2020-07-07
Dal 1992 si contano 28.702 casi di ingiusta detenzione. Ma per i 3.000 del biennio 2017-19 sono state avviate solo 53 inchieste e nessun magistrato è stato punito. In 28 anni i contribuenti hanno speso 823 milioni in indennizzi.Nel 2019 i casi d'ingiusta detenzione sono stati 1.000, e alle vittime sono stati liquidati indennizzi per 44.894.510,30 euro. La cifra rappresenta il record degli ultimi quattro anni. Nel 2018 gli arresti immotivati erano stati 895 mentre gli indennizzi avevano superato di poco i 33,5 milioni, quindi sono in netto aumento sia il numero di casi, 105 in più, sia la spesa, il 34% in più. A denunciarlo è l'archivio ErroriGiudiziari, fondato da Valentino Maimone e Benedetto Lattanzi, due giornalisti che tempo si occupano di malagiustizia e producono dati accurati al centesimo. Mentre la credibilità del sistema giudiziario continua a subire colpi dalle intercettazioni dell'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati, Luca Palamara, e mentre crescono le polemiche per le anomalie della condanna per frode fiscale che sette anni fa ha condotto alla decadenza parlamentare di Silvio Berlusconi, i dati di ErroriGiudiziari confermano che la giustizia penale italiana si trova davvero in pessimo stato.Partendo dal 1992, cioè l'anno in cui è cominciata la rilevazione ufficiale delle ingiuste detenzioni, e arrivando fino al 31 dicembre dell'anno scorso, i casi registrati sono 28.702 in totale: in media, insomma, ogni 12 mesi finiscono in cella 1.025 italiani innocenti, cioè 85 al mese, quasi tre al giorno. E negli ultimi 28 anni il totale degli indennizzi vale esattamente 757.812.901,88 euro, per una media di poco superiore ai 27 milioni l'anno. Se alle ingiuste detenzioni si aggiungono i 191 casi di errore giudiziario in senso stretto, classificati come tali dal 1991 al 31 dicembre 2019, con una spesa per risarcimenti che in 29 anni ErroriGiudiziari ha calcolato al centesimo in 65.878.424,57 euro, il totale del «costo sociale» della malagiustizia italiana supera gli 823 milioni (per l'esattezza: 823.691.326,45 euro). Le statistiche ufficiali, in realtà, non danno una dimensione sincera del fenomeno. Questo accade perché da tempo lo Stato oppone un vero muro di gomma alle richieste di risarcimento per le carcerazioni sbagliate. Così molti indennizzi, anche se dovuti, vengono negati per motivi risibili: ad esempio perché l'indagato avrebbe «concorso a indurre in errore il giudice». A volte le cause sono ancor più paradossali. Una giurisprudenza ormai consolidata, infatti, stabilisce che se l'indagato si è avvalso del diritto di non rispondere al pubblico ministero o al giudice, quel silenzio basta per giustificare il rifiuto all'indennizzo per ingiusta detenzione. Molte vittime, poi, rinunciano a chiedere il risarcimento per i troppi ostacoli opposti dall'iter burocratico. Inoltre, per quanto lunga possa essere un'ingiusta detenzione, l'indennizzo non può mai superare i 516.456 euro. Secondo ErroriGiudiziari, i magistrati delle sedi meridionali sembrano più portati all'ingiusta detenzione. Nel 2019 la sede giudiziaria con il maggior numero di casi è stata Napoli, con 129 casi; seconda è stata Reggio Calabria, con 120 casi; terza Roma con 105 casi. Milano è all'ottavo posto con 42 ingiuste detenzioni risarcite. In base al valore dell'indennizzo riconosciuto, invece, la classifica del 2019 vede al primo posto Reggio Calabria, con 9,8 milioni, seguita da Roma con 4,9 e da Catanzaro con 4,5. A sottolineare con forza gli sconvolgenti risultati dell'indagine è stato ieri un solo parlamentare: Enrico Costa, deputato e responsabile del dipartimento giustizia di Forza Italia. «A pagare per le ingiuste detenzioni è solo lo Stato», ha protestato, «mentre il magistrato non paga mai». Costa ha anche rimproverato di scarsa attenzione il ministro grillino della Giustizia, Alfonso Bonafede (il quale solo pochi mesi fa aveva peraltro dichiarato che «nessun innocente finisce in carcere»). Costa ha chiesto al Guardasigilli «come possa restare immobile davanti a queste cifre: così facendo sostiene implicitamente la tesi di Piercamillo Davigo sugli indennizzati per ingiusta detenzione, in base alla quale «in buona parte non si tratta d'innocenti, ma di colpevoli che l'hanno fatta franca»». Costa, che di professione è avvocato penalista, ha ricordato che in realtà chi finisce ingiustamente in prigione quasi sempre ne ha la vita distrutta, e che «molte situazioni rasentano il sequestro di persona». Il deputato ha quindi invitato la Camera a esaminare una sua proposta di legge, che punta a infliggere sanzioni disciplinari ai responsabili degli arresti facili. «Ne abbiamo chiesto l'urgente calendarizzazione in Commissione giustizia», ha detto Costa, «e ora vedremo se la maggioranza l'affosserà ancora una volta». A fronte dei numeri, obiettivamente sconvolgenti, quanti procedimenti disciplinari sono stati aperti nei confronti dei magistrati (presunti) responsabili? Secondo ErroriGiudiziari, per le circa 3.000 detenzioni riconosciute ingiuste nei tre anni dal 2017 al 2019, sono state promosse in tutto 53 azioni disciplinari: 16 si sono concluse con l'assoluzione o con il non luogo a procedere e 31 sono ancora in corso. Solo quattro hanno portato alla «censura»: una tiratina d'orecchie per chi ha lasciato languire in carcere un innocente.
(IStock)
L’allarme: le norme verdi alzano i costi e favoriscono i gruppi che operano all’estero.
(Ansa)
Il colosso cinese offre un superbonus da 10.000 euro per i clienti che rottamano i vecchi modelli. La promozione sostiene il fatturato mentre calano gli utili e le immatricolazioni. Più forte la concorrenza dei marchi orientali che dominano il mercato.
Martha Argerich (Michela Lotti)
La leggendaria pianista argentina: «Suono troppo, ho molti dubbi e non so cosa fare del tempo che mi resta. Quest’arte però è grande come l’amore. Non può sconfiggere il male, ma ha il potere di toccare l’inconscio».
di Carlo Melato da Portoferraio, Isola d’Elba
La folta chioma color argento e le mani vigorose «forgiate per il pianoforte», come affermò Vincenzo Scaramuzza, tirannico maestro fissato con l’anatomia che la temprò quando era bambina. Il sorriso buono che ripara l’interlocutore dal fuoco che brucia dentro e il portamento da fata gentile che custodisce i terribili segreti del suono. Tutto secondo copione: Martha Argerich, a 84 anni, è l’inconfondibile leonessa di sempre. L’elemento spiazzante, a poco più di un’ora dal concerto più importante del Festival internazionale Elba isola musicale d’Europa - diretto dal vecchio amico George Edelman - è che la leggendaria pianista argentina, solitamente restia a farsi intervistare («Difficile parlare di musica, è la musica che parla», il suo primo comandamento), accetti l’invito proprio quando per lei sarebbe il momento di riposare. I suoi colleghi infatti corrono a nutrirsi dopo due ore di lavoro regalate alla curiosità del pubblico (spoiler: la serata si concluderà in un trionfo), nelle quali l’antidiva in purezza del concertismo mondiale è riuscita nel miracolo di dirigere attraverso le espressioni del suo viso.
La Argerich ci attende sullo sgabello. Con la mano destra regge una lattina di Coca-Cola che oscilla pericolosamente a pochi centimetri dalle corde e dai martelletti di uno Steinway gran coda, mentre la sinistra non riesce a smettere di cercare nuovi accordi, senza che questo distragga minimamente l’artista.
Le prove aperte sono un preludio di questo evento al Teatro dei Vigilanti di Portoferraio: prima il Quintetto per due violini, viola, violoncello e pianoforte op. 44 del suo «amico dell’anima», Robert Schumann, poi il Concerto per pianoforte, tromba e orchestra d’archi op. 35 di Dmitri Shostakovich, a 50 anni dalla morte del compositore russo.
«Schumann lo amo ancora moltissimo, è una persona eccezionale».
Ne parla come se fosse vivo...
