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2025-10-20
Fuori dalle pale. Viaggio nell’Italia che rifiuta l’eolico
iStock
Sono il pilastro della transizione ecologica ma paradossalmente fanno male all’ambiente e all’economia, contaminando con la loro presenza il paesaggio e compromettendo il turismo. Non solo. Sono costose, non aiutano le imprese italiane (la Cina ne detiene il monopolio) e non possono essere riciclate. Sottraggono spazio alla coltivazione e all’allevamento, come sottolineano le associazioni degli agricoltori. Inoltre, come denunciano alcuni movimenti di protesta, farebbero male alla salute in quanto contribuiscono all’inquinamento acustico. Non c’è da stupirsi se le pale eoliche, continuano a provocare ostilità e ribellione nei territori dove sono state inserite. La produzione di energia eolica in Italia è concentrata in Puglia, Basilicata, Campania, Sicilia, Sardegna e Calabria. Secondo i dati del Global energy monitor (ad aprile scorso), ci sono 347 infrastrutture quasi esclusivamente onshore, nel senso che l’unica eccezione è rappresentata dal parco Beleolico, inaugurato nel 2022 nel golfo di Taranto. Per il resto, gli impianti eolici offshore in Italia restano annunciati, 18 progetti per più di 16 gigawatt di capacità, oppure sono fermi alla fase di autorizzazione, 31 progetti per oltre 28 GW di capacità. Più in generale, i progetti legati alla posa di pale eoliche nei mari italiani rappresentano il 79,6% di tutti gli impianti in fase di realizzazione nel nostro Paese, siano essi soltanto annunci, già in fase di autorizzazione o di costruzione. In attesa di autorizzazione ci sono 39 progetti.
Le proteste delle comunità locali vanno dai sabotaggi, alle mobilitazioni e perfino all’uso delle performance artistiche. Ad agosto scorso un gruppo di volontari si è denudato nell’area archeologica di Su Nuraxi a Barumini, patrimonio Unesco, in una performance di Nicola Mette per protestare contro l’assalto indiscriminato degli impianti di energia rinnovabile in Sardegna. Nella serata del 4 luglio si è svolta una nuova manifestazione in provincia di Oristano organizzata dal Presidio permanente del popolo sardo. Evento che si è ripetuto nel porto di Oristano il 9 luglio, in una sorta di «revival» delle accese proteste di luglio 2024 nella stessa zona contro lo sbarco di alcune pale per un parco eolico a Villacidro. Tutto l’anno scorso è stato caratterizzato da accese proteste nelle aree dell’isola interessate dai progetti dell’eolico con episodi anche gravi come il sabotaggio di una turbina in provincia di Nuoro. Un dipendente della Energreen, durante un controllo, ha scoperto che i dadi alla base di una torre da 60 kW erano stati svitati e sparsi nei dintorni.
In Calabria le proteste vanno avanti da circa 15 anni sul progetto di installare 14 pale eoliche alte oltre 100 metri nel territorio di San Vito sullo Ionio, nell’entroterra catanzarese. A ottobre 2024 la Regione Calabria ha decretato la decadenza dell’autorizzazione alla costruzione dell’impianto ma la società proponente ha impugnato il provvedimento al Tar, i giudici amministrativi a dicembre scorso hanno respinto l’istanza cautelare avanzata. L’azienda ha proposto appello contro tale ordinanza. Un altro fronte caldissimo è quello delle pale eoliche nel mare del Golfo di Squillace, un mega parco off shore – denominato Enotria – da 37 aerogeneratori alti circa 300 metri davanti alla costa calabrese.
Nel cosentino è esplosa la protesta attorno al progetto dei 23 aerogeneratori alti oltre 200 metri per una potenza complessiva di 103,5 MW, con opere di connessione che interessano pure i territori di San Demetrio Corone, Terranova Da Sibari, Corigliano Rossano e Casali Del Manco.
Dalla Calabria al confine tra la Toscana e l’Emilia Romagna. A luglio scorso un sabotaggio ha interessato i cantieri per la realizzazione delle opere preliminari alla costruzione di un parco eolico nel Mugello. Le incursioni sarebbero opera del gruppo «Siamo montagna», che dal 2 al 6 luglio scorso ha organizzato un «campeggio di lotta» (una forma di mobilitazione) contro l’eolico nel Mugello nella località Pian dei Laghi, poco distante dall’area di cantiere. Avevano detto di voler fare «un’opposizione collettiva» al taglio del bosco per realizzare il progetto. Monia Monni, assessore all’Ambiente della Regione Toscana, ha definito le azioni «atti terroristici». Secondo la questura le persone avevano il volto coperto, e hanno portato via tre motoseghe e danneggiato alcuni macchinari. Il progetto del parco eolico era stato proposto nel 2019. Sarà costruito sul monte Giogo, alto mille metri, nel territorio dei comuni di Vicchio, Dicomano e San Godenzo, in provincia di Firenze. Prevede il posizionamento di sette turbine alte 168 metri su una superficie di 5,4 ettari, a una certa distanza dai paesi: 2,7 chilometri da Villore, una frazione del comune di Vicchio, e 4,5 chilometri da Corella, frazione di Dicomano. Molte persone, movimenti e associazioni si erano opposte al progetto promuovendo raccolte firme, organizzando incontri e manifestazioni, presentando ricorsi al Tribunale amministrativo regionale (Tar): non sono andati a buon fine. Ci sono stati poi diversi esposti alla procura di Firenze in cui si denunciavano i danni ambientali causati dall’impianto e si chiedevano controlli per verificare che tutte le procedure fossero state seguite nel rispetto dell’ambiente. Nel frattempo, però, il Consiglio di Stato ha deciso che il parco si farà.
