True
2021-12-18
La Costituzione è lo strumento per mettere un freno all’eutanasia
(IStock)
Pietro Dubolino, Presidente di sezione a riposo della Corte di cassazione.
Tutto si può dire a sostegno della ritenuta necessità di una legge che riconosca e disciplini il diritto al suicidio assistito tranne che essa sia determinata (come invece da molti si vuole affermare) dalla esistenza di un preteso «vuoto normativo»: quello, cioè, creato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 242/2019, dichiarativa della parziale incostituzionalità dell’art. 580 del codice penale, nella parte in cui prevedeva come reato l’aiuto al suicidio, senza escludere il caso in cui l’aspirante suicida fosse «persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli». Risulta infatti chiaramente dalla motivazione di detta sentenza che la Corte costituzionale ha considerato superabili le ragioni per le quali, in precedenza, con l’ordinanza n. 207/2018, aveva ritenuto di non poter procedere alla declaratoria di incostituzionalità in assenza di un auspicato (ma poi mancato) intervento del legislatore che stabilisse, in particolare, da chi e come dovessero essere verificate le condizioni per la non punibilità dell’aiuto al suicidio e le modalità con le quali l’aiuto sarebbe stato realizzato; esigenza, questa, alla quale la Corte ha invece ritenuto, alla fine, di poter provvedere direttamente stabilendo essa stessa che quelle condizioni e modalità siano «verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente». E poiché la questione sul tappeto era solo ed esclusivamente quella concernente la punibilità dell’aiuto al suicidio ne deriva che, risolta comunque la stessa nel modo che si è detto, non residuava alcun «vuoto normativo» che il legislatore potesse ritenersi tenuto a riempire.Le iniziative che al riguardo sono state intraprese e che sono sfociate nella formulazione della proposta di legge attualmente all’esame del Parlamento sono quindi da considerare come il frutto di scelte esclusivamente politiche. Vi è allora da chiedersi, a questo punto, che cosa vi sia all’origine di dette iniziative. E la risposta è molto semplice. Esse si basano, fondamentalmente, sul convincimento che ogni essere umano abbia non solo il diritto di disporre sempre e comunque della propria vita, senza incontrare ostacoli nell’ordinamento giuridico, ma anche quello di ottenere da quest’ultimo, quanto meno in presenza di determinate condizioni, l’aiuto in mancanza del quale l’atto dispositivo non potrebbe essere realizzato. Al momento, secondo la proposta di legge di cui si è detto, le condizioni richieste dovrebbero essere, congiuntamente, quelle che l’aspirante suicida:
1 sia affetto da patologia certificata come «irreversibile e con prognosi infausta» ovvero sia portatore di una «condizione clinica irreversibile» e da tali condizioni gli derivino «sofferenze fisiche e psicologiche» da lui percepite come «assolutamente intollerabili».
2 Sia «tenuto in vita da trattamenti sanitari di sostegno vitale la cui interruzione provocherebbe il decesso».
Al che si è però obiettato, soprattutto da parte di Marco Cappato e altri esponenti dell’associazione Luca Coscioni (la stessa che - si noti - ha promosso il referendum per la depenalizzazione dell’omicidio del consenziente), che in questo modo sarebbero ingiustamente discriminati i malati non tenuti in vita da trattamenti di sostegno vitale tra cui, in particolare, i malati terminali di cancro, come pure quelli che, non avendo l’autonomia fisica, non possano soddisfare la condizione espressamente prevista dall’art. 1 della proposta in questione, e cioè quella che, trattandosi di suicidio e non, invece, di eutanasia, debba comunque essere l’interessato a porre fine, «volontariamente e autonomamente», alla propria vita.
Si tratta di obiezioni che sarebbe assai pericoloso sottovalutare, dal momento che hanno una loro logica, in quanto basate sullo stesso presupposto sul quale, come si è visto, si fonda la proposta di legge in questione; quello, cioè, che debba comunque essere introdotto nell’ordinamento giuridico il diritto al suicidio assistito, potendo variare soltanto il criterio di determinazione dei limiti entro i quali esso debba essere riconosciuto. E trattandosi del riconoscimento di un diritto (cosa ben diversa dalla individuazione dei casi di non punibilità per una condotta altrimenti costituente reato), è molto facile che ogni limitazione corra il rischio di essere considerata, non senza una qualche ragione, come ingiustamente discriminatoria nei confronti dei soggetti che ne subiscono le conseguenze. Di qui la possibilità, tutt’altro che remota, che, già durante l’iter parlamentare attualmente in corso ovvero per successivi interventi del legislatore o della Corte costituzionale, si assista a progressive attenuazioni delle suddette limitazioni, fino ad una loro pressoché totale eliminazione; ciò in linea, del resto, con quanto già avvenuto, com’è noto, in altri Paesi tra i quali, in particolare, l’Olanda, nella quale il diritto alla «dolce morte» è stato via via ampliato fino a renderne possibile l’esercizio da parte (o «in favore») di soggetti di ogni età che siano gravati da sofferenze fisiche o psichiche che siano riconosciute (sulla base di criteri non di rado assai discutibili) come «insopportabili».
