
Dopo la vendita a Dan Friedkin e l'eliminazione dall'Europa league, i giallorossi hanno perso oltre il 25%. E il titolo potrebbe uscire dal listino. A quel punto resterebbero quotate solo Juve e Lazio. Ma tra volatilità e Covid, gli affari e i dividendi sono da Serie B.La As Roma ieri ha perso in Borsa il 25 per cento, dopo un pomeriggio trascorso in asta di volatilità. Sul titolo hanno pesato sia l'eliminazione subita giovedì sera negli ottavi dell'Europa league, con il conseguente venir meno di possibile entrate, sia la cessione della proprietà da James Pallotta a Dan Friedkin. Della somma totale di 199 milioni che l'acquirente pagherà all'imprenditore statunitense di origine italiana, per l'86,6 per cento del capitale della società verranno corrisposti 63,4 milioni, pari a 0,11 euro per azione. La transazione è dunque avvenuta a un prezzo assai inferiore alla quotazione di Borsa che giovedì era pari a 0,53 euro (ieri 0,42 euro). Resta anche l'incognita sul prezzo dell'Opa obbligatoria che il compratore dovrà effettuare, e che «potrebbe essere funzionale al delisting», riporta una nota congiunta della As Roma e di The Friedkin group, emessa su richiesta della Consob. Dove si aggiunge che le decisioni finali su questo punto saranno pubblicate quando verrà conclusa l'operazione. Senza la Roma, rimarrebbero solo due club quotati sul listino milanese: la Juventus e la Lazio. Riaprendo un annoso dibattito: è meglio tenere il pallone lontano dalla Borsa italiana? Soprattutto ora che come variabile si è aggiunto l'effetto Covid sui ricavi, diritti tv e sponsorizzazioni. Ma che fosse stato un errore portare i club a Piazza Affari lo aveva già ammesso nel luglio 2009, l'allora presidente della Consob, Lamberto Cardia, nella sua relazione annuale. «La quotazione delle società calcistiche è stata e resta un errore. Basta la dichiarazione entusiastica di un tifoso», aveva spiegato, «una partita che va bene o va male, per far saltare un titolo avanti o indietro. Non si tratta di manipolazione, ma è certamente un'alterazione del buon funzionamento del mercato. La quotazione di queste società è da ristudiare». Il settore infatti, aveva ricordato il presidente della Consob, è «strutturalmente interessato dalle diffusioni di voci e indiscrezioni, spesso amplificate da una sensibilità esasperata». La speculazione rischia di travolgere le società quotate e soprattutto i piccoli azionisti (in gran parte tifosi) che su quelle società hanno investito i loro soldi e hanno il diritto di essere tutelati come sportivi, ma anche come risparmiatori. Eppure, in occasione dello sbarco del football in Borsa, i sostenitori dell'operazione furono tanti: da Walter Veltroni ad Adriano Galliani del Milan, passando per il fiscalista Victor Uckmar. Persino Nerio Nesi, ai tempi responsabile economico di Rifondazione comunista, si mostrò favorevole al «cambio di mentalità». Mentre l'allora patron della Lazio, Sergio Cragnotti, assicurò che «acquisire azioni delle società di calcio può senza dubbio essere un affare». L'illusione di tutti fu che, sotto lo stimolo della Borsa, le squadre avrebbero potuto «monetizzare» la passione dei tifosi, trasformando questi ultimi in investitori e conferendo solidità ai propri bilanci. «Guadagnare da tifosi, in Gran Bretagna è possibile da anni e c'è chi ha ottenuto performance del 200 per cento», titolò nell'aprile 1997 il Corriere della Sera. Nell'ansia di imitare la City, si decise si applicare alle società di calcio la deroga alla regola dei tre bilanci in utile, ma dopo alcuni mesi la regola sparì e il primo a trarne vantaggio fu proprio Cragnotti: la sua Lazio sbarcò a Piazza Affari il 5 maggio del 1998, trascinando oltre 40.000 tifosi-azionisti, da cui incassò 60 milioni di euro, di cui la metà finì alla controllante Cirio (fallita nel 2002).Fede calcistica e investimenti finanziari non vanno sempre a braccetto. Prendiamo la Roma, quando debuttò a Piazza Affari nel 2002 il prezzo di collocamento fu di 5,5 euro per azione. Oggi quota, come abbiamo visto, 0,4 euro. Persino la blasonata Juventus è stata avara di soddisfazioni: dal collocamento a 3,7 euro per azione a fine 2001 è scivolata fino agli attuali 0,9 euro, con un -33,1 per cento da inizio anno. La società