Qual è il bambino migliore? La procreazione di fronte alle incognite dell’editing genomico

Un libro recente ricostruisce il dibattito sugli interventi genetici al fine di «migliorare» la prole. Quando sono giustificati? Solo in casi di malformazioni gravi? Un dibattito bioetico ricco di implicazioni filosofiche ed etiche.
Da genitori o aspiranti tali, dovremmo fare tutto il possibile per assicurare il meglio ai nostri figli? Posta così, la risposta a questa domanda sembra scontata: certo che sì. Chi mai oserebbe dire il contrario? Ai figli bisogna dare la migliore educazione che possiamo permetterci, farli vivere in un contesto per quanto possibile salubre, dar loro le cure mediche e il sostegno di cui hanno bisogno etc. Le cose però si complicano enormemente se nel «meglio» che è possibile offrire alla nostra progenie cominciamo a includere anche interventi genetici migliorativi. Ed ecco che, dall'ovvietà di partenza, siamo passati immediatamente nel campo di una quelle questioni bioetiche più controverse e divisive.
A questo tema complesso è dedicato un libretto uscito di recente per Fandango: Il bimbo migliore?, di Maurizio Balistreri. Sottotitolo: Che cosa significa essere genitori responsabili al tempo del genome editing. Per genome editing si intendono gli interventi volti a modificare il codice genetico a livello germinale o somatico. Nel primo caso, si tratta di cambiamenti che possono essere trasmessi, attraverso la riproduzione, alle generazioni successive, nel secondo, invece, si tratta di modificazioni che riguardano il singolo individuo e che non sono trasmissibili. La prima cosa da dire è che queste tecnologie esistono già, ma allo stesso tempo sono ancora ai loro esordi. Presentano quindi una grande varietà di incognite, anche solo dal punto di vista di un banale calcolo dei rischi. Siamo ancora nella fase in cui un intervento sul codice genetico potrebbe non portare ai risultati sperati e addirittura comportare, come «effetti collaterali», modificazioni non volute e potenzialmente dannosissime.
Per questa ragione, allo stato attuale della ricerca praticare editing genomico per correggere piccoli difetti, malattie curabili o per risultare immuni da malattie che non è facilissimo contrarre, non ha senso: si tratterebbe di affrontare un rischio molto alto per un beneficio troppo basso. Tuttavia, spiega Balistreri, «le cose cambiano se l’embrione presenta già gravissime anomalie genetiche e, a causa di questi disordini, chi nasce sarà condannato a vivere una vita breve in condizioni drammatiche». Anche questa eventualità, tuttavia, troverebbe diversi settori dell’opinione pubblica contrari all’intervento, perché è evidente che qui entrano in ballo sensibilità etiche e religiose che potrebbero vedere in qualsiasi modificazione genetica, in qualsiasi contesto, un «sostituirsi a Dio».
Il caso limite della malattia gravissima e altamente invalidante è del resto superato se solo ragioniamo con un minimo di prospettiva storica: va da sé che, con il passare degli anni, queste tecnologie saranno sempre più sicure, conosciute ed economiche, tali da azzerare, alla fine, l’incognita sui rischi. Che si fa, a quel punto? Balistreri cita il principio di procreative beneficence, coniato dal bioetico di origine romena, Julian Savulescu, che recita: «Se le coppie (o i singoli riproduttori) hanno deciso di avere un figlio, e la selezione è possibile, allora essi hanno una ragione morale significativa di scegliere il bambino – tra quelli che sono i bambini possibili – che, sulla base delle informazioni rilevanti disponibili, abbiamo motivo di pensare avrà la vita migliore o una vita che almeno non sarà peggio di tutte le altre». Di nuovo, qui il buon senso convive con molte obiezioni possibili. Per esempio, in un contesto sociale discriminatorio, in cui determinate caratteristiche genetiche concedano vantaggi oggettivi, il principio di beneficenza procreativa imporrebbe di «intervenire» affinché il bambino si trovi a essere incluso nel gruppo dominante.
Ma all’orizzonte non c’è solo lo spettro del «bambino perfetto», tipico di certa pubblicistica distopica. La selezione, a volte, può avvenire anche al contrario. Cito da un articolo di Repubblica del 2002: «Hanno trent'anni, sono americane, sono lesbiche, sono una coppia. Sharon Duchesneau e Candy McCullough non farebbero notizia se non avessero anche un altro paio di caratteristiche: di essere entrambe completamente sorde e di aver scelto di avere figli, tramite la fecondazione assistita, sordi anche loro». Alla fine le due donne ci sono riuscite: «Cinque anni fa hanno avuto Jehanne, una ragazzina che non sente e comunica solo a gesti. Cinque mesi fa Gauvin, un maschietto. Che da un orecchio non sente, dall'altro solo un po'. “Sceglierà lui se in futuro mettere un apparecchio acustico”, hanno detto le due donne alle quali il Washington Post ha dedicato una cover story».
Comunque la si guardi, la questione non è risolvibile con facilità e tutte le posizioni semplicistiche (sia in chiave proibizionista che bio-ottimista) rischiano di farsi sfuggire l’essenziale. Sfugge, soprattutto, anche nel libro di Balistreri, la portata eminentemente decisionista e in qualche modo prometeica delle questioni in ballo. Che se non possono essere fatte discendere da principi morali religiosamente fondati, difficilmente possono però essere giustificati solo sulla base di principi razionali o utilitaristici, intesi come valori incontestabili. È difficile, cioè, venire a capo di certi problemi se non si ha a monte una definizione chiara e socialmente unanime di ciò che è la «vita buona». E di concezioni della vita buona ce ne sono parecchie sul mercato delle idee, tanto più in una società esplosa e atomizzata come la nostra.
E, alla fine, torna in mente un’intuizione contenuta fra i frammenti postumi di Friedrich Nietzsche: «“Utile - dannoso”! “Utilitario”! Alla base di queste vane parole è il pregiudizio che sia stato stabilito in che direzione l'essere umano (o anche l'animale, la pianta) debba svilupparsi. Come se non fossero possibili, da ogni punto, migliaia di sviluppi! Come se la decisione su qual sia il migliore, il più alto, non sia una mera questione di gusto! (Un misurare secondo un ideale che non è necessariamente quello di un'altra epoca, di un altro uomo!)».