settimane si è dimesso Domenico Giani, capo della Gendarmeria.
«Giani, secondo quel che mi viene detto, da buon militare ha obbedito agli ordini. Qualcuno evidentemente non ha gradito e gli ha attribuito responsabilità non sue».
Papa Francesco (vedi la nomina di monsignor Gustavo Zanchetta all'Apsa) ha commesso errori?
«Nominato all'Apsa nel 2017, Zanchetta è un vescovo argentino, amico di Bergoglio, accusato di cattiva gestione finanziaria e abusi sessuali. Non ne sapevamo niente, è stata la difesa del Vaticano, ma un religioso ha riferito di aver avvertito Roma fin dal 2015. Sta di fatto che Francesco per Zanchetta ha perfino creato un incarico ad hoc. Francamente incomprensibile».
Come spiega l'attivismo del cardinale Angelo Becciu con il fondo Mincione? È normale che il Vaticano decida di investire 250 milioni di dollari in un giacimento off shore in Angola?
«No, non è normale, così come non è normale investire in immobili di lusso (si veda il caso di Londra). Nulla vieta al Vaticano di fare investimenti, ma quando si maneggiano soldi che devono servire per gestire la Chiesa, sostenere l'opera di evangelizzazione e aiutare i bisognosi, sarebbe necessario garantire oculatezza e trasparenza. Invece apprendiamo che la Segreteria di Stato avrebbe utilizzato per operazioni quanto meno “opache" (parola del cardinale Pietro Parolin) fondi fuori bilancio, provenienti per giunta dall'Obolo di San Pietro, ovvero dalle offerte che i fedeli di tutto il mondo mandano al Papa perché siano utilizzate per opere di carità. La strada verso la trasparenza sembra ancora lunga».
Nel suo blog lei scrive della fragilità delle accuse al cardinale George Pell che papa Bergoglio aveva posto a capo della Segreteria per l'economia. Pell si scontrò duramente con la Segreteria di Stato prima di finire in arresto.
«La fragilità delle accuse di abusi sessuali sta emergendo con tutta evidenza, così come il pregiudizio da parte degli inquirenti australiani. Pell è un eccellente teologo e, mi viene detto, anche un sant'uomo. A quanto mi risulta agì con competenza, ma gli furono precluse informazioni. Le amministrazioni fecero muro contro di lui ed è probabile che qualcuno abbia gioito per i suoi guai giudiziari in Australia».
Il Vaticano è molto legato agli investimenti nel patrimonio immobiliare. Una strategia giusta? A giudicare dalle inchieste, non molto.
«Il Vaticano ha sempre investito in immobili, sia per minimizzare i rischi sia perché ha bisogno di appartamenti per il personale. Poi tutto dipende da come avvengono gli investimenti e dal grado di trasparenza. E su questo piano, purtroppo, non si sono fatti molti passi avanti».
Francesco ha raccolto una difficile eredità. Aveva promesso un cambio di passo, ma si ritrova nella stessa situazione dei predecessori.
«Non credo alla narrativa del povero Papa circondato da cattivoni che remano contro di lui. Dopo quasi sette anni di pontificato tutti i collaboratori, nei luoghi chiave, sono stati scelti da Bergoglio. Di tempo per fare pulizia ne ha avuto in abbondanza. Se non c'è riuscito è perché spesso ha sbagliato nella scelta delle persone e perché è mancato un piano organico».
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Riduci
Jorge Bergoglio aveva assicurato ambiziose riforme, ma si è circondato di collaboratori controversi. E finora nella Santa Sede non è cambiato nulla.Nel 2013 il successore di Pietro varò il Consiglio di cardinali per cambiare i dicasteri. Proprio in quel periodo Angelo Becciu trattava l'investimento in Angola e poi a Londra. E ora circolano voci su Pietro Parolin in lizza per il conclave.Il vaticanista Aldo Maria Valli: «Ha avuto 7 anni per fare pulizia: non c'è riuscito perché s'è affidato a persone inadeguate».Lo speciale contiene tre articoli.Sostiene la vulgata: papa Francesco vorrebbe riformare la Chiesa, ma un manipolo di avidi curiali glielo impedisce. Eppure i fatti mostrano che, nella migliore delle ipotesi, Jorge Mario Bergoglio ha pasticciato il suo disegno di «moralizzazione» della Santa Sede, perché l'ha affidato a persone inadatte, moralmente o penalmente esposte. Nella peggiore delle ipotesi - che per ossequio verso il Pontefice ci sentiremmo di escludere - quel progetto è un bluff. Cioè, Francesco non vuole davvero cambiare. L'esempio più eclatante degli scricchiolii del riformismo del Papa lo fornisce l'organismo vaticano che gestisce il patrimonio economico della Chiesa, l'Apsa, presieduta dall'estate 2018 da monsignor Nunzio Galantino. Un prelato in perfetta linea Bergoglio, grande sostenitore della linea sui porti aperti e l'accoglienza dei migranti. Sull'Amministrazione del patrimonio della Santa Sede c'è una grande domanda da porsi: perché non è stata «ripulita» come s'è fatto, almeno in parte, con lo Ior? Diciamo «in parte», perché all'Istituto per le opere di religione sono finiti personaggi discutibili. Ad esempio, Francesco vi ha nominato prelato monsignor Battista Ricca, dai chiacchierati trascorsi come nunzio apostolico in Uruguay. A Montevideo erano sulla bocca di tutti le sue frequentazioni di locali gay e una convivenza «sospetta» con un capitano delle guardie svizzere, Patrick Haari. Ma torniamo all'Apsa, la banca centrale del Vaticano. Proprio presso lo Ior essa opera mediante dieci conti in differenti valute: 30 milioni di euro più altri 14,3 milioni in titoli, 500.000 dollari americani, 26.000 dollari canadesi, 80.000 sterline, 36.000 franchi svizzeri. Ma ci