
Il presidente del brand che produce borse e calzature: «Ci sono clienti che serviamo da oltre 40 anni: non li abbiamo mai delusi».Le mani d’oro degli artigiani di Rodo non potevano che colpire le grandi star. Lo testimoniano le pareti di una grande sala dell’azienda, oltre 150 metri quadri, tappezzate delle immagini delle celebrità che sul red carpet di Awards e Grammy, hanno scelto il meglio del made in Italy, scarpe e borse di altissima fattura. «La settimana scorsa abbiamo avuto J.Lo, Heidi Klum con la figlia, Meryl Streep, Nicole Kidman, Jessica Alba», racconta alla Verità Gianni Dori, presidente di Rodo che, col fratello Maurizio Dori, governa l’azienda, «Ogni stagione ci sono almeno cinque sei celebrity che indossano Rodo sulle passerelle più importanti al mondo». D’altronde, gli accessori di Rodo sono delle vere e proprie opere d’arte, rese preziose da dettagli-gioiello applicati a mano.Come siete nati? «Alla fine degli anni Quaranta, Romualdo Dori, nostro padre, entra nell’azienda di famiglia a Lastra a Signa, in provincia di Firenze, che realizza pregiati cappelli in paglia di Firenze, segno distintivo dell’eleganza dell’epoca. Negli anni Cinquanta ha l’intuizione del midollino, utile non solo per fare delle ceste da panni e da mercato ma anche per diventare borse di lusso e va, con il suo amico Gigi, che gli rimarrà accanto per settant’anni, a cercare nelle Marche, l’unica zona di tradizione artigianale per l’intreccio dedicato ai cesti, chi può realizzare il suo progetto. Trovati i cestinai che d’inverno, liberi dai lavori nei campi d’estate, intrecciavano le borse, nel 1956 avvia una propria attività per sviluppare tecniche di produzione, stili e prodotti nuovi. La denomina Rodo, come le sillabe iniziali del suo nome e cognome». Gli ordini furono subito importanti? «Assolutamente sì. I due mercati che si interessarono al prodotto furono Giappone e Stati Uniti, agli inizi degli anni Sessanta». L’America l’avete poi abbandonata: come mai? «Nel 2008, con la grossa crisi finanziaria, ci fu anche una riduzione notevole degli ordini da parte dei department store, i budget erano stati ridotti oltre il 40% e le scelte cadevano solo sui marchi di grande fama. Ci fu un totale cambiamento di mercato ma ancora oggi abbiamo più di 35 clienti negli Stati Uniti, alcuni da tantissimi tempo. E così in tante altre parti: con Lane Crawford di Hong Kong, il rapporto commerciale prosegue da oltre 42 anni, con la nostra partner di Giacarta e Singapore sono 46 anni che si lavora insieme, con Harrods di Londra da 32. Questa è una soddisfazione: quando hai clienti che ti seguono per così tanti anni, significa che non li hai mai delusi». I mercati più importanti oggi, quali sono? «L’Asia a partire dalla Cina, Hong Kong, Taiwan, Giappone. Tutta l’Asia rappresenta più del 50% della nostra produzione. In totale contiamo oltre 130 clienti nel mondo».Voi producete anche per i grandi marchi? «Sì, ancora oggi e devo dire che è passato di tutto di qui. Da Rodo vengono per fare cose particolari. Abbiamo anche una officina meccanica per dettagli in resina. Le nostre guarnizioni sono sempre state di notevole pregio al di là della raffinatezza del filo in midolliono tinto in filo e poi intrecciato. Secondo mio padre, un dettaglio in metallo fa la borsa. Tanto che nel 1957 a Firenze creò Aba, Accessori bigiotteria e affini, una piccola officina dove iniziò a fare tutte le cerniere, i salterelli e i vari dettagli in ottone con placcatura in galvanica in oro 24 carati». Non solo midollino, dunque. «Broccati, rasi di seta, nappe di agnello che decliniamo in vari metallizzati, strapicciati, bordorè... Il midollino rappresenta un 30% della produzione, tutta made in Italy. Oggi Rodo ha una vendita di calzature superiore alle borse». Quando avete iniziato a inserire le scarpe? «Nel 1975. Dopo un anno e mezzo a Parigi, dove al mattino andavo alla Sorbona a imparare il francese e il pomeriggio in un negozio, nostro cliente, a vendere scarpe, tornai e dissi a mio padre: “Babbo, perché non ci mettiamo a fare le scarpe anche noi?”