
A colloquio con l'ex membro dell'autorità di vigilanza in Olanda Theo Boer: «Abbiamo sbagliato a liberalizzarla: è nata una cultura di morte».Theo Boer è uno studioso di etica olandese. Ha fatto parte della commissione di controllo sull'applicazione della legge sull'eutanasia. Avendo visto da vicino i risultati della legalizzazione della «dolce morte» in Olanda, si è reso conto che liberalizzarla è stato uno sbaglio. Ecco perché, oggi, il professor Boer invita l'Italia a non commettere lo stesso errore dei Paesi Bassi.Professore, come si è arrivati alla legalizzazione dell'eutanasia in Olanda?«Il dibattito da noi è cominciato abbastanza presto, nel 1969».Cosa è successo?«Che negli anni Settanta e Ottanta ci furono vari casi giudiziari, in cui medici che avevano praticato l'eutanasia furono assolti, perché avevano agito in situazioni d'emergenza».E in seguito?«Nel 1985, il ministero della Giustizia e la Reale associazione dei medici olandesi si accordarono affinché i medici non potessero essere perseguiti penalmente se agivano in base a una serie di regole».Quali?«Che la richiesta provenisse da un paziente capace di intendere e volere e soffrisse in maniera insopportabile e inguaribile, che ci fosse un secondo consulto di un altro dottore e che si seguisse un preciso protocollo medico per praticare l'eutanasia».L'approvazione della prima legge a quando risale?«Al 1994. Una legge più ampia è del 2002. Ma i criteri sono rimasti sostanzialmente inalterati rispetto al 1985. E fortunatamente gli abusi sono ancora punibili e l'eutanasia è giustificabile solo in casi eccezionali».Chi si opponeva all'approvazione della legge che cosa obiettava?«La Chiesa cattolica riteneva che l'eutanasia non potesse mai essere giustificabile. Le principali chiese protestanti, invece, ammettevano che l'eutanasia fosse moralmente lecita in alcuni casi, ma che approvare una legge avrebbe condotto alla sua normalizzazione». E avevano ragione?«È esattamente quello che è successo».E lei, da membro della commissione di controllo sulla somministrazione dell'eutanasia, quando ha capito che approvare quella legge era stato un errore?«In realtà ero stato scettico fin dall'inizio, ma da democratico avevo accettato l'approvazione della legge in quanto risultato di un processo democratico, per l'appunto».La legge però era sbagliata.«Credo che il legislatore avrebbe dovuto includere criteri molto più stringenti».Quali, ad esempio?«Lo stadio terminale della malattia. Ma forse...».Forse?«Forse non avremmo mai dovuto legalizzarla, l'eutanasia».Perché?«Perché l'offerta tende a creare la domanda».Una «domanda» di morte?«Diciamo che una legge sull'eutanasia non rappresenta mai la fine delle tante discussioni. Piuttosto, è l'inizio di rivendicazioni e pratiche ancora più radicali».Quindi, si può affermare che la legge sull'eutanasia sia diventata una maniera di legalizzare l'uccisione degli «inutili»?«Sì e no».Ci dica prima perché no.«No, perché credo che praticamente nessuno difenderebbe l'eutanasia come mezzo per liberarsi di una persona».E perché sì invece?«La gente potrebbe richiedere l'eutanasia perché si sente disperata o di troppo. Ed entrambe le cose sono veicolate dalle discussioni mediatiche».Chi difende l'eutanasia, assicura che il criterio del consenso esplicito da parte di un individuo capace di intendere e di volere viene sempre rispettato. Lei, in base alla sua esperienza, può confermarlo?«In genere è così. Anche se alcuni sondaggi anonimi indicano che un piccolo numero di pazienti, forse 100 sui 7.000 che ottengono l'eutanasia ogni anno, la subiscono senza averla richiesta».Veramente?«Sì, ma bisogna dire che questo numero non sta crescendo e che si tratta di pazienti che morirebbero comunque entro poco tempo».Non è un fatto preoccupante?«Quello che io trovo più preoccupante, in realtà, è il numero di sedazioni palliative che vengono praticate».Cioè?«Indurre il coma in un paziente senza fornirgli nutrizione e idratazione».Accade spesso?«Accade a circa 30.000 pazienti ogni anno».Addirittura 30.000 pazienti?«Sì. E in assenza di una procedura per l'accertamento del consenso simile a quella necessaria all'eutanasia attiva, perché ci si aspetta che il paziente muoia per la sua malattia e non a causa della sedazione».E non è così?«Credo che in un numero sconosciuto ma consistente di casi, la sedazione palliativa funga da “eutanasia lenta"».C'è qualche caso in particolare che l'ha colpita?