True
2019-02-25
Follia Ue: ai paladini dell’austerità 30.000 euro al mese (più benefit)
Ansa
Sempre in prima fila quando c'è da imporre l'austerità agli altri, ma guai a toccare i loro stipendi dorati. Stiamo parlando dei «mandarini» di Bruxelles, gli alti funzionari (ma forse è più corretto chiamarli miracolati) rigorosamente non eletti dal popolo, destinatari ogni mese di assegni da capogiro. Pensiamo a Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea, che ogni mese può contare sulla bellezza di 33.800 euro, oppure a Federica Mogherini, alto rappresentante per gli Affari esteri dell'Ue, che da par suo si deve accontentare di «soli» 31.400 euro al mese.
Non se la passano male nemmeno i cinque fidati vassalli di Juncker. La squadra dei vicepresidenti, nella quale rientra anche il lettone Valdis Dombrovskis, uno dei più accaniti contestatori delle politiche di bilancio del nostro esecutivo, si colloca appena un gradino sotto. Frans Timmermans, Andrus Ansip, Maros Sefcovic, Jyrki Katainen e lo stesso Dombrovskis godono infatti di uno stipendio base di 30.200 euro mensili. La folta schiera di commissari (21 per la precisione) è chiamata a cavarsela invece con «appena» 27.000 euro al mese. Tanto per citare i più noti, si va da Pierre Moscovici (Affari economici e monetari), a Gunther Oettinger (Bilancio e risorse umane), a Margrethe Vestager (Concorrenza), fino a Dimitris Avramopoulos (Migrazioni) e Marija Gabriel (Digitale).
Ma la lista dei paperoni continentali non si ferma ai componenti della Commissione. La norma che regola le buste paga dei titolari di alte cariche all'interno dell'Ue (il regolamento 2.016/300 del Consiglio del 29 febbraio 2016), infatti, stabilisce che la platea interessata dai trattamenti economici di favore sia molto più ampia. Si scopre dunque che, al pari del presidente della Commissione europea, anche il numero uno del Consiglio europeo, Donald Tusk, ha diritto a un emolumento fisso di 33.800 euro. Stesso discorso anche per il presidente della Corte di giustizia, il belga Koen Lenaerts, mentre la vicepresidente di quest'organo, la spagnola Rosario Silva de Lapuerta, guadagna 30.200 euro. Leggermente più «poveri» i vertici del Tribunale europeo, l'altro organo di giustizia chiamato a pronunciarsi sui ricorsi di cittadini e imprese: il lussemburghese Marc Jaeger percepisce infatti quanto un commissario, cioè 27.000 euro, mentre il suo vice, l'olandese Marc van der Woude, circa 25.900 euro. Sostanzioso anche l'ingaggio dei togati: se i 44 giudici del Tribunale ricevono poco meno di 25.000 euro al mese, i 38 colleghi della Corte di giustizia sfiorando i 27.000 euro. Chiudiamo in bellezza proprio con la struttura che ha il compito di vigilare sulle finanze dell'Unione: il tedesco il tedesco Klaus Heiner Lehne, presidente della Corte dei conti, può contare su 26.900 euro mensili, mentre i 27 membri dell'organo ricevono 25.000 euro.
La cifra riportata, si badi bene, è calcolata per difetto. Secondo la normativa, infatti, i pilastri a cui hanno diritto le alte sfere dell'Ue sono tre: il salario base (calcolato con una percentuale che va dal 104% al 138% del grado più alto per un dipendente dell'Unione), l'indennità di rappresentanza (forfettaria, da 554 euro a 1.418 euro mensili) e l'indennità di residenza (pari al 16% del salario base). Ci sono poi le voci variabili, come ad esempio gli assegni familiari. Questi ultimi si compongono dell'assegno per il coniuge (188 euro, maggiorati del 2% dello stipendio base) e di quello per i figli (410 per ogni figlio a carico fino all'età di 18 anni, oppure 26 se studente). Non poteva mancare poi un bell'incentivo scolastico: per tutti i figli a carico maggiori di cinque anni impegnati in un percorso formativo, mamma Europa riconosce un contributo di 278 euro al mese.
Per fare un esempio concreto, una famiglia composta da marito, moglie e due figli in età scolare arriva a percepire 1.560 euro in più. Una cifra che da sola, di questi tempi, non tutti riescono a portare a casa con un impiego a tempo pieno.
Le trasferte, poi, sono completamente spesate. La normativa prevede infatti che i titolari costretti a spostarsi fuori sede godano sia del rimborso delle spese di viaggio che di quelle legate all'albergo, oltre a un'indennità di missione giornaliera pari al 105% di quella prevista nello Statuto (una sorta di contratto collettivo dei lavoratori dell'Ue, ndr). La diaria varia in base al Paese di destinazione, e va dai 57 euro se si approda in Bulgaria ai 125 euro del Regno Unito. Tra i succulenti benefit previsti, anche l'indennità di prima sistemazione al momento dell'entrata in funzione e quella di nuova sistemazione al momento della cessazione dell'incarico, che oscilla da una a due mensilità dello stipendio base (per un commissario, ad esempio, si va dai 22.700 ai 55.400 euro). Coperte anche le spese di trasloco degli effetti e dei mobili personali, inclusa una coperta assicurativa che protegge da furto, danni e incendio la merce trasportata.
