2023-05-13
Gli ideologi della precarietà usano la casa come pretesto
Oggi i progressisti cavalcano la protesta delle «tendine» ma sono stati loro ad aver teorizzato l’abolizione d’ogni tipo di radicamento. La casa va affittata, la famiglia demolita. Ma senza un passato da passare alle future generazioni, non ha senso metterle al mondo. Non durerà molto, c’è da scommetterci. Ma per una volta non possiamo non compiacerci del fatto che il dibattito politico stia affrontando alcuni degli argomenti centrali della contemporaneità, temi che vanno oltre il battibecco e il chiacchiericcio. Natalità, lavoro, casa: non dovremmo discutere d’altro. Anche perché, talvolta, dalle discussioni escono riflessioni interessanti. Dice per esempio Elly Schlein, occupandosi del calo demografico, che esiste «un nesso fra natalità e precarietà» e senz’altro ha ragione. C’è un legame robusto fra la questione delle abitazioni attorno a cui gravita la protesta delle «tendine» e il crollo delle nascite, anche a livello simbolico: se le fondamenta non sono stabili, non posso pensare di costruire un edificio robusto e accogliente, e allora tanto vale lasciar perdere e vivere alla giornata. Detto altrimenti: niente lavoro stabile, niente casa, niente famiglia, niente futuro.Il dramma che oggi viviamo, di conseguenza, è senz’altro economico (oikonomia deriva appunto da oikos, cioè casa), ma, ancora prima, è culturale poiché attorno alla casa si costruisce l’intero senso del nostro stare al mondo. Ed è esattamente questo senso che i progressisti - da diversi decenni a questa parte - hanno volutamente demolito, conducendo una feroce battaglia contro la casa e tutto ciò che essa rappresenta. Come ebbe a scrivere Roger Scruton, «gli esseri umani, nella loro condizione stanziale, sono animati dall’oikophilia, cioè dall’amore per l’oikos, il nome greco della casa, che non significa, però, soltanto la propria dimora, ma anche le persone che in essa vivono, così come l’habitat circostante, e che dona a quella dimora un profilo durevole e un sorriso non effimero».L’ideologia attualmente dominante, al contrario, è oicofobica, ovvero nemica di ogni forma di stabilità e di radicamento. Postula la fluidità e il cambiamento costante, disprezza ciò che è fisso e strutturato, preferisce l’istantaneo a ciò che dura nel tempo, celebra l’individuo e smantella le comunità, sostituisce ciò che è gratuito con la prestazione a pagamento e, soprattutto, considera la famiglia il nemico principale. Da tale contesto non può non scaturire un inverno demografico.James Hillman - un autore difficilmente sospettabile di simpatie conservatrici - ha scritto molto del rapporto tra famiglia e casa. Spiegava che «familia, per i Romani, significava in primo luogo “un edificio di abitazione con tutti gli annessi” […]. L’uso della parola familia non era determinato dall’ascendenza né dalla discendenza e neppure dai legami di consanguineità (per i quali i Romani possedevano il termine gens); a determinarlo era l’idea di luogo». Insomma la parola familia connotava «la casa in senso fisico con tutti i suoi annessi come beni, patrimonio, eredità». Questo patrimonio è ciò che dobbiamo difendere e consegnare a chi verrà dopo di noi: il significato di «tradizione» sta tutto qui, nel passaggio di consegne fra una generazione e l’altra. Un passaggio che avviene, inevitabilmente, dentro una casa.È sempre Hillman a rimarcalo: la casa è il luogo in cui risiede la famiglia e in cui - attorno a un tavolo - si verifica concretamente la trasmissione del sapere antico, il luogo in cui la tradizione diviene gesto, parola, azione. La casa, e dunque la famiglia che la abita, costituiscono «la suprema metafora della nostra esistenza sulla terra, perché la famiglia rende manifesta quella forza che induce l’uomo ad attaccarsi al luogo dove abita, ad addomesticare il selvaggio e il nomade, a onorare l’invisibile, il demonico e i morti, a rendere intime e familiari e “proprie” le persone, le bestie e le cose di questo mondo, la forza che ce le fa portare a casa con noi, noi stessi loro custodi per la vita, al servizio del nostro destino sulla terra, impegnati a recitare la commedia dell’umana continuità». La nazione stessa comincia fra le mura domestiche: si forma a partire dalla famiglia che, nelle parole di Joseph Ratzinger, è «la cellula vitale e il pilastro della società e in questo interessa credenti e non credenti».Ebbene, coloro che oggi si stracciano le vesti per i poveri studenti in tenda, da tempo immemore contestano l’esistenza stessa della nazione e, ancora in queste ore, s’infuriano perché un ministro ha utilizzato la parola etnia (dal greco ethnos, cioè popolo). Essi sostengono la necessità di abolire ogni tipo di confine, di tradizione, di radicamento. Per costoro la casa è appena un insieme di mattoni che è bene prendere in affitto, così che per gli individui sia più facile spostarsi, abbandonare tutto e ripartire da capo in base alle esigenze del potere di turno.I progressisti fingono di contestare la precarietà ma l’hanno imposta e continuano a imporla; approfittano della battaglia sui canoni mensili per attaccare i proprietari di case (già l’Economist, qualche anno fa, li indicava come fonte di ogni male, responsabili della stagnazione economica). Si oppongono alla famiglia come istituzione e ritengono che figliare sia un diritto soltanto per coloro che sono disposti a pagare somme elevate per farlo, magari tramite utero in affitto.Difendere la casa significa difendere tutto ciò che essa rappresenta, significa difendere una tradizione. Non basta piagnucolare per ottenere dal governo qualche soldo pubblico in più (che comunque merita d’essere stanziato) da destinare ai fuori sede. Più della precarietà finanziaria, pesa sugli italiani di oggi la precarietà esistenziale. Il fatto è che, senza tradizione, cioè senza passato, il presente perde di senso: se non c’è nulla da consegnare alle generazioni successive, non vale la pena di metterle al mondo. È da questa drammatica mancanza che origina realmente il calo demografico: dalla depressione indotta nei giovani che, invece di abitare il mondo, lo solcano spaesati, privi di punti di riferimento, troppo presi dalla sopravvivenza per dedicarsi alla creazione.Sì, ha ragione Elly: precarietà e denatalità sono legate. Il problema è che quel legame lo hanno creato e alimentato gli amici suoi.
(Totaleu)
«Tante persone sono scontente». Lo ha dichiarato l'eurodeputato della Lega in un'intervista al Parlamento europeo di Strasburgo.