2025-03-09
Giacobino sabaudo. Professione: successore
Ezio Mauro, prima alla «Stampa» sostituendo Paolo Mieli, poi a «Repubblica» subentrando a Eugenio Scalfari, da cronista parlamentare ha scalato i gradini del potere inventandosi, con De Benedetti, il giornale-armato contro Berlusconi. Un’ossessione che finì per stufare persino Cdb.Cognome e nome: Mauro Ezio. Direttore della Stampa dal 1992 al 1996. Dopo Paolo Mieli. E di Repubblica dal 1996 al 2016. Dopo Eugenio Scalfari, il Fondatore. Per questo aka - conosciuto anche come - il Successore. Il cuneese di ferro.A Repubblica è rimasto come grande firma, diventando nel frattempo autore di inchieste per la tv, Rai e La7 (lontani i tempi in cui stigmatizzava la deriva videocratica della nazione, soggiogata culturalmente dal puzzone di Arcore).Ospite fisso dei talkshow left oriented, riconoscibile per eleganza, rigidità posturale, «ingualcibilità psicomorfa» simil Gianni Letta. «Veste come un autista della Fiat», valutò Giorgio Bocca - riferisce Giovanni Valentini ne Il romanzo del giornalismo italiano (2023) - quando prese il posto di Scalfari. Mauro: Topolino. Nano ghiacciato. O gigante, il contrario -per i giornalisti di Repubblica più adusi al cazzeggio- del «gigante nano» che lo sostituirà a Largo Fochetti, Mario Calabresi. Mauro. Un concentrato di perbenismo pedagogico e di bigottismo, pardon: azionismo, sabaudo.«Indole d’acciaio. Memoria d’elefante. Capace di rabbie gelide, e di ricordarsi di un vecchio torto da nulla, per rinfacciarlo a chi aveva osato mettersi contro, un giacobino pronto a tagliare la testa a chi non si adegua alla sua visione del mondo» (Giampaolo Pansa, dal 1977 al 2008 nella famiglia editoriale Espresso-Repubblica, in Carta straccia del 2011). Lo stesso Pansa, ne Il revisionista (2009), aveva però omaggiato le sue qualità: «Carattere, intelligenza, dedizione al lavoro. Come tutti i direttori di razza, anche Ezio ha fatto un giornale che gli assomiglia, anzi: che è il suo autoritratto», risultato non scontato avendo lui raccolto il testimone dall’uomo che non credeva in Dio (ma molto nel proprio ego): Il-Genio Scalfari.Sia quel che sia, non si resiste per vent’anni senza un fisico bestiale, determinazione, capacità, progetto («una certa idea dell’Italia», citazione di Piero Gobetti, stucchevolmente abusata dal nostro) e huevos, come gli spagnoli chiamano gli attributi. E difatti: «Ce l’abbiamo solo noi!» (lo scoop, I presume: comunque «è la sua frase preferita», secondo Pietrangelo Buttafuoco).Negli anni di piombo cronista di vaglia per la Gazzetta del Popolo a Torino. I terroristi lo risparmiano: è «un pesce piccolo», e non era una boutade.Negli anni Ottanta a Roma per la Stampa, a seguire la politica interna.«Eravamo cronisti parlamentari. Quando imboccava una pista, si mescolava ai colleghi. Appena nessuno badava più a lui, spariva. Il giorno dopo trovavi una sua intervista esclusiva o la notizia inedita attinta chissà dove. Da sberle» (Giancarlo Perna, Epoca, 1996).Passa a Repubblica, corrispondente da Mosca, 1988-90. Quindi torna a Torino condirettore di Mieli nel quotidiano Fiat.Gli succede nel 1992.Nel 1996, infine, direttore della Repubblica di Barbapapà. Per scelta dell’editore, il torinese CDB, Carlo De Benedetti (che l’aveva comprata da Scalfari e Carlo Caracciolo nel 1989: «80 miliardi di lire al primo, 300 al secondo», così Paolo Murialdi ne Storia del giornalismo italiano, 2005). Un fulmine a ciel sereno per l’Avvocato: «Mauro è stato per me un’autentica sorpresa. Ero sicuro che sarebbe rimasto alla Stampa non dico tutta la vita, ma almeno 10 o 15 anni» (Prima Comunicazione, settembre 1999). Pansa, nel suo la Repubblica di Barbapapà, 2013: «CDB aveva in mente un solo giornalista: Mauro. Scalfari avrebbe voluto Mieli, cresciuto all’Espresso. Oppure Bernardo Valli, cui affiancare come condirettore Valentini. Mi confidò Claudio Rinaldi (direttore all’epoca dell’Espresso, nda): «Eugenio pensa che l’Ingegnere sia un signore ingenuo e accetti di essere preso per il culo. Ma non è così. CDB vuole liberarsi dell’ombra di Scalfari». CDB e Mauro. Un patto tra piemontesi («falsi e cortesi»?), cementato dalla garanzia, per il primo, che il secondo avrebbe proseguito la lotta contro Silvio Berlusconi, iniziata con la guerra di Segrate per il controllo della Mondadori. Non un politico da combattere, anche con implacabile vis polemica, per le cose che faceva. Ma un simbolo, antropologicamente deforme, da demolire per l’Italia che incarnava: quella peggiore (innanzi tutto perché non leggeva Repubblica), con gente - che so - che assume «in nero» un dipendente ma poi suona nei programmi tv «de sinistra», o acquista casa pagando un prezzo ma dichiarandone uno inferiore, forse per barcamenarsi con il Fisco. Angelo Panebianco, su Liberal (1998): «I “repubblicani” non conoscono avversari con cui è possibile polemizzare, ma rispettandoli. Conoscono solo nemici da abbattere».Intendiamoci: il Cav ci metteva del suo per non «abbassare i toni».Il che legittimava, per i repubblicones, la guerriglia quotidiana alternata al cannoneggiamento ad alzo zero, le lettere di Veronica Lario e il tormentone delle 10 domande.Cui il Cavaliere mai rispose (però fece causa, perdendola). Dopo sei mesi, uscirono in silenzio di scena, anche perché «in realtà erano la traduzione in linguaggio presentabile di un’unica domanda: presidente, non sarà che le piace un po' troppo la figa?» (Guia Soncini per Linkiesta).Alla fine tale campagna assunse caratteri ossessivo-compulsivi perfino agli occhi dell’Ingegnere. Pansa: «Dopo aver lasciato il gruppo, mi vidi con De Benedetti, che esordì dicendo che Repubblica ormai gli ricordava un disco rotto: se Berlusconi fa cucù ad Angela Merkel, per tre giorni leggiamo sempre lo stesso editoriale. Non era più il foglio libertino e spiazzante di una volta, ma un pachiderma militante, un giornale prevedibile». Anche per questo Repubblica finì per per ingranare la retromarcia in edicola? Mah. Quel che viene riportato - da Pansa - è che Mauro, incontrando un vice di Daniela Hamaui, direttora dell’Espresso (che pubblicava le tabelle Fieg, la federazione degli editori di giornali, con le vendite dei quotidiani), lo apostrofò: «Quando la smetterete di rompermi i coglioni con i dati della Fieg?». Bastò quella domanda ringhiosa per far sparire la rubrica per sempre». Scalfari ha regnato dal 1976 al 1996 .Un ventennio.Idem Mauro.Un direttore ogni vent’anni. Negli ultimi otto, la media è precipitata a uno ogni due.Un tourbillon figlio di scelte ondivaghe del nuovo editore, la Gedi della Exor, holding della famiglia Agnelli di cui è capo John Elkann. Il matrimonio tra Repubblica e Stampa è del 2016.Mauro lo benedice il 3 marzo, certificando le «radici comuni di due mondi del giornalismo e della cultura». Affinità elettive inesistenti, a sentire l’Avvocato nel lontano 1981, intervistato proprio da Scalfari il 4 aprile: «Voi siete sempre stati un gruppo giornalistico e politico antidemocristiano, noi ovviamente no. Voi siete sempre stati schierati a sinistra, noi ovviamente no». Repubblica è, o è stato, un giornale-partito?Semmai che si è fatto partito.Edmondo Berselli: «Repubblica? Esplicitamente un giornale di sinistra. Anzi, forse semplicemente la sinistra, il luogo della passione, un’officina mentale» (Un giornale tra due fuochi, in Problemi dell’informazione, n. 1/1999). Al Festival del giornalismo di Perugia nel 2010 Mauro ha liquidato l’argomento come esempio di «pigrizia intellettuale». «È un rapporto tormentato, come tutte le storie di famiglia, quello tra la sinistra e il quotidiano che ha saputo raccontarla, sfidarla, stimolarla, interrogarla» (Angelo Agostini, nel volume la Repubblica-Un’idea dell’Italia, 1976-2006). E con Mauro «orientarla». Buttando lì la suggestione di «un Papa straniero» per il Pd o il campo largo (marzo 2010: «Un leader che non risponda ad apparati e cursus honorum tradizionali. Che esprima una discontinuità»). Salendo in cattedra nel 2012 per separare il grano dal loglio: «L’onda anomala del berlusconismo ha spinto nella nostra metà del campo (che noi chiamiamo sinistra) forze, linguaggi, comportamenti e pulsioni che sono oggettivamente di destra». Un’aggressione all’innominato Fatto, che replicherà con il direttore del tempo, il civile Antonio Padellaro: «È l’abitudine della casa: ammantarsi di spocchiosa superiorità per meglio insultare l’avversario». Non solo: «Notare il linguaggio da proprietari terrieri: “la nostra metà del campo”. Nostra di chi? Chi ve l’ha regalata? Cos’è, un lascito di Giorgio Napolitano?». E in un crescendo rossiniano: «In nome di cosa pensate di rappresentare “«”ciò che noi chiamiamo sinistra?”. Verrebbe da chiedere al direttore e al fondatore, che si credono dei padreterni, in nome di quale autorità morale decidono essi chi è di destra e chi di sinistra».Quando Mauro è sceso da cavallo nel 2016, una sua conoscenza degli anni Settanta torinesi, Giuliano Ferrara, gli ha reso l’onore delle armi: «Mauro non è il mio tipo, nel senso che è un vero e colossale esempio di giornalismo, e io ho la vanità di considerarmi uno stronzo, un faccendiere del pensiero forte, ma non un cronista. Ma ha fatto il suo dovere, e in altre forme continuerà a farlo, con un certo smalto: raccontare il mondo, diffondere idee». Pausa: «Per lo più sbagliate, ma idee».
«Haunted Hotel» (Netflix)
Dal creatore di Rick & Morty arriva su Netflix Haunted Hotel, disponibile dal 19 settembre. La serie racconta le vicende della famiglia Freeling tra legami familiari, fantasmi e mostri, unendo commedia e horror in un’animazione pensata per adulti.