sarebbe anche un sistema di conti sommersi e bilanci non pubblicati, già fotografato da Benedetto XVI, il quale ne aveva debitamente informato il suo successore. E Francesco, per fare chiarezza, chi aveva pensato di chiamare a Roma? Un uomo a lui molto vicino: Gustavo Óscar Zanchetta, nominato da Bergoglio vescovo di Orán, in Argentina. Senonché, monsignor Zanchetta, collocato all'Apsa nel dicembre del 2017, nel luglio di quell'anno si era dimesso dalla sua diocesi, adducendo mai precisati motivi di salute. In verità, su di lui incombevano le pesanti accuse di abusi sessuali di alcuni seminaristi, accuse per le quali, nell'estate 2019, è finito alla sbarra. Formalmente, Zanchetta era stato rimosso subito dopo lo scandalo. Eppure, pochi mesi fa, il giudice argentino lo ha autorizzato a rientrare a Roma «per continuare il suo lavoro quotidiano». A giustificazione era stato addotto un documento del 3 giugno 2019, firmato da un avvocato della Segreteria di Stato, Vincenzo Mauriello e da monsignor Edgar Peña Parra, sostituto per gli Affari generali della stessa Segreteria, secondo cui Zanchetta era ancora «impiegato dal Vaticano» all'Apsa e abitava «nella residenza di Santa Marta». Ossia, accanto al Papa. Come se non bastasse, un quotidiano argentino, El Tribuno, alcuni mesi fa aveva pubblicato delle carte che dimostravano come diversi vescovi, il primate di Argentina, il nunzio apostolico e anche il Pontefice fossero al corrente già dal 2015 delle macchie nel passato di monsignor Zanchetta. Un personaggio potenzialmente ricattabile era in grado di infilare liberamente il naso nei conti segreti dell'Apsa? Si poteva sperare che portasse a termine con successo una riforma così delicata? Tanto più che persino Francesco, interpellato da una giornalista messicana sui motivi di quella nomina, ha definito Zanchetta «economicamente disordinato». Ma come? Si incarica un uomo «economicamente disordinato» di sistemare i conti di una banca centrale?Non finisce qui. Sull'Apsa grava pure il dossier immobiliare. Una seconda branca dell'organismo gestisce infatti l'immenso patrimonio (2,7 miliardi di euro) di palazzi della Santa Sede. Una miriade di appartamenti di lusso affittati a canoni irrisori ad alti prelati. Come ha denunciato Gianluigi Nuzzi nel suo ultimo libro, si tratta di «4.421 unità, di cui 2.400 appartamenti e 600 tra negozi e uffici di proprietà diretta dell'Apsa». Tra questi, 800 risultano sfitti, altri 3.200 sono in locazione, ma il 15% è a canone zero, mentre il resto è a prezzi di favore, con morosità che «arrivano a 2,7 milioni». L'Apsa, sostiene Nuzzi, si è vista costretta a tamponare le perdite ricorrendo ai milioni tratti dall'Obolo di San Pietro. Il nuovo vertice dell'ente, monsignor Galantino, ha replicato che nei mastodontici palazzi della Chiesa, «se ci fai un albergo extra lusso è un discorso, se ci metti gli uffici della Curia romana, come adesso, non valgono niente». I canoni agevolati sarebbero «una forma di housing sociale» a beneficio dei dipendenti. E l'Apsa avrebbe invero un utile di 22 milioni, anche se il Vaticano sta lavorando alla spending review. Nel frattempo, nella bufera potrebbero finire pure alcuni investimenti immobiliari realizzati dall'Apsa per l'ospedale Bambin Gesù: un complesso in Villa Pamphili (32,8 milioni), la casa di cura Villa Luisa (15,2 milioni) e l'affitto del rinascimentale Palazzo Alicorni.L'Aif, Autorità vaticana di controllo finanziario realizzata da Benedetto XVI, tanto efficiente da aver scoperchiato lo scandalo degli investimenti a Londra collegati alla Segreteria di Stato, ha invece ribadito in più di un'occasione di non avere poteri di supervisione sull'Apsa. Papa Francesco aveva accentrato le funzioni di controllo nella Segreteria per l'economia, creata per accelerare il processo riformatore. Ma anche in questo caso, qualcosa s'è intoppato. Prefetto del dicastero era stato nominato, nel 2014, il cardinale australiano George Pell. Tre anni dopo, però, Pell è stato travolto dalle accuse di molestie su minori risalenti al 1996. Curiosa coincidenza: la tempesta giudiziaria si è scatenata solo dopo che Pell aveva dichiarato di aver scoperto un milione di euro di fondi custoditi in conti occulti. Non ha fatto in tempo ad annunciare un report, che è finito alla sbarra in Australia. Chi contesta la versione ufficiale evoca le forti resistenze dalla Segreteria di Stato e dagli uomini di Tarcisio Bertone. Quel che è certo, è che il processo a Pell, che ne ha portato alla condanna nel marzo 2019, si fondava su elementi tutt'altro che solidi: un'unica testimonianza, con parecchie incongruenze. In particolare, questa implicava che Pell avesse molestato i chierichetti nei corridoi della cattedrale di Melbourne subito dopo la messa, dove si radunavano i fedeli e dove tutti avrebbero potuto sorprenderlo in flagrante. Però nessuno si è mai accorto di nulla.Che Pell sia vittima di una congiura, o che fosse soltanto un'alra figura dal passato oscuro, come Zanchetta, è comunque un dato di fatto che la sua condanna abbia sancito una battuta d'arresto nell'attività della Segreteria dell'economia. E la prefettura del dicastero, cioè la carica occupata dal cardinale australiano, a mesi dalla sua rimozione, è ancora vacante. I riflettori sull'Apsa si sono spenti. Il suo nuovo vertice, monsignor Galantino, nega l'esistenza di conti occulti e celebra i passi avanti sulla spending review. Possibile che all'Apsa basti una cura Cottarelli?