Dopo l'esperienza europea non dev'essere sempre facile trovare subito un impiego, ma a Bruxelles hanno pensato proprio a tutto. La soluzione è rappresentata da un'indennità transitoria erogata a decorrere dal primo mese successivo alla cessazione delle funzioni per un periodo che va dai sei mesi ai due anni. L'ammontare di questo ammortizzatore sociale varia in funzione alla durata del servizio prestato, e si esprime in percentuale dello stipendio base: si va dal 40% se il periodo è stato inferiore a due anni, fino al 65% qualora abbia superato i 15 anni. Pochi giorni fa, proprio su queste pagine, vi abbiamo raccontato la storia del malcapitato Pierre Moscovici, il commissario francese che ha visto sfumare una nomina data ormai per certa alla Corte dei conti transalpina. Ebbene, terminato il suo mandato a fine anno, non avrà di che preoccuparsi perché potrà contare su un sussidio di 11.000 euro. Nel caso dovesse trovare un nuovo lavoro regolarmente retribuito, l'ormai ex commissario non smetterà di percepire l'assegno di disoccupazione, perché questo verrà semplicemente decurtato dello stipendio dell'altro lavoro.
Certo, fa impressione sapere che Jean Claude Juncker guadagni ogni anno più di Donald Trump (405.000 euro contro 356.000 euro) o, se preferite, quasi il doppio di Angela Merkel e oltre il triplo di Vladimir Putin. Ma c'è dell'altro. Uno studio effettuato alcuni anni fa dal Partito per l'indipendenza del Regno Unito, l'Ukip di Nigel Farage, evidenzia come «gli alti funzionari dell'Unione europea non traggano vantaggio solo dagli stipendi d'oro, ma anche dal bassissimo livello di tassazione». Un meccanismo che va sotto il nome di «privilege premium» e che, a parità di aliquote applicate dall'Ue e a livello nazionale, consente di portare a casa stipendi netti più alti di diverse migliaia di euro al mese. Il trucco sta nel fatto, spiegano i tecnici dell'Ukip, che «lo Statuto stabilisce che buona parte dello stipendio dei funzionari non costituisca imponibile per la tassazione». Dal calcolo dell'aliquota vengono escluse, infatti, le indennità familiari, quelle di rappresentanza e i contributi ai fini pensionistici. Alla faccia dell'equità, un effetto collaterale di questo sistema è che a trarne maggior vantaggio sono proprio gli alti funzionari, dal momento che sono anche quelli che percepiscono le indennità più corpose.
Nel frattempo, come ogni anno, lo scorso dicembre l'Unione ha provveduto all'adeguamento al costo della vita, aumentando tutti i salari e le indennità dell'1,7%. Nessun problema, tanto va tutto sul conto del budget europeo, finanziato anche con i nostri soldi. Perché l'austerità è bella, ma solo con le tasche degli altri.
E per i loro vitalizi ci toccherà pure dare altri 300 milioni
C'è un buco nero nei bilanci europei che nell'immediato futuro minaccia di risucchiare centinaia di milioni di euro dalle tasche dei cittadini del Vecchio continente.
Nel silenzio generale dei media e della politica, a Bruxelles si susseguono concitate riunioni per rimediare al disastro causato dal Fondo di vitalizio volontario del Parlamento europeo. La situazione è drammatica: il fondo in questione, infatti, registrava alla fine del 2017 un deficit attuariale di 305,4 milioni di euro, in forte aumento nel corso degli ultimi anni. Secondo una nota di marzo del 2018, trasmessa dal Segretariato generale del Parlamento ai membri dell'Ufficio di presidenza, il capitale è destinato a esaurirsi «ben prima del termine degli obblighi pensionistici e forse già nel 2024, con conseguenze molto serie per i contribuenti europei». Arrivati a questo punto, solo un miracolo potrebbe evitare lo scioglimento del fondo, un'eventualità che farebbe ricadere il costo dell'enorme deficit sulle spalle dei contribuenti.
Ma come si è arrivati a questo punto? È sufficiente ripercorrere brevemente la storia del fondo per capire come il suo fallimento fosse solo una questione di tempo. La sua istituzione risale al giugno del 1990, quando l'Ufficio di presidenza decise, in assenza di uno statuto comune dei deputati, di introdurre un regime di vitalizio integrativo volontario. Nel 1993 fu istituita un'organizzazione senza scopo di lucro di diritto lussemburghese, giuridicamente separata dal Parlamento e non soggetta a controllo né tanto meno revisione da parte di quest'ultimo. «Sin dall'inizio», scrive il Segretariato generale nella nota della scorsa primavera, «il rapporto tra i versamenti da parte dei beneficiari all'interno del regime e gli obblighi di pagamento al di fuori di esso non era bilanciato», dal momento che «i due terzi dei versamenti erano a carico del Parlamento mentre un terzo era a carico dei beneficiari. Inoltre, rispetto ai contributi erogati, i pagamenti promessi presentano una forte sproporzione». Nel tempo, accortisi dell'abbaglio, da Bruxelles le hanno provate un po' tutte per tamponare l'emorragia di denaro. Le contromisure messe in atto sono state sia di carattere generale, per esempio l'aumento dell'età pensionabile da 60 a 63 anni oppure l'abolizione del pensionamento anticipato a 50 anni, sia di carattere specifico, con l'aumento graduale dei contributi. Decisioni che sono state persino impugnate di fronte alla Corte di giustizia da parte dei beneficiari del regime, preoccupati di perdere diritti considerati già acquisiti. Le tre cause che si sono susseguite negli anni si sono comunque concluse con un esito positivo per il Parlamento europeo.
