2025-01-25
Gianni Frasi, l’ultimo re del caffè. Un bluesman cacciatore di chicchi
Morto a Verona nel 2018, il torrefattore ha dedicato la sua intera vita a selezionare i prodotti migliori. Per lui la qualità non era un optional ma il fulcro del lavoro. Anche con il pepe che scovava fino al Borneo.È stato una figura tanto interessante quanto originale, di artigiano della qualità, il veronese Gianni Frasi, improvvisamente scomparso nel dicembre del 2018. Un personaggio che non poteva passare inosservato a chiunque abbia avuto a che fare con lui dopo una lunga marcia di avvicinamento, posto che Frasi non concedeva automaticamente a tutti la password per entrare in contatto con lui. Uno stile originale, ben sintetizzato da Franco Ziliani: «Frasi ha saputo fare della non pubblicità una forma mediatica vincente». Un rarissimo esempio di eccellenza che «non ha la necessità di farsi cercare, ma viene inseguito» per entrare nel suo mondo. Potrebbe sembrare il ritratto di un misantropo, ma è Paolo Massobrio a svelarne l’arcano: «Per Gianni Frasi il rapporto umano era tutto. Quando venivi ammesso a varcare la porta del suo laboratorio in via Vittorio Merighi, a Verona, ti chiedeva di dimenticare il tempo». Conclude il ritratto Lorenzo Fabiano: «Avere a che fare con lui assumeva un che di catartico. Lo sguardo fisso negli occhi per stimolarti a far uscire il meglio di te. Un personaggio unico, per originalità e magnetismo. Cultore della perfezione che cercava e coltivava in modo maniacale, addirittura ieratico. La qualità era per lui l’assoluto». Con una vena autoironica spiazzante, come ben descritto dal suo conterraneo Stefano Lorenzetto: «Gianni Frasi è forse il massimo esperto di caffè che ci sia in Italia, ma guai a dirglielo, comincia a sbuffare come una moka». Anzi, quando gli viene chiesto, dopo una vita di passione e lavoro, cosa gli ha dato il caffè, la risposta è fuori spartito: «Pensandoci bene due ernie». La conseguenza di sollevare, ogni giorno, sacchi da qualche decina di chili.Ma è ora di riavvolgere la pellicola e raccontarne meglio la storia, al di là della leggenda. «Il caffè è la bevanda più bevuta e meno conosciuta al mondo». L’Italia ne è patria storica, dai primi caffè veneziani all’invenzione della prima macchina espresso, nel 1884, da parte del torinese Angelo Moriondo. Frasi è l’erede di una lunga storia, iniziata a fine Ottocento, da un certo Prando, proseguita poi dallo zio Giovanni Erbisti: fu lui a creare il marchio Giamaica caffè, assieme a Franco Frasi, stella dell’Hellas Verona che contribuì a portare in Serie A negli anni cinquanta.Il figlio Gianni ne prosegue le gesta. Con una missione specifica: qualità e tradizione, nel massimo rispetto della materia prima. Quando era ancora in calzoni corti, negli anni Sessanta, esistevano nel nostro Paese 9.500 torrefazioni artigianali, ridotte ora a meno di 500. Eppure, dentro quel piccolo chicco, quanta magia. Il caffè è tutto un mondo concentrato, dal valore assoluto. Caffè è la pianta. Caffè la bacca, ma anche la bevanda e, da ultimo, il luogo dove lo si beve. «Il caffè è l’unico frutto di cui si butta via tutto».Da un frutto che ricorda una ciliegia vengono gettate la buccia, i semi, il pergamino (la membrana che li avvolge). Rimane un osso di stupefacente resistenza che si sottopone al battesimo del fuoco, con una attenta tostatura, salvo poi essere eliminato come fondo una volta che ha ceduto all’acqua, sotto adeguata pressione, il meglio di sé. Il caffè ti concede l’anima, se sai estrarla, e qui sta la chiave di volta. Non basta una adeguata coltura, una conseguente raccolta. Il tutto sarebbe vano senza una tostatura attenta, su misura, sacco per sacco, chicco per chicco.Come ricorda il suo erede naturale, Simone Fumagalli, l’altro figlio di Stefania, la compagna di una vita cui Gianni Frasi ha trasmesso l’arte senza insegnare nulla, semplicemente con il suo impegno quotidiano, «è la tostatura con il fuoco diretto, controllata dall’esperienza, con l’occhio “millimetrico” a valutarne il momento esatto in cui il fuoco compie la sua missione sul chicco, dandogli quell’inconfondibile colore di tonaca di frate, che permette di ottenere il massimo di quanto questo può dare». Non a caso il caffè «andrebbe valutato nella sua amara eleganza», con le mille sfumature che può regalare. L’uso dello zucchero è un mascara organolettico che pone un silenziatore sugli inevitabili limiti del prodotto industriale. Perché, ritornando a Gianni «magister», «il vero caffè ha un valore mistico, per le sensazioni che può offrire, con un lieve retrogusto salato, un caleidoscopico ventaglio sia al palato che all’olfatto». Il cambio di passo per Gianni Frasi è avvenuto con l’incontro con Marcelo Vieira, un latifondista brasiliano nella regione del Minas Geiras, discendente di un lontano avo proveniente da Sao Tomè, poco sotto la Guinea, la costa africana dell’Atlantico.Frasi, abituato alla paziente lavorazione che aveva respirato nel laboratorio di famiglia, il Giamaica caffè, colse subito le enormi potenzialità di quelle varietali ma si stupì di come tutte le varie fasi, dalla coltivazione alla raccolta, venissero penalizzate da una catena produttiva presa oramai dalla frenesia dei grandi numeri. Estrasse dalla tasca alcune vecchie foto di emigranti italiani che proprio lì, in Brasile, ai primi del Novecento, provvedevano manualmente a ogni fase della raccolta. Gianni aveva fatto sua una regola che si ispirava ad un editto emesso il 16 luglio del 1700 dall’imperatore d’Austria Leopoldo I° che vietava, nel campo della torrefazione, di andare in cerca di clienti come di sottrarli, con vari mezzi, ai propri colleghi. Allora, a Vienna, i torrefattori erano quattro. Due austriaci, un croato e un marrano (ebreo convertito). La qualità prima di tutto, sempre e comunque.Frasi divenne un rabdomante delle migliori nicchie di piantagioni caffeiniche nei diversi continenti, andando di persona a verificarne tutti i vari aspetti in loco. Ecco allora che, nella piccola élite prodotta da Giamaica caffè, troviamo diverse declinazioni.Tra una piantagione e l’altra nei cinque continenti, Gianni Frasi non dimenticò di coltivare un’altra sua passione, il mondo del blues, con il proprio gruppo, la John Papa boogie band: lui era la voce solista «dal timbro cavernoso, che ruggiva energia». Una storia nella storia. Negli anni Novanta Gianni Frasi era, per i cultori della materia, «Il caffè» italiano, ambito da ristoratori, non necessariamente stellati, come dispensatori di tazzine quotidiane nei vari angoli del Bel Paese. Il destino può essere fatto di sliding doors, come il famoso film. Nel 2004 Frasi decide di accompagnare l’amico Celso Fadelli, un veneziano mago delle essenze profumiere, in un suo viaggio esplorativo nel Borneo Occidentale. L’incontro è a Kuchin, la capitale dello Stato di Sarawak, il luogo nativo del re delle spezie: il pepe. Si ricrea un film già visto, quello nel Minas Geiras di qualche anno prima. Il pepe viene venduto all’ingrosso, i produttori intenti a fare cassa con prodotti trattati alla bell’e meglio. Frasi non riesce a trattenersi. Parte con il suo mantra, regola di vita, anche perché la casa madre, a Verona, aveva avuto esperienze pepate sino agli anni Sessanta. A chi si stupiva di tanto coinvolgimento la risposta conseguente, Celso Fadelli testimone: «Voglio restituire a questa spezia la sua dignità. Ci sarà un motivo se un tempo, con tre chili di pepe, i veneziani si compravano un palazzo sul Canal Grande». Il suo sermone trova interlocutori di distratta attenzione, salvo Mr Siew, un piccolo produttore che si alza silenzioso e invita «Mr italian coffee» e il suo amico nel suo piccolo regno.Prende così vita Maricha, traduzione di pepe dal sanscrito, una piccola enclave di autentica eccellenza creata per l’amore della sua vita, la brava Stefania. In un piccolo borgo della Valpolicella, l’unico laboratorio al mondo ad occuparsi solo ed esclusivamente di pepe. Una nuova storia, di cui Frasi è stato buon seminatore.