Proteste anche in Liguria. La scorsa settimana i Comuni di Altare, Mallare e Cairo si sono mobilitati contro il parco eolico Bric Surite e hanno deciso di presentare ricorso al Tar per bloccare la procedura di Via (la valutazione di impatto ambientale). Il parco prevede l’installazione di sei turbine. Secondo il comitato, l’impatto sul territorio di Altare sarebbe «letale, devastante e irreversibile».
Sul piede di guerra, le comunità di montagna, gli allevatori, le associazioni ambientaliste, che hanno raccolto centinaia di firme contro il parco eolico sul monte Craguenza, nel cuore delle Valli del Natisone, in Friuli. Il piano prevede impianti alti 200 metri. La protesta ha coinvolto cinque piccoli borghi con i rispettivi sindaci: Pulfero, Cividale del Friuli, Moimacco, San Pietro al Natisone e Torreano. Le pale, dei veri ecomostri, minacciano un territorio che aveva puntato sul turismo slow, con escursioni a piedi, in canoa, castelli e buon cibo tra prati e boschi di castagni. Il silenzio, vero patrimonio di quelle terre, andrebbe a farsi benedire, dice la popolazione locale. La protesta è arrivata fino all’arcivescovo di Udine al quale la gente del posto si è appellata perché protegga il percorso delle chiese votive del Natisone. Tra la transizione ecologica e la tutela del paesaggio che è anche una risorsa economica, la popolazione costretta a trovarsi dietro casa i giganti del vento, non ha avuto dubbi: ha già scelto la seconda.
Le turbine amate dagli ecologisti: non riciclabili e pure cancerogene
Le pale eoliche non solo deturpano il paesaggio compromettendo l’appeal turistico ma pongono anche un problema ambientale di smaltimento. Sembra un paradosso poiché l’energia del vento è considerata un pilastro della transizione ecologica, di quella decarbonizzazione delle fonti energetiche che ha come nemici il petrolio e il carbone. Così mentre le miniere sono considerate «sporche e cattive» e si lasciano nel sottosuolo materie prime che comunque vengono importate (ma la coscienza ambientalista è salva) non ci si preoccupa del futuro delle pale eoliche. Cioè che fine faranno, come saranno smaltite, quando andranno a fine vita in modo massiccio. Per quanto pulito, l’eolico ha una controindicazione non marginale: le pale delle turbine non sono riciclabili e già si prevede che al 2050, a livello globale, le discariche potrebbero ospitarne 43 milioni di tonnellate. È un problema da risolvere, ma che tutti fanno finta non esista, perché rischia di incrinare il sostegno pubblico al processo di decarbonizzazione, specialmente da parte di chi vuole una rivoluzione «sostenibile» non solo nell’energia ma anche nell’utilizzo delle risorse.
Il problema è che le pale occupano parecchio spazio nonostante vengano sezionate prima di finire in discarica. Considerata la tendenza a installare turbine sempre più grandi e potenti, e a fronte delle proteste contro il consumo di suolo degli impianti, la sfida scientifica per lo sviluppo di pale riciclabili è particolarmente urgente. Siccome sono sottoposte a sollecitazioni ambientali notevoli e devono rimanere in funzione per una ventina d’anni, questi impianti sono fatti di un materiale molto resistente i cui legami chimici sono pressoché impossibili da rompere, impedendone il riutilizzo. Le pale sono composte da fibra di vetro o di carbonio alla quale viene mischiato un prodotto chimico chiamato resina epossidica, che funge da rinforzante. Sono costruite quindi per essere resistenti alla potenza del vento. Ma questa caratteristica, se è preziosa per il corretto funzionamento e la durevolezza, diventa un handicap quando devono essere smaltite. La resina solidificata impedisce di recuperare gli ingredienti di partenza nella fase di riciclo. Non può pertanto essere inserita nell’economia circolare. Le parti che compongono una turbina invece sono riciclabili, essendo fatte di acciaio.
