2021-09-25
Il formaggio che ha l’odore del Monte Grappa
Morlacco del Monte Grappa
Sulla cima veneta, promossa a riserva dall'Unesco, da secoli i pastori sfornano prodotti unici. Qui, dove la moneta era il burro, nasceva il morlacco. Una merce venduta al mercato di Venezia alle classi più umili. Che ha resistito al tempo arrivando fino a noi.Da luogo memoria storica di conflitti a sede ideale di alleanze future tra uomo e ambiente. Così si potrebbe introdurre la recente promozione del Monte Grappa a riserva della Biosfera all'interno del progetto Mab dell'Unesco. Cosa diversa dai patrimoni dell'umanità, di cui fanno parte le vicine colline del Prosecco, ma con un programma che, oltre alla necessaria conservazione e salvaguardia, apre a nuovi progetti del miglior equilibrio tra l'ambiente e il necessario sviluppo. Ne fanno parte 25 Comuni delle tre province che fanno corona al monte sacro alla patria, ognuna con le sue piccole capitali. Bassano per Vicenza, Asolo per Treviso e Feltre per Belluno. Diverse quindi le missioni e gli interlocutori coinvolti nel progetto. Educativo, a partire dal ruolo degli istituti alberghieri. «Attorno al massiccio del Grappa ci sono diverse realtà che vanno seguite nel loro sviluppo e valorizzazione», ci ricorda il dirigente dello storico Istituto Giuseppe Maffioli, il professor Nicola Zavattiero, con una delle sedi a Pieve del Grappa. «Non vi è solo la gastronomia, ma la filiera da cui tutto parte, la coltivazione o l'allevamento, nella massima valorizzazione e rispetto di tutto il contesto». Con una potenziale ricaduta economica importante. «Il turismo nei nostri territori ha un potenziale di spesa dei singoli visitatori superiore anche del 40 per cento rispetto alla media regionale», ricorda Valentina Fietta, una delle coordinatrici iniziali del progetto, grazie a studi elaborati dall'università di Padova. La sintesi è di Anna Lisa Rampin, sindaco di Pieve del Grappa e presidente dell'Ipa Monte Grappa e Terre di Asolo: «Vogliamo trasformare il Monte Grappa in un laboratorio a cielo aperto dell'armonia tra uomo e ambiente». Da secoli la montagna era risorsa, con i suoi pascoli, per i pastori che portavano il bestiame in altura dove poteva alimentarsi con una flora particolarmente ricca per varietà ed essenze relative. Le prime tracce documentate risalgono al 1224 quando il vescovo di Treviso concedeva terreni a monte di Possagno, patria di Antonio Canova, in cambio dell'usufrutto, in occasione della festa di San Giacomo (a fine luglio), «di libbre 550 di formaggio duro stagionato». Per secoli la fonte di reddito del faticoso lavoro in quota aveva bisogno di riscontro immediato e quindi moneta di scambio era il burro. La lavorazione del formaggio molto amatoriale, giusto per il fabbisogno del pasto in malga. Prodotto identitario il morlacco, con una storia che si identifica con le rotte commerciali della Repubblica di Venezia. I morlacchi erano una popolazione di pastori nomadi delle vallate interne poste tra Bosnia e Dalmazia. Attraversato l'Adriatico giungeva ai mercati di Rialto il formaggio «salà navegà», ovvero salato e giunto via mare. Un prodotto per le classi più umili, che non potevano permettersi quanto arrivava, invece, dalle pianure padane. Leggenda vuole che alcune comunità morlacche siano state portate sul Grappa per governare il bestiame considerata la loro dimestichezza a vivere in ambienti di rustica resistenza umana. Un prodotto originale per la sua componente di fresca lavorazione e relativa salatura, molto artigianale nella preparazione, non ancora ben codificata sino al secondo dopoguerra. Esistevano tanti morlacchi quante le malghe che lo producevano, così che un palato fine e pungente quale Bepo Maffioli annotò nei suoi diari di bordo che «emanava un forte odore che sapeva di calcagno (cioè di piedi, ndr)». C'era anche chi lo chiamava burlacco, acronimo tra la vacca burlina, fonte lattea, e i pastori nomadi provenienti da