bianconera non distribuisce dividendi dal 2002, evidenziava il prospetto dell'ultimo aumento di capitale da 300 milioni ricordando anche a chi volesse acquistare azioni che i risultati economici sono «altamente variabili», in quanto influenzati «in misura significativa» dalle performance sportive. Quanto alla Lazio, le azioni della società di Claudio Lotito viaggia attorno a 1,4 euro con un +12,3 per cento segnato nell'ultimo anno ma negli ultimi sei mesi la performance è stata comunque negativa: il titolo ha lasciato sul terreno circa l'11,6 per cento. Diverso sarebbe il discorso di una holding con business articolato nella quale il calcio rappresenti solo un settore. Magari seguendo l'esempio delle squadre inglesi, capaci di gestire in modo profittevole merchandising e stadi di proprietà. Al tempo della relazione di Cardia, sul tema degli stadi intervenne proprio il presidente della Lazio, Lotito: «Per una squadra», disse, «la realizzazione di uno stadio polifunzionale è l'occasione per rimuovere le anomalie denunciate dalla Consob ed evitare che il valore del titolo sia legato esclusivamente al risultato sportivo». Solo la Juve ne ha costruito uno tutto suo. E comunque dieci anni dopo la quotazione in Piazza Affari.
Johann Chapoutot (Wikimedia)
Col saggio «Gli irresponsabili», Johann Chapoutot rilegge l’ascesa del nazismo senza gli occhiali dell’ideologia. E mostra tra l’altro come socialdemocratici e comunisti appoggiarono il futuro Führer per mettere in crisi la Repubblica di Weimar.
«Quella di Weimar è una storia così viva che resuscita i morti e continua a porre interrogativi alla Germania e, al di là della Germania, a tutte le democrazie che, di fronte al periodo 1932-1933, a von Papen e Hitler, ma anche a Schleicher, Hindenburg, Hugenberg e Thyssen, si sono trovate a misurare la propria finitudine. Se la Grande Guerra ha insegnato alle civiltà che sono mortali, la fine della Repubblica di Weimar ha dimostrato che la democrazia è caduca».
(Guardia di Finanza)
I finanzieri del Comando Provinciale di Palermo, grazie a una capillare attività investigativa nel settore della lotta alla contraffazione hanno sequestrato oltre 10.000 peluches (di cui 3.000 presso un negozio di giocattoli all’interno di un noto centro commerciale palermitano).
I peluches, originariamente disegnati da un artista di Hong Kong e venduti in tutto il mondo dal colosso nella produzione e vendita di giocattoli Pop Mart, sono diventati in poco tempo un vero trend, che ha generato una corsa frenetica all’acquisto dopo essere stati indossati sui social da star internazionali della musica e del cinema.
In particolare, i Baschi Verdi del Gruppo Pronto Impiego, attraverso un’analisi sulla distribuzione e vendita di giocattoli a Palermo nonché in virtù del costante monitoraggio dei profili social creati dagli operatori del settore, hanno individuato sette esercizi commerciali che disponevano anche degli iconici Labubu, focalizzando l’attenzione soprattutto sul prezzo di vendita, considerando che gli originali, a seconda della tipologia e della dimensione vengono venduti con un prezzo di partenza di circa 35 euro fino ad arrivare a diverse migliaia di euro per i pezzi meno diffusi o a tiratura limitata.
A seguito dei preliminari sopralluoghi effettuati all’interno dei negozi di giocattoli individuati, i finanzieri ne hanno selezionati sette, i quali, per prezzi praticati, fattura e packaging dei prodotti destavano particolari sospetti circa la loro originalità e provenienza.
I controlli eseguiti presso i sette esercizi commerciali hanno fatto emergere come nella quasi totalità dei casi i Labubu fossero imitazioni perfette degli originali, realizzati con materiali di qualità inferiore ma riprodotti con una cura tale da rendere difficile per un comune acquirente distinguere gli esemplari autentici da quelli falsi. I prodotti, acquistati senza fattura da canali non ufficiali o da piattaforme e-commerce, perlopiù facenti parte della grande distribuzione, venivano venduti a prezzi di poco inferiori a quelli praticati per gli originali e riportavano loghi, colori e confezioni del tutto simili a questi ultimi, spesso corredati da etichette e codici identificativi non conformi o totalmente falsificati.