«Adoro anche il concerto di Shostakovich, soprattutto in questo periodo difficile per il mondo. Sappiamo che il suo autore pagò sulla propria pelle i guai che gli causò Stalin. Il rapporto di forza tra il dittatore e il musicista fu davvero singolare (Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk - che il teatro alla Scala farà rivivere nella Prima di Sant’Ambrogio - costò al ventisettenne Dmitri una condanna pubblica sulla Pravda, alla quale seguirono censure, emarginazioni e violente pressioni psicologiche, ndr). Ma dobbiamo sottolineare l’eccezionale formazione da camera di questa sera».
L’Elba festival orchestra strings.
«Non consideriamolo “un ensemble di giovani”, anche se chiaramente sono tutti meno vecchi di me» (ride).
Età a parte, si sente una maestra in questo contesto, una guida?
«No».
Dai loro volti però traspare l’emozione di fare musica con lei: non è un privilegio?
«Così dicono… Comunque loro suonano benissimo. E c’è la prima tromba dell’orchestra dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia, Alfonso Gonzales Barquin. Devo dire molto, molto bene...».
La sua espressione lascia intendere un «ma»…
«Beh, il pianoforte ha un suono duro, secco. L’accordatore però ha fatto i miracoli».
Durante le prove ha bisbigliato a lungo con i professori d’orchestra.
«Anche questo teatro è particolare…».
Porta la firma di Napoleone, ma è una piccola bomboniera da 250 posti. Sono le dimensioni a complicare l’acustica?
«L’ultima volta che ho partecipato al festival avevo un pianoforte Fazioli ed eravamo all’aperto. Ricordo un’arena meravigliosa e un caldo pazzesco. Oggi gli elementi sono tutti diversi… La verità è che sono io a sentirmi strana. Nei giorni scorsi ero così stanca che non sapevo nemmeno se sarei riuscita a raggiungere l’isola. Non sono in forma: oggi più o meno, in realtà non lo so…».
Rileggendo la sua biografia, L’enfant et les sortilèges di Olivier Bellamy, ci si accorge che il peso dell’agenda che trabocca di concerti, soprattutto dopo i precoci trionfi al Concorso Busoni e a quello di Ginevra all’età di 16 anni, non l’ha mai abbandonata. Moltissimi anni fa arrivò a procurarsi un taglio a un dito per trovare una tregua. In questa fase della sua vita il palcoscenico le è amico?
«Difficile rispondere. Vivo in uno strano stato: tante domande, sono perplessa riguardo a me stessa».
Cosa la preoccupa?
«Non sono contenta di suonare - e soprattutto viaggiare - così tanto. Non so perché lo faccio, ma da questo punto di vista sono sempre stata contraddittoria. Faccio cose che non ho voglia di fare e poi… mi piacciono. Strano no?».
Gli applausi e l’amore che il pubblico le dimostra sono un sollievo?
«Non sempre perché penso a ciò che verrà dopo. Vorrei avere più tempo libero e non essere soltanto una pianista. Mi piacerebbe scoprire altro…».
Cosa?
«Per capirlo servirebbe la libertà che mi manca. Sono vecchia ormai. Non so cosa fare del tempo che rimane».
Si dice che lei sia perfezionista con sé stessa, ma non con il prossimo. Il direttore d’orchestra Enrico Fagone mi ha confidato che rimane sempre colpito dalla generosità con la quale lei coinvolge musicisti dei quali ama abbracciare la fragilità. Condividere la musica con le persone care le dà gioia?
«All’amicizia tengo molto, è un aiuto reciproco. Per me è stato decisivo il rapporto con Claudio Abbado. Quando lo conobbi ero una bambina e lui un giovane pianista: il migliore in quella masterclass a Salisburgo con Friedrich Gulda. Eseguiva la parte solistica dei concerti mentre io vestivo i panni dell’orchestra all’altro pianoforte. Non poteva ancora immaginare che sarebbe diventato un grande direttore. Poi ricordo Maurizio Pollini. I nostri diversi stili ci colpirono a vicenda. Ci incontrammo al Concorso di Ginevra e ogni volta che ci penso mi viene da ridere…».
Perché?
«Uomini e donne gareggiavano separati (la Argerich vinse, il formidabile pianista italiano arrivò secondo nella categoria maschile, ndr). Claudio e Maurizio non ci sono più e mi mancano terribilmente».
