2022-11-06
Le pillole di galateo di Petra e Carlo: a cena nel castello
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C’erano una volta i diamanti: eterni, costosi, luccicanti, rassicuranti come una promessa sussurrata al momento giusto. La favola, però, ultimamente ha perso il fascino e la luce. E così, mentre l’oro corre sui massimi storici come bene rifugio in piena paranoia globale, la pietra più preziosa del mondo è scivolata ai minimi del secolo.
Le gemme più ricercate viaggiano sotto i 4.000 dollari al carato, contro i 6.811 del 2022. In tre anni un tonfo del 40%. Altro che taglio brillante: qui a essere tagliato è il portafoglio di chi ha comprato scommettendo sull’eternità del brillante e del suo valore. E così si spengono anche le certezze.
La discesa è talmente verticale che persino i grafici di Bloomberg sembrano una pista nera appena battuta. Il «re delle gemme» è sceso dal trono e ora guarda con sospetto i cugini sintetici fino a poco tempo fa considerati pura paccottiglia. Ora, invece, si scopre che sono più economici, più etici, più giovani e soprattutto più in sintonia con lo spirito dei tempi. D’altronde, se i regali di Natale 2025 devono obbedire ai canoni della spesa intelligente, che cosa c’è di più furbo di una pietra nata in laboratorio, che brilla uguale - se non di più - inquina di meno e non si porta dietro il racconto, sempre meno romantico, di miniere, fatica e sfruttamento di tanti lavoratori dalla pelle nera?
I diamanti, insomma, possono anche essere i migliori amici di una donna, ma si stanno rivelando il peggior incubo per i listini. Che cosa è successo nel regno luccicante del lusso extralarge? Presto detto: i mercati chiave si sono raffreddati. La Cina, soprattutto, è passata dall’euforia alla glaciazione, come un anello dimenticato nel secchiello dello champagne. I consumi rallentano, la fiducia pure, e il lusso - che vive di desiderio prima ancora che di reddito - ne paga il conto.
Nel frattempo, i diamanti nati in laboratorio e non nel ventre della Terra hanno invaso il mercato con la ferocia di una tempesta di glitter: identici agli originali, ma con prezzi capaci di far impallidire le miniere. Risultato? Le pietre naturali arrancano, e le miniere sudafricane guardano le centrifughe chimiche con la stessa simpatia con cui un vecchio libraio osserva Amazon.
Il comportamento del consumatore è cambiato: oggi si compra «sostenibile», «etico», possibilmente «carbon neutral». Un diamante scavato nel ventre di una miniera ha smesso di sembrare una storia d’amore e ha iniziato ad assomigliare a un problema di coscienza.
Come se non bastasse, anche la catena produttiva ha avuto la sua dose di guai. In India, cuore pulsante del taglio e della lucidatura, le fabbriche faticano. La domanda rallenta, la produzione pure, e i magazzini si riempiono di pietre che aspettano tempi migliori. De Beers, la storica regina dei diamanti, naviga in acque agitate: Anglo American, la casa madre, ha deciso di venderla, scatenando un’asta che ha più il sapore degli equilibri di potenza che del mercato. L’Angola punta alla maggioranza, il Botswana non ci sta, gli equilibri della geopolitica del Continente Nero si intrecciano con quelli finanziari.
Nel frattempo il mercato resta freddino. De Beers ha tenuto i prezzi fermi nelle ultime vendite e ha persino concesso agli acquirenti la libertà di dire «no, grazie». In un settore dove rifiutare un lotto era considerato quasi un sacrilegio, oggi è diventata prassi. Segno che l’aria è cambiata davvero.
Eppure, non tutto è grigio nel firmamento del lusso. Lvmh continua a mostrare i muscoli grazie a Tiffany & Co., che brilla di luce propria nel portafoglio del gruppo francese. Anche Kering, con Boucheron e Qeelin, rivendica vendite in crescita. Ma la sensazione diffusa è che il diamante, pur restando il simbolo universale dell’amore eterno, stia pensando seriamente di divorziare dal mercato.
In Europa e in Italia lo scenario non è molto diverso. I prezzi sono espressi in dollari, ma al dettaglio entrano in gioco margini, Iva e costi di finitura che rendono tutto apparentemente più caro. In realtà, il valore intrinseco si è assottigliato: se un tempo il diamante era sinonimo di investimento sicuro, oggi rischia di diventare un gioiello da indossare con ironia più che da custodire in cassaforte.
