2022-02-26
Il gas, la finanza, i Balcani. Così l’Ue targata Merkel ha reso più potente lo zar
Tutti gli errori dell’Europa e dell’ideologia dell’allargamento a Est. Berlino ha inglobato i mercati degli ex satelliti Urss, Federica Mogherini ha lasciato il caos nei Balcani. Ignorando la sovranità energetica.Da Henry Kissinger a John Mearsheimer, i politologi realisti sconsigliano da sempre l’azzardo dell’espansione verso Oriente. Persino Romano Prodi, negli anni Novanta, invocava cautela.Lo speciale contiene due articoli.È il 2006 quando l’Europa scopre il freddo. Mosca e Kiev per la prima volta avviano un contenzioso sul gas che per settimane provoca un dimezzamento dei flussi. Colpendo soprattutto Germania e Italia. Nei mesi estivi si cerca una mediazione economica, che per un po’ funziona. Fino a ottobre del 2007, quando Gazprom minaccia di ridurre le sue forniture se Kiev non salda entro la fine del mese un debito da 1,3 miliardi di dollari. La richiesta cade guarda caso nel momento in cui a Kiev si sta formando un governo filo occidentale. Il tira e molla va avanti per ulteriori due anni, fino al 2009, quando l’Ue decide di intervenire. I problemi attuali nascono all’epoca e, nel merito, dal sovrapporsi di necessità e di strategie guidate, da una parte, dal mondo socialdemocratico europeo, che guarda a Barack Obama e al vice Joe Biden e, dall’altra parte, dal mondo del Ppe e della Cdu di Angela Merkel. La locomotiva tedesca, così è sempre stata chiamata, ha compreso che grazie alla moneta unica poteva avviare una nuova fase europea, quella dell’espansione nei Balcani e soprattutto a Est. L’idea era quella di allargare i confini Ue e inglobare nuovi mercati per far crescere le aziende tedesche e a ruota pure quelle italiane o francesi. Inutile dire che la strategia non poteva essere solo economica, almeno con l’intenzione di renderla stabile nel tempo. Ma doveva essere in seconda istanza politica e poi militare. Dopo aver inglobato un nuovo mercato di consumo, Berlino e Bruxelles hanno più volte messo sul tavolo l’ipotesi di vedere nascere governi filo Ue. Sapendo che ciò avrebbe dato fastidio al vecchio vicino russo si è sempre giocato a sbandierare la carta della Nato. Due esempi su tutti. La Macedonia del Nord e l’Ucraina. Nel primo caso, le pressioni portate avanti dal presidente Jean-Claude Juncker e da Lady Pesc, Federica Mogherini hanno avuto un enorme effetto destabilizzatore per Skopjie. Basti ricordare gli scandali delle intercettazioni illegali che sono serviti a mo’ di scusa per imporre giudici extra territoriali e forzare mediaticamente la mano a favore di Zoran Zaev, il premier socialista filo Obama e ben visto pure da George Soros. A soccombere è stato il partito di destra Vrmo, con un passato filo sovietico e un presente vicino al governo ungherese di Viktor Orbán. Intervenire a Skopjie è stato il secondo atto della presa del Kosovo e della limitazione territoriale della Serbia. Trascorsi oltre dieci anni, la politica di Mogherini & c. non ha portato certo ricchezza né stabilità nell’area, lasciando spazio alla crescita della Grande Albania e di comunità musulmane fin troppo vicine a estremisti del Medio Oriente. Stesso discorso, ma ancora più in grande, si può fare per le sorti dell’Ucraina. La svolta con le proteste di Piazza Maidan nel 2014 avrebbe dovuto fornire l’occasione all’Europa francotedesca di allargarsi fino alla Russia. Il culmine nel 2017, quando Juncker e Donald Tusk e Kiev celebravano lo speciale accordo con l’Ue. A osservare anche il capo della Nato, Jens Stoltenberg. Peccato che le promesse e le spinte di Obama, pur sovvenzionate con fondi europei, non hanno tenuto conto del problema di fondo. Cioè il gas, elemento scatenante della crisi del 2006. La soluzione avanzata dai tedeschi è stata quella di avviare due gasdotti in grado di aggirare l’Ucraina, con l’obiettivo di aprire un rapporto diretto con Mosca. Dei due gasdotti solo uno è passato dalla carta al cantiere. Si tratta del Nord stream 2, congelato giusto l’altro giorno per mano di Berlino. Sia tedeschi che russi hanno