«Ne ho visti a migliaia...». Ce ne racconti qualcuno.«Be', quelli che mi spezzano più il cuore sono i pazienti che chiedono l'eutanasia non solo perché sono malati, ma a causa di solitudine, disperazione, cinismo o pressioni da parte dei familiari».Ci sono persino pressioni da parte dei familiari?«Tutto ciò contribuisce a creare una cultura della disperazione, in cui ci si arrende troppo presto e ci si scorda della maniera di affrontare la sofferenza e la non autosufficienza».Nei Paesi Bassi è ancora proibita l'eutanasia per i minori di 12 anni. A suo parere, prima o poi la legalizzeranno?«No. Per varie ragioni».Quali?«Primo, perché l'eutanasia è il frutto di un compromesso molto fragile. Se cominciamo a cambiare una cosa, arriveranno altri a chiedere di cambiare qualche altro punto, il che ci ripiomberà in infinite discussioni».E poi?«I minori di 12 anni non sono in grado di esprimere adeguatamente il loro consenso».Scusi, quando ne hanno compiuti 12 anni lo diventano?«Dodicenni molto malati per me sono in grado di prendere una simile decisione. Peraltro, finché non hanno 16 anni, è necessario l'assenso dei genitori. In ogni caso non c'è bisogno di abbassare ancora l'età: in 16 anni, c'è stato un solo caso di eutanasia su un dodicenne, perché le cure palliative per i bambini sono di alto livello».E l'eutanasia sui pazienti malati di Alzheimer?«Capita circa 150 volte ogni anno, ma per lo più sono pazienti in grado di intendere e di volere».E quelli che non lo sono?«La possono ottenere in virtù del testamento biologico. Capita due o tre volte l'anno». Questo non la preoccupa?«Diciamo che ho fiducia nel fatto che i medici continueranno a non uccidere pazienti che non si rendono nemmeno più conto di cosa sia l'eutanasia».Ecco, i medici. Il caso di Vincent Lambert in Francia non dimostra che l'eutanasia, anziché essere il trionfo dell'autonomia, si trasforma in una decisione presa da un comitato di esperti?«Temo che sia così. La piena autonomia è un mito. I comitati dovranno decidere, i dottori dovranno verificare, eccetera...».In che misura il materialismo e l'efficientismo economico, per cui anziani e malati sono concepiti come un peso, contribuiscono a rendere l'opinione pubblica favorevole all'eutanasia?«Credo in larga parte. Ma la cosa agisce lentamente e in modo inosservato». Che intende dire?«Alcuni malati o alcune persone più anziane che chiedono l'eutanasia potrebbero non rendersi conto di aver interiorizzato quella concezione della società, secondo cui certe vite sono un fardello anziché una risorsa».Secondo lei sono solo le persone religiose che si oppongono all'eutanasia?«Nessuna società può permettersi di organizzare l'uccisione dei suoi cittadini. E questo non ha niente a che fare con la religione, ma con il compito che ha lo Stato di proteggere la vita».Il suicidio assistito pone gli stessi problemi dell'eutanasia attiva?«Sono entrambi problematici, ma io favorirei la scelta che comporta il minor coinvolgimento possibile dei dottori».Capita di frequente che pazienti depressi abbiano accesso all'eutanasia?«Nei Paesi Bassi, circa 80 pazienti con diagnosi psichiatriche ricevono l'eutanasia ogni anno. E il numero è andato aumentando negli ultimi anni, anche se circa il 90% delle richieste di questo tipo di pazienti viene respinto».L'eutanasia sui depressi non le pare un'altra deriva?«I dottori infatti sono diventati molto più restrittivi in questi casi. Come potrebbero essere sicuri che quel paziente sia incurabile? Un paziente depresso è davvero capace di intendere e di volere? E l'eutanasia su questi pazienti non alimenta la disperazione, contribuendo ad accrescere il problema, anziché a risolverlo?».La Corte costituzionale italiana ha dato tempo al nostro Parlamento fino a ottobre per approvare una legge sul fine vita. In caso contrario, saranno gli stessi giudici ad abolire il reato di aiuto al suicidio. Crede che l'opinione pubblica italiana e i politici debbano temere il «piano inclinato» sul quale la legalizzazione dell'eutanasia rischia di mettere la società?«Sì, credo proprio che dovrebbero. Guardate l'Olanda e chiedetevi: è qui che vogliamo arrivare tra 20 anni?».
Nadia e Aimo Moroni
Prima puntata sulla vita di un gigante della cucina italiana, morto un mese fa a 91 anni. È da mamma Nunzia che apprende l’arte di riconoscere a occhio una gallina di qualità. Poi il lavoro a Milano, all’inizio come ambulante e successivamente come lavapiatti.