Il paradosso è servito: il diamante, eterno per definizione, ha scoperto di non esserlo affatto. Almeno quando si parla di prezzi.
Il 2025 si sta delineando come l’anno della consacrazione per i metalli, sia preziosi che industriali. Oro, argento, platino e rame hanno infranto quest’anno una serie di record storici, spinti da una convergenza di fattori macroeconomici, domanda industriale, restrizioni dell’offerta, tensioni geopolitiche e una crescente sfiducia nelle valute fiat.
L’oro ha superato per la prima volta nella storia la soglia dei 4.400 dollari l’oncia, segnando un incremento del 67% dall’inizio dell’anno, la migliore performance annuale dal 1979. L’oro gestito dalla Banca d’Italia ha visto il suo valore aumentare di 96 miliardi di euro in un solo anno.
Non è da meno l’argento, che ha registrato un rally vertiginoso del 128%, sostenuto da forte domanda industriale e limitazioni strutturali dell’offerta. Il rame si sta dirigendo verso i 12.000 dollari a tonnellata, trainato dalla corsa ai data center e dai possibili dazi americani in arrivo. Il platino fa segnare un +110% nell’anno, anch’esso sostenuto da domanda reale.
Il decollo dei prezzi non è un fenomeno isolato, ma il risultato di un mondo che è cambiato profondamente rispetto a solo un anno fa.
Mentre su argento, rame e platino a guidare il rialzo dei prezzi è un equilibrio precario tra offerta e domanda reale, in un momento in cui il ciclo delle commodity può innescare una rampa di rialzi vertiginosi, per poi cadere a fine ciclo. L’incognita, qui, è la durata del ciclo.
Sull’oro, invece, influisce soprattutto l’incertezza legata all’economia mondiale. Vi è il tema delle relazioni tra Stati Uniti e Cina, ad esempio, oltre che l’incertezza sull’economia negli Usa, tra inflazione, tassi di interesse e occupazione. Infine, la guerra in Ucraina e i timori di una sua prosecuzione o, peggio, allargamento.
A monte di tutto questo, però, c’è forse un aspetto più rilevante. Un fattore cruciale che alimenta la corsa all’oro è la percezione del rischio legata alle valute. Molti investitori sono preoccupati per l’erosione del valore dei titoli di Stato e delle valute fiat e si rivolgono quindi a valori tangibili. È un fenomeno noto come debasement trade. In questo contesto, l’aumento del debito, non solo di quello pubblico, ma anche di quello privato, spinge i capitali verso beni che preservano il valore nel tempo. Non è importante che ciò accada realmente, si tratta sempre di aspettative.
Ma sono soprattutto il congelamento delle riserve valutarie russe dal 2022 e le discussioni su un loro eventuale esproprio ad aver accelerato e rafforzato questa tendenza in maniera macroscopica, poiché il ruolo dell’oro come attivo di riserva, che può resistere alle sanzioni, ha acquisito importanza. Questo fattore, che possiamo ascrivere alla politica, si somma alle crescenti preoccupazioni sulla svalutazione della moneta e ha rafforzato l’incentivo anche per le banche centrali a mantenere una certa domanda di oro. Tutto ciò ha provocato un aumento delle riserve in oro delle banche centrali, infatti. Complessivamente, nel solo 2025 le banche centrali dei diversi paesi hanno comprato 850 tonnellate di oro da destinare a riserva.
Vi è poi in ballo il futuro della Federal Reserve. Regna una profonda incertezza sulla direzione futura della banca centrale americana. Non si tratta solo di capire chi sarà il prossimo presidente dell’istituto, ma di valutare quanto la FED sarà conciliante rispetto alle richieste del governo americano.
Il rally dei metalli nel 2025, insomma, non è una bolla speculativa, ma il riflesso di un riassetto globale. La combinazione di una domanda tecnologica forte e di una offerta limitata, delle tensioni belliche e di un debito in crescita ha creato un terreno fertile per i metalli. Per l’oro, mentre le banche centrali competono con gli investitori privati per l’offerta fisica limitata, lo sguardo rimane fisso sulla FED. Goldman Sachs recentemente ha ipotizzato che l’oro possa arrivare a 4.900 dollari nel 2026. Certo, ora siamo in quel territorio di confine in cui le profezie si autoavverano, ma i metalli oggi stanno agendo come un barometro della instabilità globale.