Questi elementi, oltre al fatto che in alcuni casi i negozi che li ponevano in vendita fossero specializzati in giocattoli originali di ogni tipo e delle più note marche, potevano indurre il potenziale acquirente a pensare che si trattasse di prodotti originali venduti a prezzi concorrenziali.
In particolare, in un caso, l’intervento dei Baschi Verdi è stato effettuato in un negozio di giocattoli appartenente a una nota catena di distribuzione all’interno di un centro commerciale cittadino. Proprio in questo negozio è stato rinvenuto il maggior numero di pupazzetti falsi, ben 3.000 tra esercizio e magazzino, dove sono stati trovati molti cartoni pieni sia di Labubu imbustati che di scatole per il confezionamento, segno evidente che gli addetti al negozio provvedevano anche a creare i pacchetti sorpresa, diventati molto popolari proprio grazie alla loro distribuzione tramite blind box, ossia scatole a sorpresa, che hanno creato una vera e propria dipendenza dall’acquisto per i collezionisti di tutto il mondo. Tra gli esemplari sequestrati anche alcune copie più piccole di un modello, in teoria introvabile, venduto nel mese di giugno a un’asta di Pechino per 130.000 euro.
Soprattutto in questo caso la collocazione all’interno di un punto vendita regolare e inserito in un contesto commerciale di fiducia, unita alla cura nella realizzazione delle confezioni, avrebbe potuto facilmente indurre in errore i consumatori convinti di acquistare un prodotto ufficiale.
I sette titolari degli esercizi commerciali ispezionati e destinatari dei sequestri degli oltre 10.000 Labubu falsi che, se immessi sul mercato avrebbero potuto fruttare oltre 500.000 euro, sono stati denunciati all’Autorità Giudiziaria per vendita di prodotti recanti marchi contraffatti.
L’attività s’inquadra nel quotidiano contrasto delle Fiamme Gialle al dilagante fenomeno della contraffazione a tutela dei consumatori e delle aziende che si collocano sul mercato in maniera corretta e che, solo nell’ultimo anno, ha portato i Baschi Verdi del Gruppo P.I. di Palermo a denunciare 37 titolari di esercizi commerciali e a sequestrare oltre 500.000 articoli contraffatti, tra pelletteria, capi d’abbigliamento e profumi recanti marchi delle più note griffe italiane e internazionali.
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Stefano Arcifa
Parla il neopresidente dell’Aero Club d’Italia: «Il nostro Paese primeggia in deltaplano, aeromodellismo, paracadutismo e parapendio. Rivorrei i Giochi della gioventù dell’aria».
Per intervistare Stefano Arcifa, il nuovo presidente dell’Aero Club d’Italia (Aeci), bisogna «intercettarlo» come si fa con un velivolo che passa alto e veloce. Dalla sua ratifica da parte del governo, avvenuta alla fine dell’estate, è sempre in trasferta per restare vicino ai club, enti federati e aggregati, che riuniscono gli italiani che volano per passione.
Arcifa, che cos’è l’Aero Club d’Italia?
«È il più antico ente aeronautico italiano, il riferimento per l’aviazione sportiva e turistica italiana, al nostro interno abbracciamo tutte le anime di chi ha passione per ciò che vola, dall’aeromodellismo al paracadutismo, dagli ultraleggeri al parapendio e al deltaplano. Da noi si insegna l’arte del volo con un’attenzione particolare alla sicurezza e al rispetto delle regole».
Riccardo Molinari (Ansa)
Il capogruppo leghista alla Camera: «Stiamo preparando un pacchetto sicurezza bis: rafforzeremo la legittima difesa ed estenderemo la legge anti sgomberi anche alla seconda casa. I militari nelle strade vanno aumentati».
«Vi racconto le norme in arrivo sul comparto sicurezza, vogliamo la legittima difesa “rinforzata” e nuove regole contro le baby gang. L’esercito nelle strade? I soldati di presidio vanno aumentati, non ridotti. Landini? Non ha più argomenti: ridicolo scioperare sulla manovra».
Riccardo Molinari, capogruppo della Lega alla Camera, la Cgil proclama l’ennesimo sciopero generale per il 12 dicembre.
«Non sanno più di cosa parlare. Esaurito il filone di Gaza dopo la firma della tregua, si sono gettati sulla manovra. Ma non ha senso».