Quale è il futuro delle pale? Al momento ci sono solo soluzioni rabberciate. Quelle che sono andate a fine vita talvolta sono state riadattate a nuovi scopi, trasformate in panchine, aree giochi o parcheggi coperti per le biciclette, ma è evidente che non possono essere considerate soluzioni definitive. Alcuni esperti sostengono che la strada è prolungare la vita dei parchi eolici, progettando turbine, comprese fondazioni e sottostrutture, più affidabili, in modo da aumentare il tempo atteso di funzionamento, che è già passato da una durata media di 15 anni alla fine degli anni Novanta a circa 30 anni nel 2020, ma può ancora migliorare. Ma anche questa sarebbe una soluzione provvisoria che rinvia il problema nel tempo.
Alcuni enti di ricerca stanno lavorando allo sviluppo di nuovi materiali, anche derivati da scarti organici, che siano riciclabili e altrettanto robusti di quelli standard. I ricercatori del Laboratorio nazionale per l’energia rinnovabile, un istituto del governo statunitense, hanno realizzato una sostanza ricavata da zuccheri, oli esausti e residui agricoli che promette di essere equivalente al miscuglio di fibra e resina. Questo materiale vegetale può venire riciclato attraverso il metanolo ad alte temperature (oltre 220 gradi Celsius), che lo trasforma in un liquido elastico pronto a essere modellato in una forma nuova. Il collaudo non è ancora ultimato ma c’è già un problema di prezzo che ostacolerebbe l’utilizzo su larga scala. Le pale realizzate con questo materiale riciclabile sono più costose del 3-8% rispetto a quelle tradizionali. La società taiwanese Swancor ha inventato una nuova resina dalle stesse proprietà fisiche di quella epossidica ma riciclabile per via chimica però il suo costo è superiore del 15% rispetto a quella tradizionale.
Le soluzioni finora perseguite sono di incenerire le pale in impianti specializzati che producono energia, ma questa opzione non recupera i materiali. C’è poi lo smaltimento in discarica che crea altri rifiuti. Da non sottovalutare che le dimensioni delle strutture rendono difficile il loro trasporto e la loro distruzione in impianti di frantumazione normali.
Un recente studio che arriva dalla Lituania, opera dei ricercatori dell’Università di Tecnologia di Kaunas, offre spunti di riflessione. Va ricordato che il Baltico è una delle aree «sensibili» per quanto riguarda lo sfruttamento dell’energia eolica. È emerso che le resine poliestere insature sono predominanti nella produzione di turbine eoliche nella regione baltica, e questo grazie al loro rapporto costo-efficacia rispetto alle resine epossidiche. «Ma lo stirene, un componente principale della resina poliestere, comporta notevoli rischi per l’ambiente e la salute» afferma il report.
Se smaltito nelle discariche, lo stirene diventa altamente tossico per l’uomo e può causare il cancro ai polmoni. Inoltre, può inquinare e avvelenare le falde acquifere e il suolo. I ricercatori hanno fornito una soluzione volta a «neutralizzare» lo stirene e a ridurre l’inquinamento ambientale. Ma quanto è il costo di questa operazione è tutto da definire. Al momento si fa finta che il problema non esista.
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Dalla Toscana alla Sardegna, dal Friuli alla Calabria, si moltiplicano le proteste contro le installazioni. Che allontanano i turisti e confiscano terre coltivabili agli agricoltori.Oltre a devastare il paesaggio, i «mulini a vento del terzo millennio» sono costruiti con materiali molto resistenti. Nel 2050 le discariche ospiteranno 43 milioni di tonnellate quasi impossibili da smaltire.Lo speciale contiene due articoliSono il pilastro della transizione ecologica ma paradossalmente fanno male all’ambiente e all’economia, contaminando con la loro presenza il paesaggio e compromettendo il turismo. Non solo. Sono costose, non aiutano le imprese italiane (la Cina ne detiene il monopolio) e non possono essere riciclate. Sottraggono spazio alla coltivazione e all’allevamento, come sottolineano le associazioni degli agricoltori. Inoltre, come denunciano alcuni movimenti di protesta, farebbero male alla salute in quanto contribuiscono all’inquinamento acustico. Non c’è da stupirsi se le pale eoliche, continuano a provocare ostilità e ribellione nei territori dove sono state inserite. La produzione di energia eolica in Italia è concentrata in Puglia, Basilicata, Campania, Sicilia, Sardegna e Calabria. Secondo i dati del Global energy monitor (ad aprile scorso), ci sono 347 infrastrutture quasi esclusivamente onshore, nel senso che l’unica eccezione è rappresentata dal parco Beleolico, inaugurato nel 2022 nel golfo di Taranto. Per