2025-05-04
Famiglia tradizionale, negarla impedisce di veder riconosciute anche le altre
Come si fa a portare avanti e rendere accettabile un’idea che appare in contrasto con le leggi di natura? Molto semplice. Si sostituisce al concetto di «natura» quello di «cultura», così rendendo, per ciò stesso, mutevole e opinabile ciò che, altrimenti, sarebbe immutabile e indiscutibile. E, a tal fine, non è affatto necessario prendersi la briga di fornire la prova di quanto si afferma. Basta che l’affermazione sia fatta con inossidabile sicumera, tutt’al più corredandola con qualche richiamo ai risultati di studi e ricerche, sempre effettuati nell’ambito della propria cerchia e dati apoditticamente per indiscutibili, dei quali ci si aspetta che nessuno, tra il grande pubblico, cui il messaggio è diretto, abbia il coraggio di metterne in dubbio l’attendibilità. È la stessa, efficacissima, tecnica magistralmente illustrata da Hans Christian Andersen nella famosa novella dei vestiti nuovi dell’imperatore, che se ne andava in giro in mutande, fra gli applausi dei sudditi ai quali -come pure allo stesso imperatore- coloro che avevano fatto finta di confezionare quei vestiti, intascando fraudolentemente il relativo compenso, avevano dato a credere che solo le persone intelligenti e devote al sovrano sarebbero state in grado di vederli. Tra i più recenti esempi del ricorso a questa tecnica può segnalarsi, sulla scorta di quanto ha già fatto Giuliano Guzzo in un articolo comparso sulla rivista Il Timone dello scorso mese di aprile, il recente libro intervista alla nota sociologa Chiara Saraceno, il cui titolo è costituito dalla perentoria affermazione: «La famiglia naturale non esiste». Essa sarebbe, infatti - come si spiega nella fascetta editoriale che, su internet, illustra sommariamente il contenuto del libro, null’altro che «una invenzione culturale», utilizzata, in Italia, al pravo scopo di «ostacolare tutte le forme di unione, di amore e di filiazione che vanno al di là del puro dato biologico». Una linea di pensiero, questa, che è alla base di tutta la visione cosiddetta «progressista» del concetto di «famiglia» ed alla cui popolarità, in Italia, ha validamente contribuito, tra gli altri, la nota scrittrice Michela Murgia, prematuramente scomparsa nel 2023, sostenitrice, con i suoi libri e con la pratica della sua stessa vita, di un modello di famiglia definita «queer», basato su legami plurimi, puramente affettivi e slegati, pertanto, da qualsivoglia vincolo di sangue come pure da finalità procreative. Si tratta, com’è noto, di una visione propria soprattutto di quanti sono politicamente schierati, in senso lato, «a sinistra» e, come tali, generalmente portati a mostrarsi adoratori della Costituzione italiana, in quanto da essi ritenuta (a torto) «antifascista»; atteggiamento che, però, singolarmente, viene meno quando si tratti dell’articolo 29 della Costituzione, in cui si definisce la famiglia come «società naturale fondata sul matrimonio». Questa norma, infatti, ritenendosi politicamente inopportuno attaccarla, viene, di solito, puramente e semplicemente ignorata. Ma, al di là di questa singolarità, quel che più caratterizza la visione in discorso è la evidente contraddizione logica riscontrabile tra quella che è, da una parte, la rivendicazione della più assoluta libertà da condizionamenti e vincoli di natura legale nella costituzione e nella gestione di rapporti che si vogliano qualificare come «familiari» e, dall’altra, la pretesa che tali rapporti godano poi di riconoscimento legale, tanto da dar luogo a veri e propri diritti (ad esempio, di natura successoria o previdenziale) in capo a coloro che ne sono parte; diritti da sempre ricollegati, però, proprio a quel modello di famiglia «naturale» di cui si pretende il superamento. Per meglio rendersi conto di tale contraddizione occorre ricordare che, secondo un indiscusso principio della teoria generale del diritto, il riconoscimento legale e, quindi, la protezione accordata dallo Stato a determinati rapporti presuppongono, come condizione necessaria e sufficiente, che gli stessi, al di là degli astratti valori ideali cui possano apparire espressione, presentino, di norma, una qualche utilità per il conseguimento di finalità che interessino l’intera collettività nazionale. Ed a tale condizione risponde solo il modello di famiglia «naturale» cui si riferisce la Costituzione, siccome caratterizzato, a differenza degli altri, nella sua essenza (e al di là delle possibili peculiarità di sue singole realizzazioni), dalla finalità procreativa e dall’assunzione di doveri di assistenza reciproca tra i coniugi e di mantenimento ed educazione della prole; doveri dal cui adempimento è, appunto, l’intera collettività nazionale a trarre vantaggio. Il che spiega pure la previsione di sanzioni, anche penali, a carico di coloro che a tali doveri si rendano inadempienti. Quando si tratta, quindi, di altri rapporti che, come quelli che si realizzano nella famiglia «queer», non rispondono alla suddetta condizione, può solo pretendersi che lo Stato si astenga dall’ interferirvi, con l’imposizione di prescrizioni, limitazioni o divieti che non siano quelli previsti per la generalità dei cittadini a tutela di diritti individuali o collettivi o a garanzia di elementari esigenze di ordine pubblico, lasciando, per il resto, ad essi piena libertà e garantendoli soltanto, secondo le regole generali, da eventuali, indebite aggressioni, fisiche o morali, ad opera di terzi. Si potrebbe, a questo punto, obiettare che, almeno con riguardo alla filiazione, non vi sarebbe ragione di negare il riconoscimento legale alla genitorialità «omosex», dovendosi anch’essa ritenere rispondente, al pari di quella «naturale», ad un interesse della collettività. Ma l’interesse della collettività è anche quello, coincidente con l’interesse dei figli, che questi nascano e crescano nell’ambiente più propizio al loro sereno ed armonico sviluppo, per tale dovendosi ritenere, fino a prova contraria, quello costituito dalla famiglia cosiddetta «normotipo», in cui vi sono un padre ed una madre. E, in ossequio all’antica e tuttora valida regola per cui onus probandi incumbit ei qui dicit (l’onere della prova grava su chi afferma), tenuti a fornire la «prova contraria» dovrebbero essere i sostenitori della novità costituita dalla genitorialità «omosex», dimostrando la sua equiparabilità, in generale e non in singoli casi, sotto il profilo anzidetto, a quella «naturale». Ma non sembra che, a tutt’oggi, questa dimostrazione sia stata fornita.