Reggere il confronto con un film come quello di Miloš Forman, vincitore di ben otto premi Oscar, è pressoché impossibile. Amadeus, l'Amadeus del 1984, adattamento a sua volta dell'opera teatrale di Peter Shaffer, è stato un capolavoro, fuori dal suo tempo e dalle logiche che lo governavano. Era eclettico, rock nell'accezione più pura del termine. Era avanguardia. E stare al passo, quarant'anni più tardi, sarebbe stato difficile. Non c'è da sorprendersi, dunque, se la serie omonima, l'Amadeus di Sky, al debutto nella prima serata di martedì 23 dicembre, non sia dotato di una stessa potenza narrativa. E non c'è da sorprendersi nemmeno nel constatare la mancanza di una colpa e di un colpevole. Amadeus, quello di Sky, è bello, un prodotto ben fatto e ben pensato, fedelissimo - per giunta - agli originali che lo hanno preceduto.
La storia è quella del film, la stessa della pièce teatrale: cronaca di una rivalità solo presunta. Wolfgang Amadeus Mozart e Antonio Salieri, che Shaffer e Forman hanno raccontato con clamore ed enfasi, non sono mai stati rivali. Eppure, ci si è abituati ad assorbirli come tali: due compositori tanto celebri quanto fumantini, animatori entrambi della Vienna di metà Settecento. Era in fermento, quando Mozart vi ha fatto la propria comparsa. Era giovane, bello: una rockstar ante litteram, maledetto quel tanto che basta da portare scompenso all'interno della corte viennese, fra parrucconi imbalsamati e ragazze suscettibili. La sua musica non aveva niente a che vedere con quel che finora era stato composto. Spazzava via ogni tradizione, ogni abitudine, ivi compresa quella di applaudire il genio di Salieri, allora compositore di corte. Perciò, l'opera di Shaffer e gli adattamenti successivi. Perciò, la leggenda di una rivalità che, agli atti storici, non è mai finita.Shaffer, a suo tempo, ha ricamato sulla propria fantasia, immaginando come Salieri possa aver vissuto l'ingresso di Mozart alla corte di Vienna. Quanto deve aver sofferto, quanta rabbia deve aver provato di fronte a quel ragazzo senza fede e senza Dio, geniale e talentuoso.
La serie televisiva, cinque episodi creati dal Joe Barton di Black Doves, ripercorre questa biografia stralunata, addentrandosi, lei pure, fra se e ma cui nessuno mai potrà dare risposta. Bravo il cast, bella la resa visiva, la potenza musicale. Peccato solo per il confronto, a perdere per chiunque ambisca, di qui a per sempre, a ricreare la rivalità fittizia tra i due compositori.
Gianluca Zanella e Francesco Borgonovo affrontano uno dei nodi più controversi del caso Garlasco: il tema della pedopornografia attribuita ad Alberto Stasi. Dalla denuncia contro la criminologa Anna Vagli alla ricostruzione delle perizie sul computer, la puntata chiarisce cosa fu realmente trovato, cosa no e perché quel presunto movente non è mai entrato nel processo.
«Gli Stati Uniti innovano. La Cina imita. L’Europa regolamenta». Recita il vecchio adagio. Che si parli di impresa o di tecnologia. E pure sui dazi, la storiella vale. Le tariffe di Trump hanno fatto parlare tutti di tutto. Dibattiti stucchevoli sui giornali e nei talk show televisivi. Ma alla fine, Trump i suoi dazi li ha imposti. E l’Ue li ha subiti. Del resto, si sa. Il cliente (gli Usa) ha sempre ragione. Neppure smaltita la depressione da parte degli europeisti, che ora pure la Cina mette i suoi di dazi. L’Unione europea si prende un’altra batosta. E gli europeisti muti.
Al momento i dazi sono provvisori ma si fanno sentire eccome. Si va dal 4,9% al 19,8% per le importazioni cinesi della nostra carne di maiale. Misura annunciata lo scorso 16 dicembre. Preceduta da quelli sul brandy pari al 34,9% in vigore dallo scorso 5 luglio. Si arriva ai dazi sulle nostre esportazioni di prodotti a base di latte e formaggio dal 22 dicembre. Si spazia dal 21,95 al 42,7%. È il frutto di un’indagine iniziata da Pechino nell’agosto 2023. Più di un anno prima che arrivasse Trump. Laddove i dazi non sono stati imposti, vedi i prodotti a base di gomma, è perché rimangono sui livelli precedenti con una ciclopica forchetta che spazia dal 12,5% al 222%. Sulle plastiche l’Ue subisce tariffe del 34,9% contro il 74,9% di ciò che importa dagli Usa.