<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/gli-scandali-della-chiesa-le-scelte-sbagliate-di-francesco-2641295412.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="giochi-finanziari-e-scalate-al-potere-ritratto-della-segreteria-di-stato" data-post-id="2641295412" data-published-at="1765662733" data-use-pagination="False"> Giochi finanziari e scalate al potere. Ritratto della segreteria di Stato C'è un altro organismo della Chiesa apparentemente refrattario alla riforme di Francesco: si tratta della Segreteria di Stato, l'esecutivo vaticano, dicastero a lungo monopolizzato dal cardinale Tarcisio Bertone, che sarebbe riuscito a frenare chiunque avesse cercato di vederci chiaro sui presunti capitali segreti nei forzieri vaticani, dall'ex revisore dei conti Libero Milone all'ex prefetto della Segreteria per l'economia, George Pell. Un giro di vite in Curia era uno dei desiderata di Francesco. Era a questo scopo che Jorge Mario Bergoglio, nel settembre 2013, aveva istituito il Consiglio dei cardinali, il cosiddetto C9, con il compito di modificare la costituzione apostolica Pastor Bonus, che aveva istituito i cinque dicasteri della Santa Sede - capitanati, appunto, dalla Segreteria di Stato. Tuttavia, anche l'avventura del C9 non è stata fortunata. Di risultati concreti nemmeno l'ombra. D'altronde, a coordinare il Consiglio, Bergoglio ha chiamato a Roma un suo fedelissimo, il cardinale Óscar Rodriguez Maradiaga, arcivescovo di Tegucigalpa, la capitale honduregna. Peccato che, a fine 2017, Maradiaga - il quale, in una recente intervista a Repubblica, ha accusato i prelati conservatori nordamericani di ostacolare le riforme di Francesco - sia stato coinvolto in un controverso investimento. Il cardinale avrebbe convinto Martha Alegria Reichman, la vedova di un ex diplomatico vaticano dell'Honduras, a piazzare i risparmi di una vita in un fondo britannico, gestito da un musulmano amico del cardinale. Il mediatore, purtroppo, ha incassato il gruzzolo e per poi sparire. La signora avrebbe voluto riottenere la somma, ma nonostante un'udienza in Vaticano con Francesco, sia Maradiaga sia il Papa finora hanno glissato. Grosse somme di denaro, investimenti temerari, la capitale britannica. Elementi che tornano nelle ultime vicissitudini della Segreteria di Stato. Come l'indagine a carico di alcuni dipendenti del dicastero per una controversa operazione finanziaria. Nel 2013, l'allora sostituto per gli Affari generali della Segreteria, monsignor Angelo Becciu, tratta con un consulente di Credit suisse, Enrico Crasso, un investimento di 250 milioni di dollari per un blocco petrolifero in Angola. A tale scopo, viene disposta la creazione dell'Athena capital commodities fund, gestito dal finanziere Raffaele Mincione. Qualcosa, però, non funziona. E dall'oro nero si passa a un investimento immobiliare a Londra, a Sloane Square, per 200 milioni di euro, provenienti stavolta dall'Obolo di San Pietro. Vale a dire, dalle offerte dei fedeli per le attività caritatevoli e il sostentamento della Chiesa. Alla fine, lo scorso luglio, per chiudere definitivamente con i fondi, monsignor Edgar Peña Parra chiede allo Ior d'intervenire con 150 milioni di euro. Il tribunale vaticano ora ipotizza «gravi indizi di peculato, truffa, abuso d'ufficio e autoriciclaggio», oltre che i reati di «appropriazione indebita e favoreggiamento». Intanto, la Procura di Roma sta indagando anche Mincione per associazione a delinquere finalizzata a corruzione e truffa, insieme ad alcuni funzionari di Enasarco: nel mirino c'è una somma che la cassa dei commercialisti avrebbe dovuto utilizzare per altri scopi e che invece sarebbe stata dirottata per l'acquisto del famoso immobile londinese da parte di Mincione, il quale poi lo avrebbe rivenduto alla Santa Sede a prezzo maggiorato. Al di là degli eventuali risvolti penali, siamo lontani dal paradigma di Chiesa povera per i poveri, su cui insiste il Papa. Nella vicenda del fondo Mincione è protagonista monsignor Becciu, sostituto per gli Affari generali della Segreteria fino al 2018. Ma il vertice della Segreteria di Stato è monsignor Pietro Parolin. Di lui si vocifera sia entrato in rotta di collisione con il Pontefice. I fatti, però, parlano di una piena sintonia con Francesco, che lo aveva nominato anche nella commissione di vigilanza sullo Ior e del quale Parolin, nel maggio scorso, ha elogiato «le proposte in materia politica ed economica». Per un certo periodo, il segretario di Stato ha avuto una notevole influenza su Francesco, tanto da indurlo a un improvviso commissariamento dell'Ordine di Malta, finito nel caos per dissidi interni tra i suoi vertici e sul quale gravitavano notevoli interessi economici, come un lascito di 120 milioni di franchi svizzeri e un fondo milionario. Poche settimane fa, l'editorialista del Corsera, Massimo Franco, ipotizzava che Parolin e Bergoglio fossero ai ferri corti. Motivo dello scontro, la progressiva messa da parte del segretario di Stato, che non sarebbe stato informato del blitz ai danni degli indagati per la vicenda dell'investimento immobiliare londinese. La Verità, però, ha appreso che Francesco sarebbe in procinto di nominare Parolin a Patriarca di Venezia. Una mossa che può essere interpretata in due modi: un tentativo di degradarlo e allontanarlo dalla Segreteria, oppure un modo per «tenerlo in caldo» in vista del futuro conclave, permettendogli di costruirsi le giuste credenziali da pastore d'anime. Se così fosse, la continuità nello stile di governo tra Parolin e Bergoglio apparirebbe lampante. Sullo sfondo, restano le illazioni su una delle operazioni politicamente più spregiudicate della Santa Sede, di cui spesso si è parlato sugli organi d'informazione tradizionalisti, ma che nessuno è riuscito a provare: l'utilizzo di una somma tratta, come nel caso di Londra, dall'Obolo di San Pietro, per finanziare la campagna elettorale di Hillary Clinton, nei mesi in cui Francesco, in visita negli Usa, praticamente scomunicava il candidato repubblicano Donald Trump. Chi ventila tale ipotesi, ritiene che a convincere il Papa a esporsi in quel modo fosse stato proprio il segretario di Stato Parolin. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/gli-scandali-della-chiesa-le-scelte-sbagliate-di-francesco-2641295412.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="incomprensibili-le-mosse-del-pontefice" data-post-id="2641295412" data-published-at="1765662733" data-use-pagination="False"> «Incomprensibili le mosse del Pontefice» aldomariavalli.it Aldo Maria Valli è uno dei più noti vaticanisti in attività. Ha seguito da giornalista il cardinale Carlo Maria Martini, poi Giovanni Paolo II, ha scritto numerosi libri, anche critici nei confronti di papa Francesco. A distanza di quasi sette anni dall'elezione al Soglio di Jorge Mario Bergoglio, in Vaticano ci sono ancora indagini sulla gestione finanziaria della Santa Sede? «Benedetto XVI consegnò subito a Francesco le carte con i risultati dell'indagine commissionata ai tre cardinali Herranz, Tomko e De Giorgi. Lì c'era tutto su corruzione, malgoverno e irregolarità. Inoltre monsignor Carlo Maria Viganò ha riferito che nell'incontro con Francesco del 13 giugno 2013, quando l'allora nunzio negli Usa avvertì il Papa delle malefatte del cardinale Thedore McCarrick, consegnò a sua volta a Bergoglio un rapporto sulla cattiva gestione del governatorato, l'organismo che amministra la Città del Vaticano. Francesco dunque ebbe la possibilità di farsi un quadro della situazione, ma non ci sono mai state azioni conseguenti. Il problema arriva da lontano. Ricordiamo che già prima dell'avvento di Bergoglio il cardinale Tarcisio Bertone depotenziò la legge voluta da Benedetto XVI». Nelle scorse settimane si è dimesso Domenico Giani, capo della Gendarmeria. «Giani, secondo quel che mi viene detto, da buon militare ha obbedito agli ordini. Qualcuno evidentemente non ha gradito e gli ha attribuito responsabilità non sue». Papa Francesco (vedi la nomina di monsignor Gustavo Zanchetta all'Apsa) ha commesso errori? «Nominato all'Apsa nel 2017, Zanchetta è un vescovo argentino, amico di Bergoglio, accusato di cattiva gestione finanziaria e abusi sessuali. Non ne sapevamo niente, è stata la difesa del Vaticano, ma un religioso ha riferito di aver avvertito Roma fin dal 2015. Sta di fatto che Francesco per Zanchetta ha perfino creato un incarico ad hoc. Francamente incomprensibile». Come spiega l'attivismo del cardinale Angelo Becciu con il fondo Mincione? È normale che il Vaticano decida di investire 250 milioni di dollari in un giacimento off shore in Angola? «No, non è normale, così come non è normale investire in immobili di lusso (si veda il caso di Londra). Nulla vieta al Vaticano di fare investimenti, ma quando si maneggiano soldi che devono servire per gestire la Chiesa, sostenere l'opera di evangelizzazione e aiutare i bisognosi, sarebbe necessario garantire oculatezza e trasparenza. Invece apprendiamo che la Segreteria di Stato avrebbe utilizzato per operazioni quanto meno “opache" (parola del cardinale Pietro Parolin) fondi fuori bilancio, provenienti per giunta dall'Obolo di San Pietro, ovvero dalle offerte che i fedeli di tutto il mondo mandano al Papa perché siano utilizzate per opere di carità. La strada verso la trasparenza sembra ancora lunga». Nel suo blog lei scrive della fragilità delle accuse al cardinale George Pell che papa Bergoglio aveva posto a capo della Segreteria per l'economia. Pell si scontrò duramente con la Segreteria di Stato prima di finire in arresto. «La fragilità delle accuse di abusi sessuali sta emergendo con tutta evidenza, così come il pregiudizio da parte degli inquirenti australiani. Pell è un eccellente teologo e, mi viene detto, anche un sant'uomo. A quanto mi risulta agì con competenza, ma gli furono precluse informazioni. Le amministrazioni fecero muro contro di lui ed è probabile che qualcuno abbia gioito per i suoi guai giudiziari in Australia». Il Vaticano è molto legato agli investimenti nel patrimonio immobiliare. Una strategia giusta? A giudicare dalle inchieste, non molto. «Il Vaticano ha sempre investito in immobili, sia per minimizzare i rischi sia perché ha bisogno di appartamenti per il personale. Poi tutto dipende da come avvengono gli investimenti e dal grado di trasparenza. E su questo piano, purtroppo, non si sono fatti molti passi avanti». Francesco ha raccolto una difficile eredità. Aveva promesso un cambio di passo, ma si ritrova nella stessa situazione dei predecessori. «Non credo alla narrativa del povero Papa circondato da cattivoni che remano contro di lui. Dopo quasi sette anni di pontificato tutti i collaboratori, nei luoghi chiave, sono stati scelti da Bergoglio. Di tempo per fare pulizia ne ha avuto in abbondanza. Se non c'è riuscito è perché spesso ha sbagliato nella scelta delle persone e perché è mancato un piano organico».
