2020-07-24
Fico, Di Maio e Di Battista si alleano per il tiro al bersaglio su Giuseppi
Luigi Di Mario (Simona Granati - Corbis/ Getty Images)
Il presidente della Camera richiama Giuseppe Conte al rispetto dell'Aula. Il ministro degli Esteri ne mette in dubbio la leadership, mentre l'outsider lo sfida sull'Ue. E in Parlamento il premier rischia il no allo stato d'emergenza.«Se non hai le spalle coperte, in Parlamento prendi la polmonite». In tempo di Covid sarebbe meglio evitare le battute di Giulio Andreotti, ma non c'è sintesi migliore per comprendere l'allergia di Giuseppe Conte nei confronti dell'Aula e dell'esercizio alla greca (nel senso dell'agorà ateniese) della democrazia. Pur differenziandosi da Viktor Orbán per la vezzosa pochette sul cuore, il premier rifugge egualmente il voto delle due Camere su qualunque cosa per paura di finire impallinato. Mai tendenza fu più evidente, mai lui ha tentato in modo così palese e goffo di evitarla. Eppure, prima di dedicarsi alle mollezze del pedalò e delle grigliate, dovrà passare da quel luogo oscuro due volte: il 29 luglio per chiedere lo scostamento di bilancio (dove al Senato ha i numeri risicati) e lo stesso giorno per provare a prolungare lo stato di emergenza fino al 31 ottobre. E se è difficile che ci siano terremoti sul primo punto perché nessun partito può permettersi di bloccare 25 miliardi di cassa integrazione e fondi assistenziali agli enti locali in apnea (nell'assistenzialismo senza coperture l'esecutivo è fortissimo), sul secondo si prevede battaglia perché il centrodestra ha un enorme no in canna. Ormai abituato alle grida manzoniane in solitudine (i Dpcm questo sono), il premier fa di tutto per non vedere i rappresentanti eletti degli italiani dal vivo. Gente aliena per lui, che mai si è sottoposto al giudizio delle urne. Ma il capo dello Stato, Sergio Mattarella, gli ha mandato a dire che il giochino deve finire, e allora metterà il naso in Aula.Conte recalcitra per un motivo elementare: non si fida della maggioranza rissosa, perfino diffidente dopo lo show del Recovery fund. Se da una parte il suo populismo calcistico è piaciuto per questioni d'immagine, dall'altra tutti lo attendono al varco per fargli pagare l'autoproclamazione a salvatore della patria. Al Nazareno il sentimento comune è questo: «Si goda pure un paio di giorni di gloria, poi si ricordi come è arrivato lì e chi lo ha blindato; il Pd non può fare il portatore d'acqua». Ma non sono neppure gli alleati incollati alle poltrone a preoccupare il premier, bensì i suoi compagni di viaggio del Movimento 5 stelle. Luigi Di Maio ha visto nel consolidamento contiano un'implicita bocciatura personale, uno stop al ritorno in auge come capo politico del Movimento. E ha cominciato a fare le bizze. Prima sottolineando un dato di fatto: «Se vuole essere leader del Movimento 5 stelle, Conte si deve iscrivere». Poi mettendosi letteralmente di traverso (anche se ufficialmente non prende posizione) rispetto all'ennesima task force che il presidente del Consiglio intende inventarsi per gestire i soldi dell'Europa, composta da ministri piddini e da burocrati pubblici reattivi come Domenico Arcuri. Di Maio fatica a metabolizzare l'effimero successo del premier, al punto da sentirsi in dovere di aggiungere: «Tutto questo è stato possibile perché un anno fa ho virato il nostro voto sulla maggioranza Ursula. Allora fui attaccato, oggi rivendico quella scelta». Insomma, se uno si sente Winston Churchill, l'altro si percepisce Abramo Lincoln. E invece sono statue senza piedistallo, in bilico.Non si tratta di scaramucce, la faccenda della task force extraparlamentare è seria e la picconata più dolorosa per il premier arriva da un rappresentante istituzionale primario, il presidente della Camera, Roberto Fico, che durante la cerimonia del Ventaglio in Parlamento (la tradizionale consegna di un ventaglio alle massime cariche dello Stato da parte dell'associazione stampa parlamentare) ha voluto dire ad alta voce ciò che tutti pensano: «La prima task force degli italiani è il Parlamento». È una frase che giunge a puntellare l'accusa di «Parlamento invisibile» mossa dalla presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, con precisi riferimenti a un sistema monocamerale di fatto. Quella di Fico è un'uscita a gamba tesa nei confronti di Conte, un warning da parte di un colonnello pentastellato che controlla il voto dell'ala sinistra del partito, quella filogovernativa. Il segnale è importante: la continua opera di delegittimazione dell'Aula che l'avvocato degli italiani mette in atto da mesi ha stancato anche i suoi sostenitori. L'ultima stoccata del giorno arriva da un irregolare come Alessandro Di Battista, che facendogli i complimenti in un'intervista al Fatto Quotidiano, in realtà lo bacchetta. «Questo è il primo tempo della partita e stiamo vincendo. Ma vinceremo il secondo se l'Europa abolirà il Patto di stabilità». Come chiedere di prosciugare i canali ad Amsterdam (per restare nei paraggi). Poi anche Dibba attacca il refrain: «Prima di parlare di capo politico, vorrei che Conte si iscrivesse ai 5 stelle». Per inciso, il premier non ci pensa proprio. Lui ha trovato una liaison con l'anima popolare piddina, quella che arriva dalla sacrestia, incarnata da Dario Franceschini e sostenuta da Goffredo Bettini. Lì vorrebbe accasarsi, fra il Vaticano e il West, dentro la melassa di Chiesa «che va da Che Guevara a madre Teresa», come da Vangelo del riferimento culturale più alto, Jovanotti. Così i grillini lo applaudono e lo temono, sembra una loro creatura sfuggita di mano. Frankenstein junior.
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