Nonostante i correttivi, il fondo ha continuato il suo cammino verso il baratro. La scelta di interrompere la raccolta di nuove adesioni a partire dal 2009, che ha portato alla cessazione dei versamenti contributivi da parte del Parlamento e dei deputati, unita al «rendimento insufficiente degli investimenti, cui si sono sommati gli effetti della crisi finanziaria», ha finito per aggravare ulteriormente la situazione. Ogni anno il fondo, infatti, si trova a dover corrispondere 758 pensioni (di cui 92 di reversibilità e 7 per gli orfani), per un importo medio mensile di circa 1.900 euro, e un esborso annuale di 17,1 milioni di euro. Ricordiamo che questi importi riguardano solo il vitalizio integrativo, e perciò vanno a sommarsi alla pensione ordinaria che percepiscono i deputati.
Il picco di trattamenti è previsto nel 2025, anno nel quale dovrebbero essere erogati contributi per 21,1 milioni. Visti i presupposti, non è detto che per quella data il fondo sia ancora in piedi. La nota di marzo 2018 rileva che «la principale causa del deficit è da imputare, da una parte, al forte squilibrio tra le pensioni garantite ai membri del fondo e dall'altra ai pagamenti effettuati al fondo, dal momento che la sua sostenibilità poteva essere raggiunta tramite un rendimento annuale del 7%, oggettivamente irrealistico».
Le soluzioni messe in campo a marzo per arginare questa situazione sono un ulteriore aumento dell'età pensionabile da 63 a 65 anni, un prelievo del 5% su tutte le prestazioni pensionistiche e il congelamento dei futuri aumenti del pensioni. Nella riunione di dicembre scorso, il Segretariato generale ha esortato l'Ufficio di presidenza del Parlamento all'adozione di queste misure. Tuttavia, la valutazione d'impatto che accompagna il verbale non fa ben sperare: il miglioramento in termini di liquidità dovrebbe limitarsi a soli 12,3 milioni di euro, che si tradurrebbe in un prolungamento della vita del fondo di soli otto mesi. Tradotto, si tratta di una mossa disperata per guadagnare un po' di tempo. Probabilmente è anche per questo motivo che il Segretariato ha chiesto mandato all'Ufficio di presidenza per «esaminare ogni possibile linea d'azione per giungere a una soluzione risolutoria e definitiva a lungo termine». Una formula minacciosa che lascia intendere come a Bruxelles siano pronti a tutto pur di porre fine a questa vicenda.
La trasparenza non è la benvenuta quando parliamo di pensioni europee, ma se ci atteniamo ai dati in nostro possesso una cosa è certa: l'Ue spende già una marea di soldi in questo settore. Nel budget del Parlamento europeo, ogni anno 13,6 milioni sono dedicati al pagamento delle pensioni, mentre 77,6 milioni vengono destinati ai contributi. L'età pensionabile di un parlamentare è fissata a 63 anni, e il vitalizio è pari al 3,5% del salario base (8.750 euro) moltiplicato per gli anni di servizio. Un deputato con due legislature alle spalle, dunque, ha diritto a un assegno di «soli» 3.060 euro.
Molto più costosa la Commissione europea: i contributi pesano per 451 milioni, mentre le pensioni costano ogni anno ben 1,84 miliardi. Capitolo a parte per gli alti funzionari dell'Ue (spesa totale 26,4 milioni l'anno), tra i quali rientrano i componenti della Commissione europea, i membri della Corte di giustizia e del Tribunale e quelli della Corte dei conti. L'aliquota è pari al 3,6% del salario base (che varia dai 27.900 del presidente della Commissione ai 22.700 dei commissari, ai 21.000 euro dei giudici), ed è pari al doppio di quella prevista dallo Statuto dei funzionari dell'Unione europea.
Un meccanismo che favorisce gli incarichi di lungo corso, come ad esempio i magistrati della Corte. L'età pensionabile è fissata a 66 anni, ma si può scegliere di andare a riposo anche sei anni prima con una penalizzazione massima del 30%. Gli stessi euroburocrati che ci hanno imposto la legge Fornero e che criticano l'attuale «quota 100», insomma, si sono riservati la possibilità di andare in pensione molti anni prima per godersi i loro corposi assegni.