È mancato serenamente a 91 anni il mese scorso. Aimo Moroni si era ritirato oramai da un po’ di tempo dalla prima linea dei fornelli del locale da lui fondato nel 1962 con la sua Nadia, ovvero «Il luogo di Aimo e Nadia», ora affidato nelle salde mani della figlia Stefania e dei due bravi eredi Fabio Pisani e Alessandro Negrini, ma l’eredità che ha lasciato e la storia, per certi versi unica, del suo impegno e della passione dedicata a valorizzare la cucina italiana, i suoi prodotti e quel mondo di artigiani che, silenziosi, hanno sempre operato dietro le quinte, merita adeguato onore.
Franz Botrè (nel riquadro) e Francesco Florio
Il direttore di «Arbiter» Franz Botrè: «Il trofeo “Su misura” celebra la maestria artigiana e la bellezza del “fatto bene”. Il tema di quest’anno, Winter elegance, grazie alla partnership di Loro Piana porterà lo stile alle Olimpiadi».
C’è un’Italia che continua a credere nella bellezza del tempo speso bene, nel valore dei gesti sapienti e nella perfezione di un punto cucito a mano. È l’Italia della sartoria, un’eccellenza che Arbiter celebra da sempre come forma d’arte, cultura e stile di vita. In questo spirito nasce il «Su misura - Trofeo Arbiter», il premio ideato da Franz Botrè, direttore della storica rivista, giunto alla quinta edizione, vinta quest’anno da Francesco Florio della Sartoria Florio di Parigi mentre Hanna Bond, dell’atelier Norton & Sons di Londra, si è aggiudicata lo Spillo d’Oro, assegnato dagli studenti del Master in fashion & luxury management dell’università Bocconi. Un appuntamento, quello del trofeo, che riunisce i migliori maestri sarti italiani e internazionali, protagonisti di una competizione che è prima di tutto un omaggio al mestiere, alla passione e alla capacità di trasformare il tessuto in emozione. Il tema scelto per questa edizione, «Winter elegance», richiama l’eleganza invernale e rende tributo ai prossimi Giochi olimpici di Milano-Cortina 2026, unendo sport, stile e territorio in un’unica narrazione di eccellenza. A firmare la partnership, un nome che è sinonimo di qualità assoluta: Loro Piana, simbolo di lusso discreto e artigianalità senza tempo. Con Franz Botrè abbiamo parlato delle origini del premio, del significato profondo della sartoria su misura e di come, in un mondo dominato dalla velocità, l’abito del sarto resti l’emblema di un’eleganza autentica e duratura.
iStock
A rischiare di cadere nella trappola dei «nuovi» vizi anche i bambini di dieci anni.
Dopo quattro anni dalla precedente edizione, che si era tenuta in forma ridotta a causa della pandemia Covid, si è svolta a Roma la VII Conferenza nazionale sulle dipendenze, che ha visto la numerosa partecipazione dei soggetti, pubblici e privati del terzo settore, che operano nel campo non solo delle tossicodipendenze da stupefacenti, ma anche nel campo di quelle che potremmo definire le «nuove dipendenze»: da condotte e comportamenti, legate all’abuso di internet, con giochi online (gaming), gioco d’azzardo patologico (gambling), che richiedono un’attenzione speciale per i comportamenti a rischio dei giovani e giovanissimi (10/13 anni!). In ordine alla tossicodipendenza, il messaggio unanime degli operatori sul campo è stato molto chiaro e forte: non esistono droghe leggere!
Messi in campo dell’esecutivo 165 milioni nella lotta agli stupefacenti. Meloni: «È una sfida prioritaria e un lavoro di squadra». Tra le misure varate, pure la possibilità di destinare l’8 per mille alle attività di prevenzione e recupero dei tossicodipendenti.
Il governo raddoppia sforzi e risorse nella lotta contro le dipendenze. «Dal 2024 al 2025 l’investimento economico è raddoppiato, toccando quota 165 milioni di euro» ha spiegato il premier Giorgia Meloni in occasione dell’apertura dei lavori del VII Conferenza nazionale sulle dipendenze organizzata dal Dipartimento delle politiche contro la droga e le altre dipendenze. Alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a cui Meloni ha rivolto i suoi sentiti ringraziamenti, il premier ha spiegato che quella contro le dipendenze è una sfida che lo Stato italiano considera prioritaria». Lo dimostra il fatto che «in questi tre anni non ci siamo limitati a stanziare più risorse, ci siamo preoccupati di costruire un nuovo metodo di lavoro fondato sul confronto e sulla condivisione delle responsabilità. Lo abbiamo fatto perché siamo consapevoli che il lavoro riesce solo se è di squadra».