Il festival dell’Elba ha visto anche sua figlia, Annie Dutoit Argerich, dare corpo e voce alla Ode a Napoleone di Lord Byron, trasfigurata musicalmente da Arnold Schönberg in una specie di dodecafonia dal volto umano. Byron, come Schönberg, sembra molto critico verso quel Bonaparte che su quest’isola lasciò il segno, se ne andò 210 anni fa per riconquistare il mondo, senza però sapere che nel suo destino c’era Waterloo.
«Una prova molto difficile, Annie è stata bravissima (bis in programma a Oxford il 22 gennaio 2026 per il compleanno dello scrittore romantico, ndr). La delusione di Byron è propria di chi ha tanto amato. Ne ho parlato a lungo con mia figlia e mi ha convinto» (ride).
«La tomba è stato il tuo unico dono per chi ti adorava», sentenzia il poeta a proposito dell’«uom fatale». Ricorda la disillusione di Beethoven o quella di Manzoni: «Fu vera gloria?». Anche lei, sul New York Times, si è chiesta: «Cosa siamo noi pianisti? Niente».
«È vero, anch’io mi domando a cosa serva la gloria. In un film di Pedro Almodóvar (Tutto su mia madre, ndr) una donna afferma: “Il successo non ha sapore, né odore”. È così. E, in qualunque campo, non è nemmeno stabile. Pensi a quanti presidenti vengono eletti e poi scaricati dal popolo».
Ma quindi a cosa serve la musica?
«È un miracolo, la meraviglia della vita. È come chiedersi a cosa serve l’amore. Nella mia esistenza ho conosciuto una persona a cui non piaceva la musica, di qualunque tipo e genere. Non mi è mai più capitato».
È un’arte che regge l’urto davanti al mondo in fiamme?
«È l’espressione di qualcosa che non conosciamo fino in fondo. Di sicuro ha un potere enorme. Fare musica insieme è fondamentale, parla all’inconscio. Basti pensare a cosa ha generato Daniel Barenboim con la sua West-Eastern Divan orchestra (formazione che riunisce musicisti proveniente da Israele, Palestina e non solo, ndr). È molto interessante. Purtroppo però non basta».
Da Est al Medio Oriente è il male a trionfare?
«Ho conosciuto la madre di un ostaggio israeliano, rapito a 22 anni. So che suonava il pianoforte, nel frattempo ne ha compiuti 24. Spero che sia ancora vivo. Sono sofferenze terribili…».
Qual è il vero compito degli artisti oggi? Schierarsi?
«In qualche modo è sempre stato così. Arturo Toscanini o Pablo Casals lo hanno fatto, altri no. I musicisti sono persone, non immagini. Rispondono alla loro coscienza».
C’è un luogo nel quale trova la pace?
«Nella musica di Ludwig van Beethoven. Sono alle prese con la Grande fuga».
Da bambina scrisse che il padre della musica era Johann Sebastian Bach. Il suo Dio Beethoven. Ha cambiato idea?
«No, ma oggi sono politeista» (ride).
Prima ha citato Gulda, che per lei ha rappresentato un vero e proprio maestro di libertà. Le ha trasmesso anche la passione per il jazz?
«Certo. Erroll Garner è meraviglioso, Art Tatum mi ricorda Rachmaninoff e poi adoro Chick Corea. Mi spiace che sia scomparso. Tra le nuove leve vado matta per la giapponese Hiromi».
Domenica ci sarà la finale del Busoni. Per la sua vita, la vittoria del 1957 fu la palla di neve che scatenò la valanga. Cosa augura ai partecipanti?
«Di vincere, non è detto che si debba essere travolti. A proposito, sono rimasta impressionata da una giovane pianista».
Il suo nome?
«Martina Meola, 12 anni, vive a Milano. Ero nella giuria del concorso “Jeune Chopin” e ci ha regalato una ballata del compositore polacco meravigliosa».
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Papa Leone XIV (Ansa)
Da domani, il pellegrinaggio Lgbt a Roma con messa («profetica», dice lui) di monsignor Savino. Prevost, però, non riceverà i fedeli omosex, anche se il loro ideologo, il gesuita Martin, giura: «Prevost è come Francesco». Mentre Zuppi lo tira per la stola sui migranti.