
Il creativo: «Ne abbiamo prodotti 45 pezzi fino a esaurimento della materia prima. Amo capi con una storia da raccontare»«Dei tessuti con cui venivano fatti i vecchi 4Ganci negli anni Ottanta ci sarà ancora qualcosa in casa?». È la domanda che Alessandro Squarzi, imprenditore, collezionista, maestro di stile, si pone in un video su Instagram (vanta quasi 260.000 follower) mentre fruga tra i rotoli di stoffa che riempiono gli scaffali di Fay. E lo si vede ritagliare e assemblare pezzi vari fino a comporre il nuovo 4Ganci Cut&Sew Fay Archive, una collezione di 45 giacche patchwork, numerate, andate a ruba in due ore dopo essere state messe in vendita online. «Prima di occuparmene come lavoro, Fay era una passione», racconta. «Ero un ragazzo ma con un certo occhio e con sacrificio presi una giacca Fay, la portava Gianni Agnelli, un capo iconico. La indossai per il mio primo volo, Bologna Bari, e una volta arrivato, nonostante un caldo torrido, non la tolsi mai». Da dove nasce l'idea di Cut&Sew?«Da un paio di Levi's del mio archivio. L'ho fatto vedere a Diego (Della Valle, ndr) che sa vedere lontano. È abbastanza strong, mi disse. Ma l'idea gli è piaciuta e ora quella giacca chi ce l'ha ce l'ha. Dai un valore aggiunto alle cose in questo modo, a quello che fai e a chi compra che sa di acquistare un capo di cui esistono 45 esemplari nel mondo. E basta».Ne state facendo altre?«C'è una grande richiesta, abbiamo guardato cosa è rimasto in archivio e ne stiamo producendo altre, sempre patchwork, nei toni delle tinte naturali fino a esaurimento della materia prima. Con un'attenzione all'ecosostenibilità».Lei ha la moda nel Dna?«Ognuno di noi nasce con dei talenti. Il mio babbo faceva il macellaio, la mia mamma la casalinga. Non è mai mancato nulla a casa di quello che era necessario ma il superfluo non era scontato. A 14 anni non avevo le possibilità dei miei amici, parlo degli anni Ottanta, loro si vestivano con capi di Armani, con le Timberland, io non me lo potevo permettere. Andavo alla Montagnola a Bologna, il mercatino dell'usato, a comprare vestiti di seconda mano. Lì ho imparato molto». In che senso?«Le persone che mi vendevano i jeans mi raccontavano le storie dei vari pezzi e ho provato da subito questo amore per i capi che avevano una storia. Da lì è nata la mia passione per il vintage e di conseguenza non ho mai rincorso mode e loghi. Ho sempre cercato quello che era uno stile che poi è diventato il mio. Ma se si va a vedere le foto di Paul Newman e Steve MacQueen degli anni Cinquanta e Sessanta si vede che era il genere che vesto io oggi. Anche i volumi, le felpe corte quadrate, il jeans un pò largo in fondo. Non amo la moda che non ha nulla da dire». Come arriva a lavorare in questo mondo?«È stato un percorso un po' lungo. Prima di tutto lasciai la scuola perché volevo lavorare. Certo erano altri anni. In macelleria manco a parlarne, meccanico niente. Optai per vendere in piazza piatti e bicchieri così avevo il pomeriggio libero per fare ciò che mi piaceva. E andavo dal mio babbo che allevava i cavalli da trotto mentre io montavo il mio cavallo da sella. Andai a vendere nelle farmacie il marchio Mességué di cui divenni direttore commerciale giovanissimo».Fino a qui, niente moda.«Ho iniziato in un negozio di abbigliamento che era anche azienda di produzione di cui divenni agente dopo un grande successo di vendite. Nel 1998/99 nacque Dondup, marchio che ho tenuto a battesimo e da cui è partita la mia carriera nell'ambiente della moda. Davo degli input sulla vestibilità oltre che a vendere, facevo parte del progetto». Dalla passione per la moda è passato a quella per le auto antiche e gli orologi, su cui ha scritto anche un libro. È tutto collegato?«Assolutamente sì. Mi appassiona tutto ciò che ha una storia da raccontare, tutto è nato da lì. Quando ho avuto le possibilità con Auro Montanari, alias John Goldberger, un intenditore pazzesco di orologi con una cultura sul tema straordinaria, ho scritto il libro. È una ricerca continua sull'orologeria, pezzi che altri non guarderebbero nemmeno. La questione non è solo il valore economico dell'oggetto ma quello che rappresenta». E arriva Fortela, una collezione e due negozi, a Milano e a Forte dei Marmi.«Quello è proprio il mio bambino. Guarda agli anni Cinquanta e a un gusto un po' datato. Quando ho iniziato a viaggiare, a girare il mondo, vedevo contenitori e capi che da noi non esistevano. In Giappone e negli Stati Uniti trovare abbigliamento che replica quello vintage è normalissimo. Quindi, perché non posso farlo anch'io, mi sono detto, partendo dal mio archivio». Archivio, parola chiave, base di partenza sia per i tessuti sia per i tagli. Dagli archivi nascono le idee del futuro?«Tutti gli stilisti del mondo vanno negli archivi. Vicino a Lugo si trova l'Archivio di Ricerca Mazzini, punto di riferimento per i professionisti della moda visitato da creativi di tutto il mondo: trovi dagli anni Settanta ai giorni nostri. Mentre io attingo dal mio archivio personale». Com'è composto?«Da circa 6.000 capi, dal militare della seconda guerra mondiale, della Corea e del Vietnam fino ad arrivare al denim, ai vari Levi's cimosati, a giubbotti di jeans, camicie, abiti da lavoro dagli anni Trenta/Quaranta. Ad esempio, con Fortela questo inverno siamo usciti con un cappotto Winston ripreso da un modello dell'archivio e con Manteco abbiamo ricreato il tessuto uguale a quello inglese». Lei guarda a prodotti che hanno una storia. È anche per questo che si è legato a Fay? Come nasce il suo rapporto con i Della Valle e con il gruppo Tod's?«Michele Lupi, Men's collection visionary di Tod's, mi ha chiamato per dirmi che aveva un'idea su Fay e che l'unico che poteva interpretarla come la voleva lui ero io. Pensavo mi prendesse in giro. Ma hai un capo che è il primo workwear messo nell'abbigliamento quotidiano, dopo sono arrivati gli altri. Un capo destinato ai pompieri, ai lavoratori. Mi è piaciuto moltissimo».
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