. All’epoca facevamo 25.000 borse per la Charles Jourdan in capretto, abbinate alle loro scarpe a tacco alto, una realtà da 5.000 paia di scarpe al giorno. Dopo qualche resistenza, siamo partiti commercializzandole con Lamos poi si decise di spostare a Mogliano, la nostra sede, una ventina di persone a rotazione, dove avevamo comperato un piccolo calzaturificio che ci insegnò a fare le scarpe». Siete arrivati alla terza generazione, la fortuna della famiglia «È così. Giorgio e Lorenzo, i miei figli, si occupano rispettivamente delle scarpe e dell’area commerciale. Martina, figlia di Maurizio, delle borse. La nostra azienda è a metà tra me e mio fratello».Cosa c’è nel futuro di Rodo? «Il primo obiettivo è tornare con un negozio a Milano dopo averlo dovuto lasciare gioco forza perché tutto il building di corso Matteotti è stato dato a un famoso club esclusivo. Per ora non sono riuscito a trovare una alternativa per riaprire nel Quadrilatero. Secondo step, il negozio in Cina. I monobrand sono indispensabili per amplificare la conoscenza e la visibilità del marchio».
Zohran Mamdani (Ansa)
Nella religione musulmana, la «taqiyya» è una menzogna rivolta agli infedeli per conquistare il potere. Il neosindaco di New York ne ha fatto buon uso, associandosi al mondo Lgbt che, pur incompatibile col suo credo, mina dall’interno la società occidentale.
Le «promesse da marinaio» sono impegni che non vengono mantenuti. Il detto nasce dalle numerose promesse fatte da marinai ad altrettanto numerose donne: «Sì, certo, sei l’unica donna della mia vita; Sì, certo, ti sposo», salvo poi salire su una nave e sparire all’orizzonte. Ma anche promesse di infiniti Rosari, voti di castità, almeno di non bestemmiare, perlomeno non troppo, fatte durante uragani, tempeste e fortunali in cambio della salvezza, per essere subito dimenticate appena il mare si cheta. Anche le promesse elettorali fanno parte di questa categoria, per esempio le promesse con cui si diventa sindaco.
Ecco #DimmiLaVerità del 10 novembre 2025. Il deputato di Sud chiama Nord Francesco Gallo ci parla del progetto del Ponte sullo Stretto e di elezioni regionali.
Donald Trump (Ansa)
La Corte Suprema degli Stati Uniti si appresta a pronunciarsi sulla legittimità di una parte dei dazi, che sono stati imposti da Donald Trump: si tratterà di una decisione dalla portata storica.
Al centro del contenzioso sono finite le tariffe che il presidente americano ha comminato ai sensi dell’International Emergency Economic Powers Act (Ieepa). In tal senso, la questione riguarda i dazi imposti per il traffico di fentanyl e quelli che l’inquilino della Casa Bianca ha battezzato ad aprile come “reciproci”. È infatti contro queste tariffe che hanno fatto ricorso alcune aziende e una dozzina di Stati. E, finora, i tribunali di grado inferiore hanno dato torto alla Casa Bianca. I vari casi sono quindi stati accorpati dalla Corte Suprema che, a settembre, ha deciso di valutarli. E così, mercoledì scorso, i togati hanno ospitato il dibattimento sulla questione tra gli avvocati delle parti. Adesso, si attende la decisione finale, che non è tuttavia chiaro quando sarà emessa: solitamente, la Corte Suprema impiega dai tre ai sei mesi dal dibattimento per pronunciarsi. Non è tuttavia escluso che, vista la delicatezza e l’urgenza del dossier in esame, possa stavolta accelerare i tempi.