il resto, gli impianti eolici offshore in Italia restano annunciati, 18 progetti per più di 16 gigawatt di capacità, oppure sono fermi alla fase di autorizzazione, 31 progetti per oltre 28 GW di capacità. Più in generale, i progetti legati alla posa di pale eoliche nei mari italiani rappresentano il 79,6% di tutti gli impianti in fase di realizzazione nel nostro Paese, siano essi soltanto annunci, già in fase di autorizzazione o di costruzione. In attesa di autorizzazione ci sono 39 progetti.Le proteste delle comunità locali vanno dai sabotaggi, alle mobilitazioni e perfino all’uso delle performance artistiche. Ad agosto scorso un gruppo di volontari si è denudato nell’area archeologica di Su Nuraxi a Barumini, patrimonio Unesco, in una performance di Nicola Mette per protestare contro l’assalto indiscriminato degli impianti di energia rinnovabile in Sardegna. Nella serata del 4 luglio si è svolta una nuova manifestazione in provincia di Oristano organizzata dal Presidio permanente del popolo sardo. Evento che si è ripetuto nel porto di Oristano il 9 luglio, in una sorta di «revival» delle accese proteste di luglio 2024 nella stessa zona contro lo sbarco di alcune pale per un parco eolico a Villacidro. Tutto l’anno scorso è stato caratterizzato da accese proteste nelle aree dell’isola interessate dai progetti dell’eolico con episodi anche gravi come il sabotaggio di una turbina in provincia di Nuoro. Un dipendente della Energreen, durante un controllo, ha scoperto che i dadi alla base di una torre da 60 kW erano stati svitati e sparsi nei dintorni.In Calabria le proteste vanno avanti da circa 15 anni sul progetto di installare 14 pale eoliche alte oltre 100 metri nel territorio di San Vito sullo Ionio, nell’entroterra catanzarese. A ottobre 2024 la Regione Calabria ha decretato la decadenza dell’autorizzazione alla costruzione dell’impianto ma la società proponente ha impugnato il provvedimento al Tar, i giudici amministrativi a dicembre scorso hanno respinto l’istanza cautelare avanzata. L’azienda ha proposto appello contro tale ordinanza. Un altro fronte caldissimo è quello delle pale eoliche nel mare del Golfo di Squillace, un mega parco off shore – denominato Enotria – da 37 aerogeneratori alti circa 300 metri davanti alla costa calabrese.Nel cosentino è esplosa la protesta attorno al progetto dei 23 aerogeneratori alti oltre 200 metri per una potenza complessiva di 103,5 MW, con opere di connessione che interessano pure i territori di San Demetrio Corone, Terranova Da Sibari, Corigliano Rossano e Casali Del Manco.Dalla Calabria al confine tra la Toscana e l’Emilia Romagna. A luglio scorso un sabotaggio ha interessato i cantieri per la realizzazione delle opere preliminari alla costruzione di un parco eolico nel Mugello. Le incursioni sarebbero opera del gruppo «Siamo montagna», che dal 2 al 6 luglio scorso ha organizzato un «campeggio di lotta» (una forma di mobilitazione) contro l’eolico nel Mugello nella località Pian dei Laghi, poco distante dall’area di cantiere. Avevano detto di voler fare «un’opposizione collettiva» al taglio del bosco per realizzare il progetto. Monia Monni, assessore all’Ambiente della Regione Toscana, ha definito le azioni «atti terroristici». Secondo la questura le persone avevano il volto coperto, e hanno portato via tre motoseghe e danneggiato alcuni macchinari. Il progetto del parco eolico era stato proposto nel 2019. Sarà costruito sul monte Giogo, alto mille metri, nel territorio dei comuni di Vicchio, Dicomano e San Godenzo, in provincia di Firenze. Prevede il posizionamento di sette turbine alte 168 metri su una superficie di 5,4 ettari, a una certa distanza dai paesi: 2,7 chilometri da Villore, una frazione del comune di Vicchio, e 4,5 chilometri da Corella, frazione di Dicomano. Molte persone, movimenti e associazioni si erano opposte al progetto promuovendo raccolte firme, organizzando incontri e manifestazioni, presentando ricorsi al Tribunale amministrativo regionale (Tar): non sono andati a buon fine. Ci sono stati poi diversi esposti alla procura di Firenze in cui si denunciavano i danni ambientali causati dall’impianto e si chiedevano controlli per verificare che tutte le procedure fossero state seguite nel rispetto dell’ambiente. Nel frattempo, però, il Consiglio di Stato ha deciso che il parco si farà.Proteste anche in Liguria. La scorsa settimana i Comuni di Altare, Mallare e Cairo si sono mobilitati contro il parco eolico Bric Surite e hanno deciso di presentare ricorso al Tar per bloccare la procedura di Via (la valutazione di impatto ambientale). Il parco prevede l’installazione di sei turbine. Secondo il