capito che quel tempo è finito e con esso la pipeline sotto il mar Baltico. Il risultato però è che l’Europa non ha creato una sua sovranità energetica, ha sperato di rendersi indipendente utilizzando la Nato senza voler pagare il conto. Conto che è arrivato adesso. La dottrina americana ha infatti spinto e sostenuto il continuo allargamento verso Est, consapevole che se i Paesi membri erano impegnati a inglobare nuovi territori non potevano pensare a diventare una federazione. L’Europa resta infatti il baricentro del mondo e gli Usa non desiderano uno solo al comando dell’Ue. Lo si comprende anche dalla posizione della Gran Bretagna, che prima ha soffiato sull’ideologia dell’allargamento e ora, dopo la Brexit, soffia sul fuoco dell’instabilità. Dal suo punto di vista fa benissimo. Il problema è il nostro. Il punto è capire che cosa succederà d’ora in avanti. Di certo gli Usa hanno conseguito un successo. Azzoppati i tedeschi, sono diventati gli unici interlocutori dei russi. Quanto lo siano o lo saranno si capirà a breve. Su tutto pende una domanda. Perché la maggior parte delle ambasciate, invece di evacuare e lasciare l’Ucraina, si è trasferita a Leopoli? I diplomatici sanno già che quello sarà un punto di caduta? Una nuova capitale? Fa parte di un accordo sotto banco tra americani e russi per spartirsi l’ex Paese sovietico? Potrebbe anche essere l’opposto. Cioè un semplice ripiego nell’attesa di verificare se Putin e Xi Jinping abbiano fatto un accordo a loro volta. Se fosse così, recuperare i danni della getsione Merkel e Juncker sarà molto ma molto difficile.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/gas-finanza-balcani-merkel-putin-2656793787.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="gli-esperti-avevano-avvisato-la-nato" data-post-id="2656793787" data-published-at="1645817719" data-use-pagination="False"> Gli esperti avevano avvisato la Nato Eravamo stati avvisati. Ce lo avevano detto i più brillanti studiosi di politica internazionale: portargli la Nato sulla soglia di casa avrebbe spinto Vladimir Putin a scatenare la guerra. Nella percezione del Cremlino, per esigenze difensive, più che per ambizioni imperialiste: l’Orso, già indebolito dallo sgretolamento dell’Urss, pretendeva una cintura di sicurezza attorno ai propri confini. Stringerlo a tenaglia significava indurlo a reagire con una zampata. Già nel 1997, il teorico del contenimento, George Kennan, fu esplicito: allargare a Est la Nato «sarebbe il più tragico errore della politica americana» nell’era postsovietica. Il diplomatico, che invero, nel 1949, criticò l’idea stessa di istituire l’Alleanza atlantica, sapeva che l’espansione verso Oriente avrebbe «infiammato le tendenze nazionalistiche, anti occidentali e militariste nell’opinione pubblica russa», danneggiando il processo di democratizzazione nella Federazione e restaurando «l’atmosfera della guerra fredda». Una profezia inascoltata: nonostante, dopo la caduta del Muro di Berlino, Michail Gorbaciov avesse incassato l’assicurazione verbale che la Nato non si sarebbe «spostata a Est di un millimetro», l’amministrazione Clinton, negli anni Novanta, diede nuovo impulso all’ampliamento del sodalizio militare. All’epoca, persino il presidente del Consiglio italiano, Romano Prodi, lucidamente invocava un approccio cauto: l’accrescimento dell’Alleanza non doveva suscitare più tensioni di quante ne avrebbe potute eliminare. Niente da fare: anzitutto ci fu la ratifica dell’ingresso di Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia; poi, arrivarono Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia, Slovenia. Finché, nel 2008, Washington iniziò a premere per l’ammissione di Georgia e Ucraina. L’accelerazione di Tblisi, con tanto di riannessione di Abcasia e Ossezia del Sud, innescò la prima reazione armata di Mosca. Un incidente che avrebbe dovuto far suonare, a Occidente, un campanello d’allarme. Invece, Stati Uniti ed Europa hanno continuato a perseguire l’imprudente strategia anche con Kiev. Nel 2014, all’indomani degli eventi di piazza Maidan e della destituzione del