2022-06-15
Fallito l’ultimo assalto della Nigeria all’Eni
Nel riquadro, Dan Etete (IStock)
Arriva la sentenza inglese con cui lo Stato africano ha perso la richiesta di 1,7 miliardi di dollari contro Jp Morgan Chase. È la pietra tombale su una vicenda ormai decennale. La Corte ha stabilito che il governo di Abuja non poteva dimostrare di essere stato truffato.Era considerata da attivisti, politici nigeriani e dalle Ong come una delle ultime speranze per provare almeno a riaprire in giro per il mondo i processi sul caso della licenza petrolifera Opl 245 in Nigeria. Invece, per l’ennesima volta, la teoria di chi sosteneva che Eni e Shell avessero pagato tangenti per l’acquisizione di quel blocco petrolifero è uscita sconfitta: un’accusa smentita su tutta la linea. Così ieri la corte di Londra si è pronunciata a favore di Jp Morgan Chase in una causa da 1,7 miliardi di dollari rispetto al suo presunto ruolo nelle trattative di acquisizione del blocco nel 2011, in particolare tra Malabu e le compagnie petrolifere europee. Potrebbe essere la pietra tombale su una vicenda che si protrae ormai da più di 10 anni. La tesi della Nigeria era in sostanza questa. Jp Morgan sarebbe stata «gravemente negligente» nella sua decisione di trasferire i fondi pagati dai giganti petroliferi Shell ed Eni in un conto a garanzia controllato dall’ex ministro del Petrolio nigeriano, Dan Etete. Etete era quello che aveva assegnato a Malabu i diritti sul blocco nel 1998 quando era ancora ministro del petrolio. Roger Masefield, l’avvocato che curava gli interessi di Abuja, ha sostenuto che Jp Morgan fosse consapevole del rischio di frode e che «avrebbe avuto il diritto di rifiutarsi di pagare, almeno fino a quando avesse avuto motivi ragionevoli per ritenere che il suo cliente fosse stato truffato». Per di più, ha sostenuto Masefield, non sarebbe stata svolta neppure un’adeguata due diligence e nello specifico quei soldi sarebbero dovuti transitare su un conto governativo e non su quello di Etete. Ma per i giudici londinesi era tutto lecito. La Corte ha ritenuto che non vi fossero prove sufficienti per dimostrare che il governo nigeriano fosse stato truffato nell’accordo petrolifero del 2011. Certo, il presidente della Corte, Sara Cockerill, ha sostenuto che nel 2013 Jp Morgan era a conoscenza del rischio, ma in nessun modo c’è stata una violazione dei diritti del cliente. In base alle prove non è possibile dimostrarlo. Jp Morgan ha spiegato che la sentenza rispecchia «il suo impegno ad agire con standard professionali elevati ovunque operi». Al contrario la Nigeria si è detta delusa e ha promesso di esaminare attentamente la sentenza prima di valutare prossime azioni legali. Ma ora le armi in mano ad Abuja sono veramente ai minimi termini. In quasi ogni angolo del mondo la tesi della corruzione su Opl 245 è stata sconfessata. Va ricordato che risale al 2017 la decisione della Nigeria di avviare questa azione legale contro il gigante finanziario americano. In questi ultimi anni chi sosteneva che intorno al giacimento Opl 245 erano transitate tangenti ha dovuto ricredersi. A stabilirlo è stata la stessa giustizia britannica nel 2021, ma anche quella statunitense nel 2020 e persino quella italiana sempre nel 2021. Nella primavera del 2020 era la stata la Sec americana (Securities and exchange commission americana) a chiudere definitivamente l’inchiesta su Eni rispetto alle operazioni in Nigeria. L’organo di controllo della Borsa americana aveva annunciato che non avrebbe intrapreso azioni o procedimenti nei confronti del gruppo petrolifero italiano. Per le Ong e gli attivisti nigeriani, la sentenza di ieri di Londra avrebbe potuto almeno riaprire qualche fascicolo negli Stati Uniti. O di sicuro avrebbe almeno potuto smuovere gli olandesi, ancora fermi dal punto di vista dei processi, ad approfondire il ruolo di Shell in tutta la vicenda. Su Londra c’era molta attesa. È andata male. Forse una sentenza differente avrebbe avuto anche un impatto sul prossimo appello del processo Opl 245 in Italia. Come noto, in primo grado, i manager e le compagnie petrolifere sono state assolte dalle accuse di corruzione internazionale perché il fatto non sussiste. Fabio De Pasquale, la pubblica accusa, ha deciso comunque di ricorrere in appello. La vicenda presenta dei lati a tratti grotteschi, anche perché sullo stesso De Pasquale pende una richiesta di rinvio a giudizio della Procura di Brescia per rifiuto di atti d’ufficio: durante il processo avrebbe nascosto prove alle difese di Eni, Shell, come dell’amministratore Claudio Descalzi o dell’ex numero uno Paolo Scaroni. In pratica sia De Pasquale, sia l’altro pm Sergio Spadaro (ora alla Procura europea) erano perfettamente a conoscenza della falsità delle prove portate dall’ex manager di Eni, Vincenzo Armanna, eppure durante il dibattimento avevano deciso di non mettere quegli atti a disposizione delle difese e del Tribunale. Nel frattempo, giace ancora senza risposta nella Procura di Milano un’indagine per falsa testimonianza a carico di Victor Nawfor, un testimone che avrebbe dovuto confermare l’esistenza di tangenti, portato da Armanna e considerato credibile da De Pasquale. Di quell’indagine non si sa nulla, come c’è un silenzio tombale sui 4 cellulari che gli furono sequestrati. Chissà cosa c’era dentro…
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)