Continua a leggereRiduci
Gli euroburocrati chiedono a noi sacrifici, intanto si sono assicurati paghe di lusso, rimborsi, assegni familiari e tasse scontate. Tra i più ricchi Jean-Claude Juncker, Donald Tusk e l'italiana Federica Mogherini.Il fondo, istituito nel 1990 e riservato ai deputati, oggi è sull'orlo del fallimento. Se imploderà, saranno i contribuenti a pagare.Lo speciale contiene due articoliSempre in prima fila quando c'è da imporre l'austerità agli altri, ma guai a toccare i loro stipendi dorati. Stiamo parlando dei «mandarini» di Bruxelles, gli alti funzionari (ma forse è più corretto chiamarli miracolati) rigorosamente non eletti dal popolo, destinatari ogni mese di assegni da capogiro. Pensiamo a Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea, che ogni mese può contare sulla bellezza di 33.800 euro, oppure a Federica Mogherini, alto rappresentante per gli Affari esteri dell'Ue, che da par suo si deve accontentare di «soli» 31.400 euro al mese.Non se la passano male nemmeno i cinque fidati vassalli di Juncker. La squadra dei vicepresidenti, nella quale rientra anche il lettone Valdis Dombrovskis, uno dei più accaniti contestatori delle politiche di bilancio del nostro esecutivo, si colloca appena un gradino sotto. Frans Timmermans, Andrus Ansip, Maros Sefcovic, Jyrki Katainen e lo stesso Dombrovskis godono infatti di uno stipendio base di 30.200 euro mensili. La folta schiera di commissari (21 per la precisione) è chiamata a cavarsela invece con «appena» 27.000 euro al mese. Tanto per citare i più noti, si va da Pierre Moscovici (Affari economici e monetari), a Gunther Oettinger (Bilancio e risorse umane), a Margrethe Vestager (Concorrenza), fino a Dimitris Avramopoulos (Migrazioni) e Marija Gabriel (Digitale).Ma la lista dei paperoni continentali non si ferma ai componenti della Commissione. La norma che regola le buste paga dei titolari di alte cariche all'interno dell'Ue (il regolamento 2.016/300 del Consiglio del 29 febbraio 2016), infatti, stabilisce che la platea interessata dai trattamenti economici di favore sia molto più ampia. Si scopre dunque che, al pari del presidente della Commissione europea, anche il numero uno del Consiglio europeo, Donald Tusk, ha diritto a un emolumento fisso di 33.800 euro. Stesso discorso anche per il presidente della Corte di giustizia, il belga Koen Lenaerts, mentre la vicepresidente di quest'organo, la spagnola Rosario Silva de Lapuerta, guadagna 30.200 euro. Leggermente più «poveri» i vertici del Tribunale europeo, l'altro organo di giustizia chiamato a pronunciarsi sui ricorsi di cittadini e imprese: il lussemburghese Marc Jaeger percepisce infatti quanto un commissario, cioè 27.000 euro, mentre il suo vice, l'olandese Marc van der Woude, circa 25.900 euro. Sostanzioso anche l'ingaggio dei togati: se i 44 giudici del Tribunale ricevono poco meno di 25.000 euro al mese, i 38 colleghi della Corte di giustizia sfiorando i 27.000 euro. Chiudiamo in bellezza proprio con la struttura che ha il compito di vigilare sulle finanze dell'Unione: il tedesco il tedesco Klaus Heiner Lehne, presidente della Corte dei conti, può contare su 26.900 euro mensili, mentre i 27 membri dell'organo ricevono 25.000 euro.La cifra riportata, si badi bene, è calcolata per difetto. Secondo la normativa, infatti, i pilastri a cui hanno diritto le alte sfere dell'Ue sono tre: il salario base (calcolato con una percentuale che va dal 104% al 138% del grado più alto per un dipendente dell'Unione), l'indennità di rappresentanza (forfettaria, da 554 euro a 1.418 euro mensili) e l'indennità di residenza (pari al 16% del salario base). Ci sono poi le voci variabili, come ad esempio gli assegni familiari. Questi ultimi si compongono dell'assegno per il coniuge (188 euro, maggiorati del 2% dello stipendio base) e di quello per i figli (410 per ogni figlio a carico fino all'età di 18 anni, oppure 26 se studente). Non poteva mancare poi un bell'incentivo scolastico: per tutti i figli a carico maggiori di cinque anni impegnati in un percorso formativo, mamma Europa riconosce un contributo di 278 euro al mese.Per fare un esempio concreto, una famiglia composta da marito, moglie e due figli in età scolare arriva a percepire 1.560 euro in più. Una cifra che da sola, di questi tempi, non tutti riescono a portare a casa con un impiego a tempo pieno.Le trasferte, poi, sono completamente spesate. La normativa prevede infatti che i titolari costretti a spostarsi fuori sede godano sia del rimborso delle spese di viaggio che di quelle legate all'albergo, oltre a un'indennità di missione giornaliera pari al 105% di quella prevista nello Statuto (una sorta di contratto collettivo dei lavoratori dell'Ue, ndr). La diaria varia in base al Paese di destinazione, e va dai 57 euro se si approda in Bulgaria ai 125 euro del Regno Unito. Tra i succulenti benefit previsti, anche l'indennità di prima sistemazione al momento dell'entrata in funzione e quella di nuova sistemazione al momento della cessazione dell'incarico, che oscilla da una a due mensilità dello stipendio base (per un commissario, ad esempio, si va dai 22.700 ai 55.400 euro). Coperte anche le spese di trasloco degli effetti e dei mobili personali, inclusa una coperta assicurativa che protegge