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Prima di essere lapidati da musicofili inflessibili o da fanatici ammiratori di Beethoven (lo siamo anche noi) lasciamo allo stesso Ludwig Vchean l’ultima parola sull’argomento: «Solo i puri di cuore», affermò il genio tedesco, «possono cucinare una buona zuppa». Capito? Il sommo compositore a tavola amava i piatti semplici e disprezzava quelli troppo complicati. Adorava la zuppa, soprattutto quella di pane e uova: era il suo piatto preferito insieme ai maccheroni con il formaggio. Era sordo, ma le papille gustative gli funzionavano alla grande.
Una vera e propria zuppa di verdure musicale la serve al pubblico un gruppo austriaco formato da musicisti, designer, scenografi, autori. Si chiama The Vegetable Orchestra, che usa le verdure come strumenti musicali: una carota intagliata in una certa maniera diventa un flauto, la zucca uno strumento di percussione, le melanzane diventano dopo un sapiente lavoro di intaglio delle nacchere, le zucchine strumenti a fiato e così via. Con questi strumenti suonano pezzi di jazz o di dub, un genere musicale che deriva dal reggae giamaicano, e altra musica. Finito il concerto, dopo gli applausi del pubblico stupito da tanta musica «verde», i musicisti si trasformano in cuochi, gettano gli strumenti in pentoloni e preparano una bella zuppa per il pubblico dopo aver lavato gli strumenti, soprattutto quelli a fiato.
La zuppa vanta una storia vecchia come l’homo sapiens. Fu uno dei primi piatti elaborati dai nostri cavernicoli progenitori centinaia di migliaia di anni fa. Gli studiosi del periodo paleolitico ci documentano che la scoperta dell’acqua calda e il suo impiego per cuocere verdure e altri cibi avvenne nell’età della pietra antica, in incavi di roccia pieni d’acqua nella quale gli uomini primitivi tuffavano pietre roventi per farla bollire. Fu così che nacquero i primi minestroni. La parola «zuppa» arriverà molti millenni dopo, ma sempre in tempi molto antichi rispetto a noi, mutuata dal termine germanico suppa che definiva la fetta di pane inzuppata. Il pane era nell’antichità il cucchiaio dei poveri, le dita della mano la forchetta. La «posateria» delle classi più umili era tutta lì. Una sorta di brodaglia nera molto spartana chiamata melas zomos, nera zuppa, fatta con sangue di porco, budella e vino era la zuppa dei duri soldati di Sparta. A loro, che non cercavano mollezze, piaceva così, brutta da vedere ma semplice e nutriente, adatta a sostenere il fisico durante le campagne militari. Spostandoci in altre parti dell’antica penisola ellenica troviamo una cucina meno rigorosa, ma sempre con un menu nel quale zuppe e piatti brodosi a base di verdure, cereali, erbe spontanee e legumi vari, abbondavano.
Cotture e metodi a parte, quelle preparazioni sono le bis-bis-bisnonne delle zuppe che mangiamo noi oggi fatte, come allora, con cereali tipo orzo e farro, o con legumi, ceci, lenticchie, fave. Borlotti e cannellini erano al di là dell’Atlantico che aspettavano di essere scoperti. Il Phaseolus vulgaris arriverà dopo i viaggi di Colombo e degli altri viaggiatori su caravelle dirette verso il Nuovo mondo. Dalla Grecia a Roma le zuppe sostanzialmente non cambiano: erano piatti che facevano parte della dieta quotidiana dei Romani. Fonti di proteine e nutrienti, erano il comfort food delle classi plebee e dei contadini. Tra le altre zuppe, i legionari amavano quella fatta con pane, aglio, olio e aceto. Furono loro a introdurla in Spagna dove si evolverà fino a diventare il moderno gazpacho, zuppa fredda che si arricchì dal Cinquecento in poi con il pomodoro e i peperoni venuti dall’America.