Teoricamente dovrebbe essere Bruxelles ad avere la meglio in un braccio di ferro commerciale con Pechino. Così come Washington l’ha avuta con noi. Noi siamo infatti un grosso cliente per la Cina. Nel 2024 abbiamo importato dal Celeste Impero merci e servizi in misura pari a 562,5 miliardi di euro contro un export di 280,5 miliardi. Abbiamo cioè registrato, stando ai dati Eurostat, un deficit commerciale complessivo di 282 miliardi. Negli ultimi dodici mesi, al settembre 2025, lo sbilancio commerciale per quanto riguarda i soli beni ha toccato la cifra di 356 miliardi. Considerando che tradizionalmente il nostro surplus commerciale riguardo ai servizi non supera i 20 miliardi di euro, vi rendete conto da soli che a fine 2025 il nostro deficit commerciale con la Cina aumenterà considerevolmente. Ma se noi siamo un cliente e la Cina è un fornitore perché ne usciamo pure qui con le ossa rotte? Dovremmo essere noi ad avere la meglio coi cinesi così come Trump l’ha avuta con noi. E perché questo non succede?
Leggendo ciò che scrivono illustri esponenti del «partito cinese» in Europa e in Italia si intuisce perché non si parla di dazi cinesi e perché pure qui ne usciremo becchi e bastonati. L’armata del Dragone conta in Europa supporter di eccezione. Il più illustre è Romano Prodi. Il Professore non ha occhi (a mandorla?) che per Pechino. Appena 20 giorni fa in una delle sue consuete trasferte a Pechino intonava questa lode con sottofondo di violoncelli: «Lo sviluppo e la trasformazione della Cina mi colpiscono in ogni aspetto. I cambiamenti sono davvero straordinari. Prendiamo la tecnologia ad esempio: come economista non avrei mai immaginato che la Cina potesse realizzare un cambiamento simile. La sua capacità manifatturiera e l’efficienza produttiva sono ben note, ma è ancora più sorprendente il balzo nella catena del valore nel campo high-tech. Osservando la società cinese ho notato che il pubblico cinese accetta le nuove tecnologie più rapidamente di quello europeo». Prodi non contiene il suo entusiasmo. «Oggi i cinesi assorbono nuove idee e tecnologie molto velocemente. Il sistema industriale cinese è molto ampio, dall’abbigliamento alla manifattura più avanzata, ed è in grado di integrare queste diverse catene, formando un nuovo paradigma. La catena cinese del valore attraversa attualmente diversi campi produttivi, e questo modello è davvero unico». Ecco spiegato il benevolo atteggiamento dei media mainstream. Che tutto perdonano a Pechino e nulla invece a Trump.
Ma per comprendere la parte iniziale della nostra domanda, vale a dire perché la Cina detta legge nonostante il cliente sia l’Ue, occorre invece ascoltare un’altra illustre economista italiana: Lucrezia Reichlin. Ripetutamente presa di mira dal deputato leghista Alberto Bagnai perché sistematicamente sostiene che la Germania avrebbe un surplus commerciale con la Cina anziché un deficit. Per dirla alla Troisi: pensava fosse amore e invece era un calesse. E lo scorso 9 giugno dalle colonne del Corriere scriveva: «Il disaccoppiamento dalla Cina renderebbe il Green geal europeo irrealizzabile (magari, ndr). Gli analisti di Bloomberg avvertono che i pannelli solari e le componenti per i veicoli elettrici potrebbero aumentare i costi dal 30 al 50% se i Paesi occidentali la escludessero dalle loro filiere» e più avanti esortava a rafforzare il rapporto con la Cina visto che l’Europa considera «la transizione verde un obiettivo strategico e un mezzo per esercitare la sua leadership globale».
Di quale leadership parli l’economista non è dato sapere. Vogliamo dettare legge in qualcosa che non è un business senza neppure averne le tecnologie. E mentre il Pentagono in Usa investe in partecipazioni di minoranza strategica in società del settore minerario garantendo alle stesse commesse con prezzo superiore alla media, pur di sganciarsi dallo strapotere cinese nella fornitura dei minerali necessari, l’Ue invoca l’abbraccio con il Dragone per inseguire la transizione. Cioè per distruggere la nostra industria. In pratica paghiamo il killer perché ci uccida. Facendoci pure soffrire.