da furto, danni e incendio la merce trasportata.Dopo l'esperienza europea non dev'essere sempre facile trovare subito un impiego, ma a Bruxelles hanno pensato proprio a tutto. La soluzione è rappresentata da un'indennità transitoria erogata a decorrere dal primo mese successivo alla cessazione delle funzioni per un periodo che va dai sei mesi ai due anni. L'ammontare di questo ammortizzatore sociale varia in funzione alla durata del servizio prestato, e si esprime in percentuale dello stipendio base: si va dal 40% se il periodo è stato inferiore a due anni, fino al 65% qualora abbia superato i 15 anni. Pochi giorni fa, proprio su queste pagine, vi abbiamo raccontato la storia del malcapitato Pierre Moscovici, il commissario francese che ha visto sfumare una nomina data ormai per certa alla Corte dei conti transalpina. Ebbene, terminato il suo mandato a fine anno, non avrà di che preoccuparsi perché potrà contare su un sussidio di 11.000 euro. Nel caso dovesse trovare un nuovo lavoro regolarmente retribuito, l'ormai ex commissario non smetterà di percepire l'assegno di disoccupazione, perché questo verrà semplicemente decurtato dello stipendio dell'altro lavoro.Certo, fa impressione sapere che Jean Claude Juncker guadagni ogni anno più di Donald Trump (405.000 euro contro 356.000 euro) o, se preferite, quasi il doppio di Angela Merkel e oltre il triplo di Vladimir Putin. Ma c'è dell'altro. Uno studio effettuato alcuni anni fa dal Partito per l'indipendenza del Regno Unito, l'Ukip di Nigel Farage, evidenzia come «gli alti funzionari dell'Unione europea non traggano vantaggio solo dagli stipendi d'oro, ma anche dal bassissimo livello di tassazione». Un meccanismo che va sotto il nome di «privilege premium» e che, a parità di aliquote applicate dall'Ue e a livello nazionale, consente di portare a casa stipendi netti più alti di diverse migliaia di euro al mese. Il trucco sta nel fatto, spiegano i tecnici dell'Ukip, che «lo Statuto stabilisce che buona parte dello stipendio dei funzionari non costituisca imponibile per la tassazione». Dal calcolo dell'aliquota vengono escluse, infatti, le indennità familiari, quelle di rappresentanza e i contributi ai fini pensionistici. Alla faccia dell'equità, un effetto collaterale di questo sistema è che a trarne maggior vantaggio sono proprio gli alti funzionari, dal momento che sono anche quelli che percepiscono le indennità più corpose. Nel frattempo, come ogni anno, lo scorso dicembre l'Unione ha provveduto all'adeguamento al costo della vita, aumentando tutti i salari e le indennità dell'1,7%. Nessun problema, tanto va tutto sul conto del budget europeo, finanziato anche con i nostri soldi. Perché l'austerità è bella, ma solo con le tasche degli altri.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/follia-ue-ai-paladini-dellausterita-30-000-euro-al-mese-piu-benefit-2629892646.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="e-per-i-loro-vitalizi-ci-tocchera-pure-dare-altri-300-milioni" data-post-id="2629892646" data-published-at="1765297173" data-use-pagination="False"> E per i loro vitalizi ci toccherà pure dare altri 300 milioni C'è un buco nero nei bilanci europei che nell'immediato futuro minaccia di risucchiare centinaia di milioni di euro dalle tasche dei cittadini del Vecchio continente. Nel silenzio generale dei media e della politica, a Bruxelles si susseguono concitate riunioni per rimediare al disastro causato dal Fondo di vitalizio volontario del Parlamento europeo. La situazione è drammatica: il fondo in questione, infatti, registrava alla fine del 2017 un deficit attuariale di 305,4 milioni di euro, in forte aumento nel corso degli ultimi anni. Secondo una nota di marzo del 2018, trasmessa dal Segretariato generale del Parlamento ai membri dell'Ufficio di presidenza, il capitale è destinato a esaurirsi «ben prima del termine degli obblighi pensionistici e forse già nel 2024, con conseguenze molto serie per i contribuenti europei». Arrivati a questo punto, solo un miracolo potrebbe evitare lo scioglimento del fondo, un'eventualità che farebbe ricadere il costo dell'enorme deficit sulle spalle dei contribuenti.Ma come si è arrivati a questo punto? È sufficiente ripercorrere brevemente la storia del fondo per capire come il suo fallimento fosse solo una questione di tempo. La sua istituzione risale al giugno del 1990, quando l'Ufficio di presidenza decise, in assenza di uno statuto comune dei deputati, di introdurre un regime di vitalizio integrativo volontario. Nel 1993 fu istituita un'organizzazione senza scopo di lucro di diritto lussemburghese, giuridicamente separata dal Parlamento e non soggetta a controllo né tanto meno revisione da parte di quest'ultimo. «Sin dall'inizio», scrive il Segretariato generale nella nota della scorsa primavera, «il rapporto tra i versamenti da parte dei beneficiari all'interno del regime e gli obblighi di pagamento al di fuori di esso non era bilanciato», dal momento che «i due terzi dei versamenti erano a carico del Parlamento mentre un terzo era a carico dei beneficiari. Inoltre, rispetto ai contributi erogati, i pagamenti promessi presentano una forte sproporzione». Nel tempo, accortisi dell'abbaglio, da Bruxelles le hanno provate un po' tutte per tamponare