Una zuppa leggendaria è la soupe à la pavoise, la zuppa pavese, che ha trovato posto nei libri di storia gastronomica dove si racconta di Francesco I di Valois, re di Francia sconfitto e fatto prigioniero dagli spagnoli di Carlo V nella battaglia di Pavia del 24 febbraio 1525. L’accasciato François du grand nez, come lo chiamavano i suoi sudditi per via del nasone che gli troneggiava sopra la bocca, fu portato dai nemici vincitori in un cascinale di campagna dove trovò ristoro e consolazione nella povera zuppa preparatogli dalla contadina del casolare che mise in una rozza scodella due croste di pane raffermo sopra le quali scocciò un uovo versando poi sul tutto il brodo bollente di erbe spontanee che gorgogliava quotidianamente nella marmitta sul camino. Francesco I, con il morale a terra per la sconfitta («Tutto è perduto fuorché l’onore»), apprezzò talmente quella zuppa villana che quando ritornò sul trono convocò i cuochi di corte insegnando loro la ricetta della zuppa pavese che fu perfezionata dagli chef i quali aggiunsero altri ingredienti ricchi elevandola da contadina che era ad aristocratica.
C’è da dire che la zuppa in Francia troverà il successo che merita grazie a una figura più leggendaria che reale, tale Monsieur Boulanger marchand de bouillon, mercante di brodo. Siamo a Parigi 25 anni prima della presa della Bastiglia e dello scoppio della rivoluzione. Il mitico Boulanger vende zuppe restaurateurs, restauratrici, che sistemano lo stomaco dei clienti cagionevoli rimettendoli in salute in un ambiente tutto sommato comodo con i tavoli accoglienti. Nasce da queste zuppe il restaurant, il ristorante che prende il nome dal ristoro, il conforto, che regalano le zuppe. Dando ragione in questo all’antico e saggio proverbio italiano regalatoci dalla civiltà contadina fin dal Medioevo: «Sette cose fa la zuppa: cava la fame e la sete tutta, empie il ventre, netta il dente, fa dormire, fa smaltire e la guancia fa arrossire».
Il più alto riconoscimento a questo piatto umile ma tanto utile alla sopravvivenza della povera umanità, lo firmano, tra gli altri, alcuni grandi artisti moderni: Paul Cézanne con la sua Natura morta con zuppiera (1884), Pablo Picasso che affronta il tema della povertà ne La zuppa, opera del periodo blu che mostra una vecchia paurosamente magra che porge una scodella di zuppa a una bambina, ma soprattutto Andy Warhol. Il re della Pop art che confessò di aver mangiato a pranzo per vent’anni i barattoloni di zuppa Campbell’s rivoluzionò i concetti di natura morta e di bellezza immortalando le stesse lattine zuppesche in una serie di opere seriali la più importante delle quali è la Campbell’s Soup Cans che presenta tutta la produzione di zuppe della Cambell’s: al pomodoro, agli asparagi, alla carne, al pollo, ai fagioli neri, e così via per 200 volte. Paradossalmente a dare importanza alla zuppa nell’arte sono stati anche le attiviste per il clima che il 28 gennaio dello scorso anno lanciarono la zuppa contro la Gioconda di Leonardo, ben protetta dal vetro antiguai, invocando un’agricoltura mondiale sana.
È profondamente ingiusto nei confronti della zuppa il detto «Se non è zuppa è pan bagnato». Come sopra detto la zuppa è salvifica, ristoratrice, ristoro e medicina attraverso i secoli dell’umanità misera. E poi la famiglia zuppesca è molto varia. Oltre alla zuppa-madre ci sono la minestra, il minestrone, la crema, la vellutata, il passato. Non sono sinonimi, ogni piatto ha la sua caratteristica che riguarda gli ingredienti e le tecniche di preparazione per le quali rimandiamo ai libri di cucina.
Concludiamo con la mistica zen. Un allievo chiede al maestro: «Cosa devo fare per raggiungere l’Illuminazione?». Gli risponde il maestro: «Hai mangiato la zuppa?» «Sì». «Allora lava la scodella».
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Riduci
Gabriele D'Annunzio (Ansa)
Il patrimonio mondiale dell’umanità rappresentato dalla cucina italiana sarà pure «immateriale», come da definizione Unesco, ma è fatto di carne, ossa, talento e creatività. È il risultato delle centinaia di migliaia di persone che, nel corso dei secoli e dei millenni, hanno affinato tecniche, scoperto ingredienti, assemblato gusti, allevato animali con amore e coltivato la terra con altrettanta dedizione. Insomma, dietro la cucina italiana ci sono... gli italiani.
Ed è a tutti questi peones e protagonisti della nostra storia che il riconoscimento va intestato. Ma anche a chi assapora le pietanze in un ristorante, in un bistrot o in un agriturismo. Alla fine, se ci si pensa, la cucina italiana siamo tutti noi: sono i grandi chef come le mamme o le nonne che si danno da fare tra le padelle della cucina. Sono i clienti dei ristoranti, gli amanti dei formaggi come dei salumi. Sono i giornalisti che fanno divulgazione, sono i fotografi che immortalano i piatti, sono gli scrittori che dedicano pagine e pagine delle loro opere ai manicaretti preferiti dal protagonista di questo o quel romanzo. Insomma, la cucina è cultura, identità, passato e anche futuro.
Giancarlo Saran, gastropenna di questo giornale, ha dato alle stampe Peccatori di gola 2 (Bolis edizioni, 18 euro, seguito del fortunato libro uscito nel 2024 vincitore del Premio selezione Bancarella cucina), volume contenente 13 ritratti di personaggi di spicco del mondo dell’italica buona tavola («Un viaggio curioso e goloso tra tavola e dintorni, con illustri personaggi del Novecento compresi alcuni insospettabili», sentenzia l’autore sulla quarta di copertina). Ci sono il «fotografo» Bob Noto e l’attore Ugo Tognazzi, l’imprenditore Giancarlo Ligabue e gli scrittori Gabriele D’Annunzio, Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. E poi ancora Lella Fabrizi (la sora Lella), Luciano Pavarotti, Pietro Marzotto, Gianni Frasi, Alfredo Beltrame, Giuseppe Maffioli, Pellegrino Artusi.