comitato, l’impatto sul territorio di Altare sarebbe «letale, devastante e irreversibile».Sul piede di guerra, le comunità di montagna, gli allevatori, le associazioni ambientaliste, che hanno raccolto centinaia di firme contro il parco eolico sul monte Craguenza, nel cuore delle Valli del Natisone, in Friuli. Il piano prevede impianti alti 200 metri. La protesta ha coinvolto cinque piccoli borghi con i rispettivi sindaci: Pulfero, Cividale del Friuli, Moimacco, San Pietro al Natisone e Torreano. Le pale, dei veri ecomostri, minacciano un territorio che aveva puntato sul turismo slow, con escursioni a piedi, in canoa, castelli e buon cibo tra prati e boschi di castagni. Il silenzio, vero patrimonio di quelle terre, andrebbe a farsi benedire, dice la popolazione locale. La protesta è arrivata fino all’arcivescovo di Udine al quale la gente del posto si è appellata perché protegga il percorso delle chiese votive del Natisone. Tra la transizione ecologica e la tutela del paesaggio che è anche una risorsa economica, la popolazione costretta a trovarsi dietro casa i giganti del vento, non ha avuto dubbi: ha già scelto la seconda.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/fuori-dalle-pale-viaggio-nellitalia-che-rifiuta-leolico-2674212343.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="le-turbine-amate-dagli-ecologisti-non-riciclabili-e-pure-cancerogene" data-post-id="2674212343" data-published-at="1760865506" data-use-pagination="False"> Le turbine amate dagli ecologisti: non riciclabili e pure cancerogene Le pale eoliche non solo deturpano il paesaggio compromettendo l’appeal turistico ma pongono anche un problema ambientale di smaltimento. Sembra un paradosso poiché l’energia del vento è considerata un pilastro della transizione ecologica, di quella decarbonizzazione delle fonti energetiche che ha come nemici il petrolio e il carbone. Così mentre le miniere sono considerate «sporche e cattive» e si lasciano nel sottosuolo materie prime che comunque vengono importate (ma la coscienza ambientalista è salva) non ci si preoccupa del futuro delle pale eoliche. Cioè che fine faranno, come saranno smaltite, quando andranno a fine vita in modo massiccio. Per quanto pulito, l’eolico ha una controindicazione non marginale: le pale delle turbine non sono riciclabili e già si prevede che al 2050, a livello globale, le discariche potrebbero ospitarne 43 milioni di tonnellate. È un problema da risolvere, ma che tutti fanno finta non esista, perché rischia di incrinare il sostegno pubblico al processo di decarbonizzazione, specialmente da parte di chi vuole una rivoluzione «sostenibile» non solo nell’energia ma anche nell’utilizzo delle risorse.Il problema è che le pale occupano parecchio spazio nonostante vengano sezionate prima di finire in discarica. Considerata la tendenza a installare turbine sempre più grandi e potenti, e a fronte delle proteste contro il consumo di suolo degli impianti, la sfida scientifica per lo sviluppo di pale riciclabili è particolarmente urgente. Siccome sono sottoposte a sollecitazioni ambientali notevoli e devono rimanere in funzione per una ventina d’anni, questi impianti sono fatti di un materiale molto resistente i cui legami chimici sono pressoché impossibili da rompere, impedendone il riutilizzo. Le pale sono composte da fibra di vetro o di carbonio alla quale viene mischiato un prodotto chimico chiamato resina epossidica, che funge da rinforzante. Sono costruite quindi per essere resistenti alla potenza del vento. Ma questa caratteristica, se è preziosa per il corretto funzionamento e la durevolezza, diventa un handicap quando devono essere smaltite. La resina solidificata impedisce di recuperare gli ingredienti di partenza nella fase di riciclo. Non può pertanto essere inserita nell’economia circolare. Le parti che compongono una turbina invece sono riciclabili, essendo fatte di acciaio.Quale è il futuro delle pale? Al momento ci sono solo soluzioni rabberciate. Quelle che sono andate a fine vita talvolta sono state riadattate a nuovi scopi, trasformate in panchine, aree giochi o parcheggi coperti per le biciclette, ma è evidente che non possono essere considerate soluzioni definitive. Alcuni esperti sostengono che la strada è prolungare la vita dei parchi eolici, progettando turbine, comprese fondazioni e sottostrutture, più affidabili, in modo da aumentare il tempo atteso di funzionamento, che è già passato da una durata media di 15 anni alla fine degli anni Novanta a circa 30 anni nel 2020, ma può ancora migliorare. Ma anche questa sarebbe una soluzione provvisoria che rinvia il problema nel tempo.Alcuni enti di ricerca stanno lavorando