l'emorragia di denaro. Le contromisure messe in atto sono state sia di carattere generale, per esempio l'aumento dell'età pensionabile da 60 a 63 anni oppure l'abolizione del pensionamento anticipato a 50 anni, sia di carattere specifico, con l'aumento graduale dei contributi. Decisioni che sono state persino impugnate di fronte alla Corte di giustizia da parte dei beneficiari del regime, preoccupati di perdere diritti considerati già acquisiti. Le tre cause che si sono susseguite negli anni si sono comunque concluse con un esito positivo per il Parlamento europeo. Nonostante i correttivi, il fondo ha continuato il suo cammino verso il baratro. La scelta di interrompere la raccolta di nuove adesioni a partire dal 2009, che ha portato alla cessazione dei versamenti contributivi da parte del Parlamento e dei deputati, unita al «rendimento insufficiente degli investimenti, cui si sono sommati gli effetti della crisi finanziaria», ha finito per aggravare ulteriormente la situazione. Ogni anno il fondo, infatti, si trova a dover corrispondere 758 pensioni (di cui 92 di reversibilità e 7 per gli orfani), per un importo medio mensile di circa 1.900 euro, e un esborso annuale di 17,1 milioni di euro. Ricordiamo che questi importi riguardano solo il vitalizio integrativo, e perciò vanno a sommarsi alla pensione ordinaria che percepiscono i deputati. Il picco di trattamenti è previsto nel 2025, anno nel quale dovrebbero essere erogati contributi per 21,1 milioni. Visti i presupposti, non è detto che per quella data il fondo sia ancora in piedi. La nota di marzo 2018 rileva che «la principale causa del deficit è da imputare, da una parte, al forte squilibrio tra le pensioni garantite ai membri del fondo e dall'altra ai pagamenti effettuati al fondo, dal momento che la sua sostenibilità poteva essere raggiunta tramite un rendimento annuale del 7%, oggettivamente irrealistico». Le soluzioni messe in campo a marzo per arginare questa situazione sono un ulteriore aumento dell'età pensionabile da 63 a 65 anni, un prelievo del 5% su tutte le prestazioni pensionistiche e il congelamento dei futuri aumenti del pensioni. Nella riunione di dicembre scorso, il Segretariato generale ha esortato l'Ufficio di presidenza del Parlamento all'adozione di queste misure. Tuttavia, la valutazione d'impatto che accompagna il verbale non fa ben sperare: il miglioramento in termini di liquidità dovrebbe limitarsi a soli 12,3 milioni di euro, che si tradurrebbe in un prolungamento della vita del fondo di soli otto mesi. Tradotto, si tratta di una mossa disperata per guadagnare un po' di tempo. Probabilmente è anche per questo motivo che il Segretariato ha chiesto mandato all'Ufficio di presidenza per «esaminare ogni possibile linea d'azione per giungere a una soluzione risolutoria e definitiva a lungo termine». Una formula minacciosa che lascia intendere come a Bruxelles siano pronti a tutto pur di porre fine a questa vicenda. La trasparenza non è la benvenuta quando parliamo di pensioni europee, ma se ci atteniamo ai dati in nostro possesso una cosa è certa: l'Ue spende già una marea di soldi in questo settore. Nel budget del Parlamento europeo, ogni anno 13,6 milioni sono dedicati al pagamento delle pensioni, mentre 77,6 milioni vengono destinati ai contributi. L'età pensionabile di un parlamentare è fissata a 63 anni, e il vitalizio è pari al 3,5% del salario base (8.750 euro) moltiplicato per gli anni di servizio. Un deputato con due legislature alle spalle, dunque, ha diritto a un assegno di «soli» 3.060 euro. Molto più costosa la Commissione europea: i contributi pesano per 451 milioni, mentre le pensioni costano ogni anno ben 1,84 miliardi. Capitolo a parte per gli alti funzionari dell'Ue (spesa totale 26,4 milioni l'anno), tra i quali rientrano i componenti della Commissione europea, i membri della Corte di giustizia e del Tribunale e quelli della Corte dei conti. L'aliquota è pari al 3,6% del salario base (che varia dai 27.900 del presidente della Commissione ai 22.700 dei commissari, ai 21.000 euro dei giudici), ed è pari al doppio di quella prevista dallo Statuto dei funzionari dell'Unione europea. Un meccanismo che favorisce gli incarichi di lungo corso, come ad esempio i magistrati della Corte. L'età pensionabile è fissata a 66 anni, ma si può scegliere di andare a riposo anche sei anni prima con una penalizzazione massima del 30%. Gli stessi euroburocrati che ci hanno imposto la legge Fornero e che criticano l'attuale «quota 100», insomma, si sono riservati la possibilità di andare in pensione molti anni prima per godersi i loro corposi assegni.
Marco Scatarzi in foto piccola (Ansa)
Marco Scatarzi, dal 2017 direttore di Passaggio al bosco, è stanco ma tranquillo, di sicuro soddisfatto nonostante i momenti di tensione. Con La Verità ripercorre i passaggi che hanno portato il suo marchio ad avere uno stand alla fiera romana «Più libri più liberi». «Da anni facevamo domanda di partecipazione con la regolare modulistica e per anni siamo stati sempre avvisati che gli spazi non erano disponibili», spiega. «Anche quest’anno in realtà avevamo ricevuto l’email che appunto ci avvisava della mancanza di spazi disponibili, poi però siamo stati ripescati a settembre e ci è stato concesso uno stand».