Un giro d’Italia culinario, quello di Saran, che testimonia come il riconoscimento Unesco potrebbe dare ulteriore valore al nostro made in Italy, con risvolti di vario tipo: rispetto dell’ambiente e delle nostre tradizioni, volano per l’economia e per il turismo, salvaguardia delle radici dal pericolo di una appiattente omologazione sociale e culturale. Sfogliando Peccatori 2, si può possono scovare, praticamente a ogni pagina, delle chicche. Tipo, la passione di D’Annunzio per le uova e la frittata. Scrive Saran: «D’Annunzio aveva un’esperienza indelebile legata alle frittate, che ebbe occasione di esercitare in diretta nelle giornate di vacanza a Francavilla con i suoi giovani compagni di ventura in cui, a rotazione, erano chiamati “l’uno a sfamare tutti gli altri”. Lasciamogli la cronaca in diretta. Chi meglio di lui. “In un pomeriggio di luglio ci attardavamo nella delizia del bagno quando mi fu rammentato, con le voci della fame, toccare a me le cura della cucina”. La affronta come si deve. “Non mancai di avvolgermi in una veste di lino rapita a Ebe”, la dea della giovinezza, “e di correre verso la vasta dimora costruita di tufo e adornata di maioliche paesane”. Non c’è storia: “Ruppi trentatré uova e, dopo averle sbattute, le agguagliai (mischiai) nella padella dal manico di ferro lungo come quello di una chitarra”. La notte è illuminata dal chiaro di luna che si riflette sulle onde, silenziose in attesa, e fu così che “adunai la sapienza e il misurato vigore... e diedi il colpo attentissimo a ricevere la frittata riversa”. Ma nulla da fare, questa, volando nel cielo non ricadde a terra, ovvero sulla padella. E qui avviene il miracolo laico. “Nel volgere gli occhi al cielo scorsi nel bagliore del novilunio la tunica e l’ala di un angelo”. Il finale conseguente. “L’angelo, nel passaggio, aveva colta la frittata in aria, l’aveva rapita, la sosteneva con le dita” con la missione imperativa di recarla ai Beati, “offerta di perfezione terrestre...”, di cui lui era stato (seppur involontario) protagonista. “Io mi vanto maestro insuperabile nell’arte della frittata per riconoscimento celestiale”.
La buona e sana cucina, dunque, ha come traino produttori e ristoratori «ma ancor più valore aggiunto deriva da degni ambasciatori e, con questo, i Peccatori di gola credo meritino piena assoluzione», conclude l’autore.
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Dal primo luglio 2026, in tutta l’Unione europea entrerà in vigore un contributo fisso di tre euro per ciascun prodotto acquistato su internet e spedito da Paesi extra-Ue, quando il valore della spedizione è inferiore a 150 euro. L’orientamento politico era stato definito già il mese scorso; la riunione di ieri del Consiglio Ecofin (12 dicembre) ne ha reso operativa l’applicazione, stabilendone i criteri.
Il prelievo di 3 euro si applicherà alle merci in ingresso nell’Unione europea per le quali i venditori extra-Ue risultano registrati allo sportello unico per le importazioni (Ioss) ai fini Iva. Secondo fonti di Bruxelles, questo perimetro copre «il 93% di tutti i flussi di e-commerce verso l’Ue».
In realtà, la misura non viene presentata direttamente come un’iniziativa mirata contro la Cina, anche se è dalla Repubblica Popolare che proviene la quota maggiore di pacchi. Una delle preoccupazioni tra i ministri è che parte della merce venga immessa nel mercato unico a prezzi artificialmente bassi, anche attraverso pratiche di sottovalutazione, per aggirare le tariffe che si applicano invece alle spedizioni oltre i 150 euro. La Commissione europea stima che nel 2024 il 91% delle spedizioni e-commerce sotto i 150 euro sia arrivato dalla Cina; inoltre, valutazioni Ue indicano che fino al 65% dei piccoli pacchi in ingresso potrebbe essere dichiarato a un valore inferiore al reale per evitare i dazi doganali.
«La decisione sui dazi doganali per i piccoli pacchi in arrivo nell’Ue è importante per garantire una concorrenza leale ai nostri confini nell’era odierna dell’e-commerce», ha detto il commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič. Secondo il politico slovacco, «con la rapida espansione dell’e-commerce, il mondo sta cambiando rapidamente e abbiamo bisogno degli strumenti giusti per stare al passo».
La decisione finale da parte di Bruxelles arriva dopo un iter normativo lungo cinque anni. La Commissione europea aveva messo sul tavolo, nel maggio 2023, la cancellazione dell’esenzione dai dazi doganali per i pacchi con valore inferiore a 150 euro, inserendola nel pacchetto di riforma doganale. Nella versione originaria, l’entrata in vigore era prevista non prima della metà del 2028. Successivamente, il Consiglio ha formalizzato l’abolizione dell’esenzione il 13 novembre 2025, chiedendo però di anticipare l’applicazione già al 2026.
C’è poi un secondo balzello messo a punto dall’esecutivo Meloni. Si tratta di un emendamento che prevede l’introduzione di un contributo fisso di due euro per ogni pacco spedito con valore dichiarato fino a 150 euro.
