2020-06-20
Flop annunciato di Conte. Il Recovery fund passa dal bazooka all’elemosina
Ursula von der Leyen e Giuseppe Conte (Ansa)
Stallo al Consiglio Ue: Charles Michel rimanda a futuri negoziati, Helsinki dà manforte ai frugali. Gli stanziamenti arriveranno tardi e saranno inferiori al previsto.Lo scorso 23 aprile il presidente del Consiglio Ue, Charles Michel, annunciava che il Recovery fund era «necessario ed urgente». Ieri Michel ha ribadito che bisogna fare in fretta. Niente male come risultato, dopo 57 giorni in cui abbiamo appreso che è svanito nel nulla il 40% della produzione industriale del nostro Paese e che chiuderemo il Pil del 2020 con un calo più vicino al 15% che al 10%. Ci sono volute 4 ore di videconferenza per apprendere che il Consiglio ha deciso che deciderà, nella migliore delle ipotesi, entro luglio. Nella lettera di invito formulata tre giorni prima dell'incontro, il presidente aveva elencato i punti fondamentali su cui i leader avrebbero dovuto trovare una linea comune: entità e durata del fondo; distribuzione dei fondi tra gli Stati membri e ripartizione tra sussidi e prestiti; condizioni per l'accesso e l'utilizzo dei fondi, cioè le riforme che il blocco nordico interpreta, puramente e semplicemente, come un programma di aggiustamento macroeconomico; entità del Quadro finanziario pluriennale (Qfp) 2021-2028 e modalità di finanziamento con le risorse proprie erogate dagli Stati oltre a eventuali sconti.I leader hanno evidenziato tutta la loro distanza su ciascuno degli aspetti sopraelencati. Del resto, non era stato un caso che Angela Merkel, prossima presidente di turno, parlando giovedì davanti al Bundestag, si fosse spesa in prima persona per invitare i colleghi europei alla rapidità dell'azione, con un accordo da raggiungere prima della pausa estiva. L'appello della Merkel aveva offerto la misura della distanza delle posizioni in campo e della conseguente necessità di spendere la sua autorevole voce.Il comunicato finale del presidente Michel impressiona per la sua povertà di contenuti. Dopo due mesi di attesa, siano ancora costretti a sentirci dire che c'è consenso su alcuni punti (l'emissione di debito da parte della Commissione, che viene sbandierato come un fatto epocale), ma che su altri punti c'è necessità di «continuare a discutere». Tradotto nel vocabolario dei mandarini di Bruxelles, significa che sono su posizioni diametralmente opposte. Avere soldi da spendere è solo condizione necessaria, ma non sufficiente, per spenderli. Se non si è d'accordo sul come, quando e a beneficio di chi spenderli, il progetto è come se non esistesse.Dalle parole di Michel traspaiono sia la distanza delle posizioni e sia l'impossibilità di condurre negoziati di tale complessità in videoconferenza. «Ora si passa a un'altra fase, quella dei negoziati» è la frase indicativa del nulla concluso ieri. E sottolinea anche la fondamentale importanza di incontrarsi di persona. Infatti il Consiglio è una riunione in cui contano anche i momenti informali, gli incontri bilaterali durante le pause dei lavori, i conciliaboli nei corridoi. Tutte cose che sono mancate negli ultimi mesi.La sequenza dei commenti da parte dei principali protagonisti è la plastica rappresentazione dello stallo in corso e dell'inconcludenza della riunione. La Merkel ha parlato di «ponti da costruire» per superare le distanze e ha ribadito la necessità che si giunga rapidamente ad un accordo. Dal fronte dei frugal four si è levata la voce perplessa del premier olandese Mark Rutte, per nulla certo di un accordo entro luglio. Il suo collega austriaco Sebastian Kurz ha parlato di «sostegno mirato e limitato nel tempo». Ad arricchire il gruppo, ieri si è aggiunto il primo ministro finlandese, Sanna Marin, secondo la quale «il pacchetto di incentivi deve essere più piccolo e deve includere più prestiti e meno sovvenzioni». Inoltre, dichiarando che «questo pacchetto non ha lo scopo di salvare i singoli Stati membri o di affrontare le difficoltà passate dei singoli Stati membri», la finlandese pone chiaro il tema della finalità della spesa: solo investimenti e riforme, nessun aiuto per sanare problemi del passato.Non si capisce dove il nostro presidente, Giuseppe Conte, veda il «passo in avanti» e perché confidi ancora in un accordo al prossimo Consiglio a metà luglio, pensando di chiudere un unico pacchetto (ormai è il suo piatto della casa) tra Recovery fund e Qfp 201-2028. La strategia di Conte prevede di bilanciare alcune concessioni sul fronte degli sconti che i frugal four ricevevano nel Qfp, con una loro maggiore flessibilità sul Recovery fund. Ma Conte non può non sapere che, affogando tutto in un unico calderone, si perdono di vista costi e benefici per il nostro Paese rispetto alla situazione di partenza che ci vede contribuenti netti. Forse questa è la sua strategia per non farci capire nulla e poter annunciare comunque come un successo qualsiasi saldo finanziario verrà fuori dai negoziati di luglio. Il commissario Ue Paolo Gentiloni ha attestato la sua linea di difesa sull'aver evitato no insormontabili. Ben modesto risultato per chi aveva parlato in passato di un fondo da 1.500 miliardi di cui si sono ora perse le tracce. Si ipotizza addirittura che dai 750 proposti dall'esecutivo di Bruxelles, alla fine, si scenda a circa 500 miliardi.Come se ciò non bastasse, ci sono tre temi ancora più divisivi che devono ancora emergere nel dibattito e che qui vi anticipiamo. Un Paese come la Spagna, per non citare l'Italia, non ha speso nemmeno la metà dei 40 miliardi dei fondi strutturali del periodo 2014-2020. Com'è pensabile che possa riuscire a spendere in due anni i 77 miliardi aggiuntivi di sussidi previsti dal Recovery fund? La burocrazia Ue costituisce un oggettivo collo di bottiglia per l'afflusso rapido di quei fondi. Inoltre, è aspro il disaccordo sulle fantomatiche tasse con cui si pensa di finanziare il rimborso del debito: imposta sulle grandi società, sulle emissioni, sul digitale, sono state tutte esaminate e bocciate a più riprese.Infine, qualcuno crede davvero che, di fronte ad un Pil in caduta libera, contributi per il 2% del Pil per due anni possano avere un sufficiente impatto macroeconomico, tale da rendere simmetrica la risposta dei diversi Paesi e colmare il divario che si è già creato?