Come mai?
«Perché lo scorso anno, in polemica con l’organizzazione, molte case editrici di sinistra avevano disdetto la prenotazione e quindi hanno liberato spazi».
Dunque esiste una polemica interna fra la direzione della fiera e le case editrici?
«Mi sembra di aver colto questa polemica che si protrae da anni, per le più svariate motivazioni che ogni anno cambiano. Quest’anno è stata Passaggio al bosco l’oggetto del contendere, ma una dialettica accesa esiste da tempo».
Che cosa vi è stato richiesto per partecipare?
«C’è un regolamento da sottoscrivere con varie clausole, che per altro molti hanno citato nei giorni scorsi. Si chiede il rispetto della Costituzione, dei diritti umani... E poi ovviamente c’è la quota di pagamento che attesta appunto l’affitto dello spazio».
Fate richiesta da anni. Nessuno vi aveva mai detto nulla?
«No, assolutamente no».
Poi è arrivato l’appello, la richiesta di cacciarvi da parte di un centinaio tra autori e case editrici. Come ne siete venuti a conoscenza?
«Lo abbiamo appreso dai social network dopo che l’onorevole Fiano, con un post, ha chiesto il nostro allontanamento dalla fiera. Quel post ha generato nei giorni seguenti l’appello di Zerocalcare e degli altri intellettuali, se così possiamo definirli, che appunto chiedevano di mandarci via».
Vi hanno accusato di essere fascisti e neonazisti. Cosa rispondete?
«Che abbiamo un catalogo vastissimo, con parecchie di collane, 300 titoli e un pluriverso di autori che spaziano geograficamente in tutto il mondo e in tutte le anime della cosiddetta “destra”. Abbiamo un orientamento identitario e cerchiamo di rappresentare le varie anime del pensiero della destra, dando corpo ad un approfondimento che abbraccia storia, filosofia, società, geopolitica, sport, viaggi e molto altro. Ovviamente, come da prassi, il tutto viene sistematicamente strumentalizzato attraverso i soliti spauracchi caricaturali: ciò che disturba, senza dubbio, è la diffusione di un pensiero non allineato, soprattutto sui temi di stretta attualità. Le voci libere dal coro unanime del progressismo, si sa, sono sempre oggetto di demonizzazione».
Vi hanno rimproverato di aver pubblicato Léon Degrelle.
«Rispondo citando ciò che Roberto Saviano ha detto a Più libri più liberi, quando ha risposto alle polemiche alzate dai firmatari della petizione: tutti i libri hanno il diritto di essere letti e di esistere. Non abbiamo bisogno di badanti ideologiche… Ebbene, noi cerchiamo di offrire uno sguardo diverso, un punto di vista anche radicale, perché riteniamo che sia importante conoscere tutto. E non ci sentiamo di dover prendere lezioni di morale da chi magari nei propri cataloghi - del tutto legittimamente, perché io per primo li leggo - ha libri altrettanto radicali, benché di orientamento opposto a quello che viene rimproverato a noi».
Come è stata la permanenza alla fiera?
«Ci sono state molte contestazioni, diverse aggressioni verbali, cortei improvvisati, cori con “Bella ciao” e tentativi di boicottaggio che hanno cercato di minare la nostra partecipazione. Non ce ne lamentiamo: abbiamo risposto con la forza tranquilla del nostro sorriso, svolgendo il nostro lavoro».
E i vertici della fiera? È venuto qualcuno a parlare con voi?
«Sì, naturalmente. Hanno apprezzato il nostro profilo asciutto e professionale. Qualcuno ha scambiato la fiera per un centro sociale, ma non ci siamo mai fatti intimorire o provocare. Abbiamo evitato in ogni modo possibile di alimentare la polemica e non ci siamo prestati alla ribalta mediatica provocazioni anzi le abbiamo anche accolte col sorriso e non abbiamo neanche cercato la ribalta mediatica: il nostro - appunto - è un lavoro editoriale di approfondimento. Può non piacere, ma ha diritto di esprimersi».
Zerocalcare dice che avete organizzato un’operazione politica, che siete organici al partito di governo.
«Ovviamente non esiste alcuna operazione politica: esiste soltanto una casa editrice che partecipa ad una fiera dedicata ai libri. L’operazione politica - semmai - è quella della sinistra radicale che si organizza per montare una polemica, cercando di censurare chi la pensa diversamente. Hanno montato una polemica politica stucchevole, che molti hanno condannato anche da sinistra. Peraltro, sottolineo ancora una volta che Passaggio al bosco contiene in sé un pluriverso enorme di autori, di esperienze, di persone e di realtà: alcune sono impegnate politicamente, molte altre no. Di certo, non può essere ritenuta organica ad alcunché, se non alla propria attività di divulgazione culturale. Ma poi, con quale coraggio una sinistra radicale che fa sistema da anni, spesso con la logica della “cupola”, si permette di avanzare simili obiezioni?»
Chiederete di partecipare a Più libri più liberi anche l’anno prossimo?