La misura, però, non sarebbe limitata ai soli invii provenienti da Paesi extra-Ue. Rispetto alle ipotesi circolate in precedenza, l’impostazione è stata ampliata: se approvata, la tassa finirebbe per applicarsi a tutte le spedizioni di piccoli pacchi, indipendentemente dall’origine, quindi anche a quelle spedite dall’Italia. In origine, l’idea sembrava mirata soprattutto a intercettare le micro-spedizioni generate da piattaforme come Shein o Temu. Il punto, però, è che colpire esclusivamente i pacchi extra-europei avrebbe reso la misura assimilabile a un dazio, materia che rientra nella competenza dell’Unione europea e non dei singoli Stati membri. Per evitare questo profilo di incompatibilità, l’emendamento alla manovra 2026 ha quindi «generalizzato» il prelievo, estendendolo all’intero perimetro delle spedizioni. L’effetto pratico è evidente: la tassa non impatterebbe solo sulle piattaforme asiatiche, ma anche sugli acquisti effettuati su Amazon, eBay e, in generale, su qualsiasi negozio online che spedisca pacchi entro quella soglia di valore dichiarato.
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Riduci
Ansa
Insomma: il vento è cambiato. E non spinge più la solita, ingombrante, vela francese che negli ultimi anni si era abituata a intendere l’Italia come un’estensione naturale della Rive Gauche.
E invece no. Il pendolo torna indietro. E con esso tornano anche ricordi e fantasie: Piersilvio Berlusconi sogna la Francia. Non quella dei consessi istituzionali, ma quella di quando suo padre, l’unico che sia riuscito a esportare il varietà italiano oltre le Alpi, provò l’avventura di La Cinq.
Una televisione talmente avanti che il presidente socialista François Mitterrand, per non farla andare troppo lontano, decise di spegnerla. Letteralmente.
Erano gli anni in cui gli italiani facevano shopping nella grandeur: Gianni Agnelli prese una quota di Danone e Raul Gardini mise le mani sul più grande zuccherificio francese, giusto per far capire che il gusto per il raffinato non ci era mai mancato. Oggi al massimo compriamo qualche croissant a prezzo pieno.
Dunque, Berlusconi – quello junior, stavolta – può dirlo senza arrossire: «La Francia sarebbe un sogno». Si guarda intorno, valuta, misura il terreno: Tf1 e M6.
La prima, dice, «ha una storia imprenditoriale solida»: niente da dire, anche le fortezze hanno i loro punti deboli. Con la seconda, «una finta opportunità». Tradotto: l’affare che non c’è, ma che ti fa perdere lo stesso due settimane di telefonate.
Il vero punto, però, è che mentre noi guardiamo a Parigi, Parigi si deve rassegnare. Lo dimostra il clamoroso stop di Crédit Agricole su Bpm, piantato lì come un cartello stradale: «Fine delle ambizioni». Con Bank of America che conferma la raccomandazione «Buy» su Mps e alza il target price a 11 euro. E non c’è solo questo. Natixis ha dovuto rinunciare alla cassaforte di Generali dov’è conservata buona parte del risparmio degli italiani. Vivendi si è ritirata. Tim è tornata italiana.
Il pendolo, dicevamo, ha cambiato asse. E spinge ben più a Ovest. Certo Parigi rimane il più importante investitore estero in Italia. Ma il vento della geopolitica e cambiato. Il nuovo asse si snoda tra Washington e Roma Gli americani non stanno bussando alla porta: sono già entrati.
E non con due spicci.
Ieri le due sigle più «Miami style» che potessero atterrare nel dossier Ilva – Bedrock Industries e Flacks Group – hanno presentato le loro offerte. Americani entrambi. Dall’odore ancora fresco di oceano, baseball e investimenti senza fronzoli.
E non è un caso isolato.
In Italia operano oltre 2.700 imprese a partecipazione statunitense, che generano 400.000 posti di lavoro. Non esattamente compratori di souvenir. Sono radicati nei capannoni, nella logistica, nelle tecnologie, nei servizi, nella manifattura. Un pezzo intero di economia reale. Poi c’è il capitolo dei giganti della finanza globale: BlackRock, Vanguard, i soliti nomi che quando entrano in una stanza fanno più rumore del tuono. Hanno fiutato l’aria e annusato l’Italia come fosse un tartufo bianco d’Alba: raro, caro e conveniente.
Gli incontri istituzionali degli ultimi anni parlano chiaro: data center, infrastrutture, digitalizzazione, energia.
Gli americani non si accontentano. Puntano al core del futuro: tecnologia, energia, scienza della vita, space economy, agritech.
Dopo l’investimento di Kkr nella rete fissa Telecom - uno dei deal più massicci degli ultimi quindici anni - la direzione è segnata: Washington ha scoperto che l’Italia rende.
A ottobre 2025 la grande conferma: missione economica a Washington, con una pioggia di annunci per oltre 4 miliardi di euro di nuovi investimenti. Non bonus, non promesse, ma progetti veri: space economy, sostenibilità, energia, life sciences, agri-tech, turism. Tutti settori dove l’Italia è più forte di quanto creda, e più sottovalutata di quanto dovrebbe.
A questo punto il pendolo ha parlato: gli americani investono, i francesi frenano.
E chissà che, alla fine, non si chiuda il cerchio: gli Usa tornano in Italia come investitori netti, e Berlusconi torna in Francia come ai tempi dell’avventura di La Cinq.
Magari senza che un nuovo Mitterrand tolga la spina.
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