allo sviluppo di nuovi materiali, anche derivati da scarti organici, che siano riciclabili e altrettanto robusti di quelli standard. I ricercatori del Laboratorio nazionale per l’energia rinnovabile, un istituto del governo statunitense, hanno realizzato una sostanza ricavata da zuccheri, oli esausti e residui agricoli che promette di essere equivalente al miscuglio di fibra e resina. Questo materiale vegetale può venire riciclato attraverso il metanolo ad alte temperature (oltre 220 gradi Celsius), che lo trasforma in un liquido elastico pronto a essere modellato in una forma nuova. Il collaudo non è ancora ultimato ma c’è già un problema di prezzo che ostacolerebbe l’utilizzo su larga scala. Le pale realizzate con questo materiale riciclabile sono più costose del 3-8% rispetto a quelle tradizionali. La società taiwanese Swancor ha inventato una nuova resina dalle stesse proprietà fisiche di quella epossidica ma riciclabile per via chimica però il suo costo è superiore del 15% rispetto a quella tradizionale.Le soluzioni finora perseguite sono di incenerire le pale in impianti specializzati che producono energia, ma questa opzione non recupera i materiali. C’è poi lo smaltimento in discarica che crea altri rifiuti. Da non sottovalutare che le dimensioni delle strutture rendono difficile il loro trasporto e la loro distruzione in impianti di frantumazione normali.Un recente studio che arriva dalla Lituania, opera dei ricercatori dell’Università di Tecnologia di Kaunas, offre spunti di riflessione. Va ricordato che il Baltico è una delle aree «sensibili» per quanto riguarda lo sfruttamento dell’energia eolica. È emerso che le resine poliestere insature sono predominanti nella produzione di turbine eoliche nella regione baltica, e questo grazie al loro rapporto costo-efficacia rispetto alle resine epossidiche. «Ma lo stirene, un componente principale della resina poliestere, comporta notevoli rischi per l’ambiente e la salute» afferma il report.Se smaltito nelle discariche, lo stirene diventa altamente tossico per l’uomo e può causare il cancro ai polmoni. Inoltre, può inquinare e avvelenare le falde acquifere e il suolo. I ricercatori hanno fornito una soluzione volta a «neutralizzare» lo stirene e a ridurre l’inquinamento ambientale. Ma quanto è il costo di questa operazione è tutto da definire. Al momento si fa finta che il problema non esista.
Kaja Kallas (Ansa)
Kallas è il falco della Commissione, quando si tratta di Russia, e tiene a rimarcarlo. A proposito dei fondi russi depositati presso Euroclear, l’estone dice nell’intervista che il Belgio non deve temere una eventuale azione di responsabilità da parte della Russia, perché «se davvero la Russia ricorresse in tribunale per ottenere il rilascio di questi asset o per affermare che la decisione non è conforme al diritto internazionale, allora dovrebbe rivolgersi all’Ue, quindi tutti condivideremmo l’onere».
In pratica, cioè, l’interpretazione piuttosto avventurosa di Kallas è che tutti gli Stati membri sarebbero responsabili in solido con il Belgio se Mosca dovesse ottenere ragione da qualche tribunale sul sequestro e l’utilizzo dei suoi fondi.
Tribunale sui cui l’intervistata è scettica: «A quale tribunale si rivolgerebbe (Putin, ndr)? E quale tribunale deciderebbe, dopo le distruzioni causate in Ucraina, che i soldi debbano essere restituiti alla Russia senza che abbia pagato le riparazioni?». Qui l’alto rappresentante prefigura uno scenario, quello del pagamento delle riparazioni di guerra, che non ha molte chance di vedere realizzato.
All’intervistatore che chiede perché per finanziare la guerra non si usino gli eurobond, cioè un debito comune europeo, Kallas risponde: «Io ho sostenuto gli eurobond, ma c’è stato un chiaro blocco da parte dei Paesi Frugali, che hanno detto che non possono farlo approvare dai loro Parlamenti». È ovvio. La Germania e i suoi satelliti del Nord Europa non vogliano cedere su una questione sulla quale non hanno mai ceduto e per la quale, peraltro, occorre una modifica dei trattati su cui serve l’unanimità e la ratifica poi di tutti i parlamenti. Con il vento politico di destra che soffia in tutta Europa, con Afd oltre il 25% in Germania, è una opzione politicamente impraticabile. Dire eurobond significa gettare la palla in tribuna.
In merito all’adesione dell’Ucraina all’Unione europea già nel 2027, come vorrebbe il piano di pace americano, Kallas se la cava con lunghe perifrasi evitando di prendere posizione. Secondo l’estone, l’adesione all’Ue è una questione di merito e devono decidere gli Stati membri. Ma nel piano questo punto è importante e sembra difficile che venga accantonato.