«Certamente. Chiederemo di partecipare - come quest’anno - ad un festival che ospita gli editori. Saremo felici di esserci con i nostri testi, con i nostri autori e con la nostra attività. Sicuramente, anche al di là delle contestazioni, quella appena conclusa è stata un’esperienza importante, in una fiera ben organizzata e molto bella. Avremmo piacere di ripeterla».
Avete venduto bene?
«Abbiamo venduto benissimo, terminando tutti i nostri libri. Per quattro volte siamo dovuti tornare a rifornirci in Toscana e il nostro è stato certamente uno degli stand più visitati della fiera. Il boicottaggio ha sortito l’effetto contrario: ci hanno contattato già centinaia di autori, di distributori, di traduttori, di agenti pubblicitari e di addetti ai lavori. Ogni tipo di figura operante nel campo dell’editoria non solo ci ha mostrato solidarietà, ma è venuta da noi a conoscerci e a proporci nuove collaborazioni. Quindi, se prima eravamo una casa editrice emergente, adesso abbiamo accesso ad un pubblico più ampio e a canali che ci permetteranno di arrivare là dove non eravamo mai arrivati».
Continua a leggereRiduci
iStock
Un’associazione che non ha mai fatto del male a nessuno e che porta avanti un’agenda pro life attraverso tre direttrici fondamentali: fare pressione politica affinché anche questa visione del mondo venga accolta dalle istituzioni internazionali; educare i giovani al rispetto della vita dal concepimento alla morte naturale; e, infine, promuovere attività culturali, come ad esempio scambi internazionali ed Erasmus, affinché i giovani si sviluppino integralmente attraverso il bello.
In passato, la World youth alliance ha ottenuto, come è giusto che sia, diversi finanziamenti da parte dell’Unione europea (circa 1,2 milioni) senza che nessuno dicesse alcunché. Ora però qualcosa è cambiato. La World youth alliance, infatti, ha partecipato ad alcuni bandi europei ottenendo oltre 400.000 euro di fondi per organizzare le proprie attività. La normalità, insomma. Poi però sono arrivate tre interrogazioni da parte dei partiti di sinistra, che hanno evidenziato come gli ideali portati avanti da questa associazione siano contrari (secondo loro) all’articolo 14 dell’Accordo di sovvenzione, secondo cui «l’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società in cui prevalgono il pluralismo, la non discriminazione, la tolleranza, la giustizia, la solidarietà e la parità tra donne e uomini».
Il punto, però, è che la World youth alliance non ha mai contraddetto questi valori, ma ha semplicemente portato avanti una visione pro life, come è lecito che sia, e sostenuto che si può non abortire. Che c’è sempre speranza. Che la vita, di chiunque essa sia, va sempre difesa. Che esistono solamente due sessi. Posizioni che, secondo la sinistra, sarebbero contrarie ai valori dell’Ue.
Come nota giustamente l’eurodeputato Paolo Inselvini (Fdi) da cui è partita la denuncia dopo che la World youth alliance si è rivolta a lui affidandogli i documenti, le interrogazioni presentate fanno riferimento a documenti politici che non esistevano nel momento in cui è stata fatta la richiesta di fondi e che ora vengono utilizzati in modo retroattivo. Come, per esempio, la Strategia europea Lgbtiq 2026-2030, che è stata adottata lo scorso ottobre, e la Roadmap sui diritti delle donne, che è stata comunicata in Commissione nel marzo del 2025. Documenti che ora vengono utilizzati come clave per togliere i fondi.
Secondo Inselvini, che a breve invierà una lettera in cui chiederà chiarimenti alla Commissione europea, «si stanno costruendo “nuovi valori europei” non sulla base dei Trattati, della Carta dei diritti fondamentali o della tradizione giuridica europea, ma sulla base di orientamenti politici tutt’altro che condivisi dai cittadini europei».
Ma non solo. In questo modo, prosegue l’eurodeputato, «i fondi vanno sempre agli stessi. Questa vicenda, infatti, si inserisce in un quadro più ampio: fondi e spazi istituzionali sembrano essere accessibili solo a chi promuove l’agenda progressista. Basta guardare alle priorità politiche ed economiche: 3,6 miliardi trovati senza esitazione per la nuova strategia Lgbtq+, mentre le realtà che non si allineano vengono marginalizzate, ignorate o addirittura sanzionate. L’Europa non può diventare un sistema di fidelizzazione ideologica in cui si accede a risorse pubbliche solo a condizione di adottare un certo vocabolario e una certa visione del mondo».
Perché è proprio questo che è diventata oggi l’Ue: un ente che punisce chiunque osi pensarla diversamente. Un’organizzazione che è diventata il megafono delle minoranze, soprattutto quelle Lgbt, e che non ammette alcuna contraddizione. Chi osa esprimere dubbi, o semplicemente il proprio pensiero, viene punito. Via i fondi alla Fafce e alla World youth alliance, quindi.
Il tutto in nome del rispetto per le opinioni degli altri. «Se oggi si arriva a censire, controllare e punire un’organizzazione non per quello che fa, ma per quello che crede, allora significa che qualcosa si è rotto», conclude Inselvini.
Continua a leggereRiduci
(Totaleu)
Lo ha detto il ministro a margine del consiglio per gli Affari interni, riguardo ai centri di rimpatrio in Albania.