governo filorusso, fioccarono gli interventi critici della scuola realista. John Mearsheimer, ad esempio, vergò un saggio dal titolo eloquente: Perché la crisi ucraina è colpa dell’Occidente. A suo parere, Putin sarebbe passato alle vie di fatto, occupando la Crimea, per tre motivi: primo, perché la Nato si stava trasferendo «nel giardino della Russia»; secondo, perché l’Ue si stava espandendo e, terzo, perché essa aveva sostenuto «il movimento pro democrazia», a partire dalla Rivoluzione arancione del 2004. «Quando i russi guardano all’ingegneria sociale occidentale in Ucraina», scriveva Mearsheimer, «temono che il loro Paese possa essere il prossimo sulla lista. E tali paure difficilmente risultano infondate». Alla faccia del Putin autocrate psicotico: «L’Ucraina svolge la funzione di Stato cuscinetto, che è di enorme importanza strategica per la Russia. Nessun leader russo sarebbe rimasto immobile, mentre l’Occidente dava una mano a installare un governo determinato a integrare l’Ucraina» con Usa ed Europa. E intravedendo la prospettiva che la Federazione, tenuta sotto tiro da missili e truppe, fosse tagliata fuori dagli sbocchi sui mari caldi. Il punto, osservò Mearsheimer, era che «Washington può non gradire la posizione di Mosca, ma dovrebbe comprendere la logica che c’è dietro». Ecco: «comprendere». L’alternativa è la spirale degli slogan psicologisti e moraleggianti: Putin pazzo, dittatore, male assoluto. Sarà vero, ma ciò non esenta dal bisogno di ricorrere all’analisi razionale. Otto anni fa, anche Henry Kissinger, sul Washington Post, intervenne nel dibattito sulla crisi ucraina, aperto dall’editoriale bellicista di Zbigniew Brzezinski, consigliere per la sicurezza nazionale durante la presidenza di Jimmy Carter. Con molto equilibrio, il veterano della diplomazia americana tirava le orecchie sia all’inquilino del Cremlino («Dovrebbe capire che, quali che siano le sue rimostranze, una politica di imposizioni militari produrrebbe un’altra guerra fredda»), sia agli Usa e all’Europa, che non potevano ignorare il legame storico e strategico di Kiev con la Russia. Kissinger, meno radicalmente di Mearsheimer, sosteneva che l’Ucraina, pur non condannata al ruolo di Stato cuscinetto, potesse essere, sì, lasciata libera di aderire all’Ue, ma non alla Nato. Negli ultimi giorni, su Foreign Policy, è intervenuto pure Stephen Walt, che era stato chiarissimo già nel 2015: allargare la Nato ai Paesi dell’ex blocco sovietico è «un obiettivo pericoloso e non necessario». Il politologo ha contestato le perniciose ideologiche illusioni della diplomazia liberal, rimarcandone l’incapacità di convincere Mosca delle «benevole intenzioni della Nato». La Russia non ci ha mai creduto - e non per una perversa malizia dello zar. «I russi si guardano indietro», spiega alla Verità Germano Dottori, docente di studi strategici alla Luiss. «Ricordano che, negli anni Venti del Novecento, i loro soldati si addestravano con l’esercito di Weimar. Poi, con i tedeschi, nel 1939, si spartirono la Polonia. Eppure, il 22 giugno del 1941, Adolf Hitler attaccò l’Unione sovietica. Le intenzioni cambiano nel tempo». E il Cremlino non solo non vuole offrire un vantaggio strutturale agli avversari, ma ha pure paura dell’«esportazione del modello delle rivoluzioni colorate». Eugenio Di Rienzo, autore, nel 2015, per Rubbettino, di un volume sul Conflitto russo-ucraino: geopolitica del nuovo dis(ordine) mondiale, sostiene addirittura che «Putin, in una qualche misura, sia stato costretto a questo conflitto. Gli era stato assicurato che non fosse nell’agenda l’entrata dell’Ucraina nella Nato. Lui, però, pretendeva una garanzia scritta, pensando a quello che era successo a Gorbaciov e paventando che l’impegno dichiarato si riducesse a un protocollo diplomatico». Il messaggio degli esperti, da anni, è inequivocabile: piaccia o meno il regime di Putin, portare l’Alleanza atlantica alle frontiere dello zar è un azzardo. La Russia considera tale intento una minaccia esistenziale. Quel monito è stato ignorato. Il prezzo della temeraria sfida, oggi, è il sangue.