Kallas poi reclama a gran voce un posto per l’Unione al tavolo della pace: «Il piano deve essere tra Russia e Ucraina. E quando si tratta dell’architettura di sicurezza europea, noi dobbiamo avere voce in capitolo. I confini non possono essere cambiati con la forza. Non ci dovrebbero essere concessioni territoriali né riconoscimento dell’occupazione». Ma lo stesso Zelensky sembra ormai convinto che almeno un referendum sulla questione del Donbass sia possibile. Insomma, Kallas resta oltranzista ma i fatti l’hanno già superata.
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Carlo Messina all'inaugurazione dell'Anno Accademico della Luiss (Ansa)
La domanda è retorica, provocatoria e risuona in aula magna come un monito ad alzare lo sguardo, a non limitarsi a contare i droni e limare i mirini, perché la risposta è un’altra. «In Europa abbiamo più poveri e disuguaglianza di quelli che sono i rischi potenziali che derivano da una minaccia reale, e non percepita o teorica, di una guerra». Un discorso ecumenico, realistico, che evoca l’immagine dell’esercito più dolente e sfinito, quello di chi lotta per uscire dalla povertà. «Perché è vero che riguardo a welfare e democrazia non c’è al mondo luogo comparabile all’Europa, ma siamo deboli se investiamo sulla difesa e non contro la povertà e le disuguaglianze».
Le parole non scivolano via ma si fermano a suggerire riflessioni. Perché è importante che un finanziere - anzi colui che per il 2024 è stato premiato come banchiere europeo dell’anno - abbia un approccio sociale più solido e lungimirante delle istituzioni sovranazionali deputate. E lo dimostri proprio nelle settimane in cui sentiamo avvicinarsi i tamburi di Bruxelles con uscite guerrafondaie come «resisteremo più di Putin», «per la guerra non abbiamo fatto abbastanza» (Kaja Kallas, Alto rappresentante per la politica estera) o «se vogliamo evitare la guerra dobbiamo preparaci alla guerra», «dobbiamo produrre più armi, come abbiamo fatto con i vaccini» (Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea).
Una divergenza formidabile. La conferma plastica che l’Europa dei diritti, nella quale ogni minoranza possibile viene tutelata, si sta dimenticando di salvaguardare quelli dei cittadini comuni che alzandosi al mattino non hanno come priorità la misura dell’elmetto rispetto alla circonferenza cranica, ma il lavoro, la famiglia, il destino dei figli e la difesa dei valori primari. Il ceo di Banca Intesa ricorda che il suo gruppo ha destinato 1,5 miliardi per combattere la povertà, sottolinea che la grande forza del nostro Paese sta «nel formidabile mondo delle imprese e nel risparmio delle famiglie, senza eguali in Europa». E sprona le altre grandi aziende: «In Italia non possiamo aspettarci che faccia tutto il governo, se ci sono aziende che fanno utili potrebbero destinarne una parte per intervenire sulle disuguaglianze. Ogni azienda dovrebbe anche lavorare perché i salari vengano aumentati. Sono uno dei punti di debolezza del nostro Paese e aumentarli è una priorità strategica».
Con l’Europa Carlo Messina non ha finito. Parlando di imprenditoria e di catene di comando, coglie l’occasione per toccare in altro nervo scoperto, perfino più strutturale dell’innamoramento bellicista. «Se un’azienda fosse condotta con meccanismi di governance come quelli dell’Unione Europea fallirebbe». Un autentico missile Tomahawk diretto alla burocrazia continentale, a quei «nani di Zurigo» (copyright Woodrow Wilson) trasferitisi a Bruxelles. La spiegazione è evidente. «Per competere in un contesto globale serve un cambio di passo. Quella europea è una governance che non si vede in nessun Paese del mondo e in nessuna azienda. Perché è incapace di prendere decisioni rapide e quando le prende c’è lentezza nella realizzazione. Oppure non incidono realmente sulle cose che servono all’Europa».
Il banchiere è favorevole a un ministero dell’Economia unico e ritiene che il vincolo dell’unanimità debba essere tolto. «Abbiamo creato una banca centrale che gestisce la moneta di Paesi che devono decidere all’unanimità. Questo è uno degli aspetti drammatici». Ma per uno Stato sovrano che aderisce al club dei 27 è anche l’unica garanzia di non dover sottostare all’arroganza (già ampiamente sperimentata) di Francia e Germania, che trarrebbero vantaggi ancora più consistenti senza quel freno procedurale.
Il richiamo a efficienza e rapidità riguarda anche l’inadeguatezza del burosauro e riecheggia la famosa battuta di Franz Joseph Strauss: «I 10 comandamenti contengono 279 parole, la dichiarazione americana d’indipendenza 300, la disposizione Ue sull’importazione di caramelle esattamente 25.911». Un esempio di questa settimana. A causa della superfetazione di tavoli e di passaggi, l’accordo del Consiglio Affari interni Ue sui rimpatri dei migranti irregolari e sulla liceità degli hub in Paesi terzi (recepito anche dal Consiglio d’Europa) entrerà in vigore non fra 60 giorni o 6 mesi, ma se va bene fra un anno e mezzo. Campa cavallo.