altre frontiere. Adesso i tempi sono cambiati. Grazie anche agli «ultimi mohicani» del morlacco, ovvero i pastori di nuova generazione, secondo una felice intuizione di una penna golosa e appassionata quale Renato Malaman. Ottimo con il risotto, in vari abbinamenti, dallo speck al radicchio. Una chicca la versione «increà», cioè rivestita dalla creta delle acque di Possagno. Era tradizione aprirlo la vigilia di Natale, così da assaporare i profumi e il gusto della stagione estiva. Fratellino minore il bastardo, detto così perché, un tempo, al latte vaccino si univa quello di capra o pecora che, di suo, non sarebbe stato sufficiente per caseificazione dedicata. Per gli etimologi più attenti, in realtà, il termine deriva dalla tecnica di lavorazione, un misto tra quello dell'asiago e del montasio che si usava nel vicino altopiano al di là del Brenta. Prodotto con il latte della mungitura serale, posto in vasche entro il «cason dell'aria», ambiente ventilato. Poi le forme si lasciano riposare qualche giorno nel «cason del fogo», piccola costruzione protetta e, infine, nel «casarin», appositi luoghi di affinatura, per la durata di circa un mese. Bastardo di nome, ma dal sapore pieno e marcato, il profumo aromatico dalle note erbacee. Alla fonte del tutto il latte della vacca burlina, identitaria di questi luoghi. Di piccola taglia rispetto alle colleghe di pianura, ma con molte altre virtù. Ad esempio una maggiore capacità di adattamento al clima della media e alta montagna, considerato che spesso, in stagione, vivono allo stato brado. Anche qui, mancando fonti dirette di documentazione, storia e fantasia partoriscono teorie affascinanti. Posto che la vacca burlina presenta forti somiglianze con la collega della regione dello Jutland (Danimarca), e che si suppone sia giunta qui grazie ai Cimbri, migrati da quelle terre diversi secoli fa, il suo nome sarebbe omaggio alla regina Burlhina, regnante di quelle fredde lande ai confini del continente. Agli inizi del Novecento le mandrie burline contavano circa 15.000 capi. In epoca fascista vi fu un tentativo di sostituzione etnica con più palestrati esemplari di etnia schwitz o bruna alpina, ma non era la stessa cosa. I giovani vitellini meticci erano più fragili e si ammalavano con maggiore frequenza, come inferiore ne risultava quindi anche la produzione del latte. Un attentato alle risorse economiche di intere comunità che, tra il Grappa e l'altopiano, tornavano poi in pianura a svernare in una vasta area compresa tra Vicentino, alta Padovana e destra Piave. Vi furono pastori resistenti che tentarono in tutti i modi di nascondere le loro creature alle ispezioni delle guardie forestali. Alcuni vennero messi in galera. Oramai la situazione era divenuta insostenibile. Sarebbe bastato solo un po' di buon senso e quello femminile trovò la quadra. Così lo racconta Mario Rigoni Stern tra le pagine de Le stagioni di Giacomo. Organizzarono cortei al grido di «Viva Mussolini, viva i tori burlini». Le autorità mangiarono la foglia e le donne di frontiera ottennero un doppio risultato, la scarcerazione dei mariti e il ritorno al pascolo delle loro mandrie preferite. In effetti le vacche burline, pur se meno imponenti di altre colleghe di taglia superiore, sono dotate di molte altre virtù. È vero che producono meno latte, ma per un periodo più lungo. Rimangono gravide in età più giovane e sono feconde per maggior tempo, quindi i conti si pareggiano, posto anche il fatto che il loro costo di mantenimento è minore, considerata l'innata rusticità acquisita nel tempo. In precedenza vi era una sorta di rischio genetico per la fecondazione «parentale», ma da quando l'A.Pro.La.V. (Associazione produttori latte veneto) si è presa cura di questa «minoranza etnica», grazie anche a finanziamenti regionali, tutta la linea riproduttiva avviene oramai in piena sicurezza e valorizzazione del patrimonio genetico di questa piccola regina dei pascoli del Grappa.