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Luca Casarini. Nel riquadro, il manifesto abusivo comparso a Milano (Ansa)
Quando non è tra le onde, Casarini è nel mare di Internet, dove twitta. E pure parecchio. Dice la sua su qualsiasi cosa. Condivide i post dell’Osservatore romano e quelli di Ilaria Salis (del resto, tra i due, è difficile trovare delle differenze, a volte). Ma, soprattutto, attacca le norme del governo e dell’Unione europea in materia di immigrazione. Si sente Davide contro Golia. E lotta, invitando anche ad andare contro la legge. Quando, qualche giorno fa, è stata fermata la nave Humanity 1 (poi rimessa subito in mare dal tribunale di Agrigento) Casarini ha scritto: «Abbatteremo i vostri muri, taglieremo i fili spinati dei vostri campi di concentramento. Faremo fuggire gli innocenti che tenete prigionieri. È già successo nella Storia, succederà ancora. In mare come in terra. La disumanità non vincerà. Fatevene una ragione». Questa volta si sentiva Oskar Schindler, anche se poi va nei cortei pro Pal che inneggiano alla distruzione dello Stato di Israele.
Chi volesse approfondire il suo pensiero, poi, potrebbe andare a leggersi L’Unità del 10 dicembre scorso, il cui titolo è già un programma: Per salvare i migranti dobbiamo forzare le leggi. Nel testo, che risparmiamo al lettore, spiega come l’Ue si sia piegata a Giorgia Meloni e a Donald Trump in materia di immigrazione. I sovranisti (da quanto tempo non sentivamo più questo termine) stanno vincendo. Bisogna fare qualcosa. Bisogna reagire. Ribellarsi. Anche alle leggi. Il nostro, sempre attento ad essere politicamente corretto, se la prende pure con gli albanesi che vivono in un Paese «a metà tra un narcostato e un hub di riciclaggio delle mafie di mezzo mondo, retto da un “dandy” come Rama, più simile al Dandy della banda della Magliana che a quel G.B. Brummel che diede origine al termine». Casarini parla poi di «squadracce» che fanno sparire i migranti e di presunte «soluzioni finali» per questi ultimi. E auspica un modello alternativo, che crei «reti di protezione di migranti e rifugiati, per sottrarli alle future retate che peraltro avverranno in primis nei luoghi di “non accoglienza”, così scientificamente creati nelle nostre città da un programma di smantellamento dei servizi sociali, educativi e sanitari, che mostra oggi i suoi risultati nelle sacche di marginalità in aumento».
Detto, fatto. Qualcuno, in piazzale Cuoco a Milano, ha infatti pensato bene di affiggere dei manifesti anonimi con le indicazioni, per i migranti irregolari, su cosa fare per evitare di finire nei centri di permanenza per i rimpatri, i cosiddetti di Cpr. Nessuna sigla. Nessun contatto. Solo diverse lingue per diffondere il vademecum: l’italiano, certo, ma anche l’arabo e il bengalese in modo che chiunque passi di lì posa capire il messaggio e sfuggire alla legge. Ti bloccano per strada? Non far vedere il passaporto. Devi andare in questura? Presentati con un avvocato. Ti danno un documento di espulsione? Ci sono avvocati gratis (che in realtà pagano gli italiani con le loro tasse). E poi informazioni nel caso in cui qualcuno dovesse finire in un cpr: avrai un telefono, a volte senza videocamera. E ancora: «Se non hai il passaporto del tuo Paese prima di deportarti l’ambasciata ti deve riconoscere. Quindi se non capisci la lingua in cui ti parla non ti deportano. Se ti deportano la polizia italiana ti deve lasciare un foglio che spiega perché ti hanno deportato e quanto tempo deve passare prima di poter ritornare in Europa. È importante informarci e organizzarci insieme per resistere!».
Per Sara Kelany (Fdi), «dire che i Cpr sono “campi di deportazione” e “prigioni per persone senza documenti” è una mistificazione che non serve a tutelare i diritti ma a sostenere e incentivare l’immigrazione irregolare con tutti i rischi che ne conseguono. Nei Cpr vengono trattenuti migranti irregolari socialmente pericolosi, che hanno all’attivo condanne per reati anche molto gravi. Potrà dispiacere a qualche esponente della sinistra o a qualche attivista delle Ong - ogni riferimento a Casarini non è casuale - ma in Italia si rispettano le nostre leggi e non consentiamo a nessuno di aggirarle». Per Francesco Rocca (Fdi), si tratta di «un’affissione abusiva dallo sgradevole odore eversivo».
Casarini, da convertito, diffonde il verbo. Che non è quello che si è incarnato, ma quello che tutela l’immigrato.
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