Questa deriva, spesso descritta con la suggestiva immagine dello «slippery slope» (pendio scivoloso), potrebbe forse trovare un qualche ostacolo, nel nostro Paese (se non altro quando gli aspiranti suicidi siano persone non completamente incapaci di una qualsiasi attività), in una norma semidimenticata della Costituzione, quale è quella costituita dall’art. 4, secondo comma, per il quale: «Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società»; dovere, questo, al quale, evidentemente, chi volesse compiere una scelta suicidaria, mostrerebbe per ciò stesso di volersi sottrarre. Ma si tratta di un ostacolo sul quale chi fosse intenzionato ad opporsi alla suddetta deriva farebbe bene a fare troppo affidamento. Se è vero, infatti, che quella italiana passa per «la Costituzione più bella del mondo», è altrettanto vero che bellezza non equivale a forza. Ed il comune buon senso suggerisce che quando si abbia ragione di temere le azioni di soggetti malintenzionati, più che contare sulla protezione di qualcuno (bello o brutto che sia, ma non dotato della forza necessaria), si deve assolutamente evitare di accompagnarsi con loro o di incamminarsi sulle strade da essi frequentate. Quelli che, tra gli occasionali frequentatori dei banchi parlamentari posti tra il centro e la destra del presidente, abbiano orecchie per intendere, intendano.
Biden rilancia sull'aborto: pillole per posta
Si arricchisce di un nuovo capitolo la vicenda della legge texana che vieta l’interruzione di gravidanza dopo le sei settimane di gestazione. Giovedì, la Corte suprema degli Stati Uniti ha respinto la richiesta, avanzata dal fronte ostile alla norma, di fare ricorso presso il giudice distrettuale Robert Pitman: un togato che - lo scorso ottobre - aveva emesso l’ordine di bloccare temporaneamente la legge in questione, venendo così incontro a un ricorso promosso dall’amministrazione Biden. La Corte suprema ha invece stabilito che i ricorrenti dovranno rivolgersi alla corte d’appello del quinto circuito: la corte, cioè, che aveva bocciato la sentenza di Pitman. I supremi giudici hanno quindi di fatto dato ragione ai funzionari del Texas, secondo cui la richiesta dei ricorrenti costituiva un’anomalia rispetto alla procedura ordinaria.
Ricordiamo che, la scorsa settimana, i supremi giudici avevano concesso al fronte abortista di continuare il suo ricorso contro la legge, per quanto a determinate condizioni: esso potrà, cioè, intentare causa contro i funzionari statali addetti alle licenze mediche, ma non - come invece desiderato - contro i giudici, i cancellieri dei tribunali e contro lo stesso procuratore generale del Texas, Ken Paxton. In tutto questo, la Corte suprema ha anche lasciato per ora in vigore la legge texana. Da sottolineare è la particolarità tecnica di tale legge: essa infatti attribuisce il potere di denuncia per sue eventuali violazioni direttamente ai privati cittadini, anziché ai funzionari dello Stato. Si tratta di un escamotage, per cercare di aggirare due pronunciamenti della stessa Corte Suprema: Roe v Wade (la sentenza del 1973 che ha reso l’aborto una pratica costituzionalmente garantita) e Planned Parenthood v Casey (sentenza del 1992 che ha stabilito la liceità dell’interruzione di gravidanza entro le 24 settimane di gestazione). Finora le leggi statali restrittive nei confronti dell’aborto incaricavano i funzionari pubblici della loro applicazione e sono state bocciate perché considerate in contraddizione con le due suddette sentenze. È quindi chiaro che il Texas, puntando sui privati cittadini, sta cercando un modo per scongiurare una dichiarazione di incostituzionalità.
Ma c’è un altro caso che la Corte suprema dovrà valutare. Lo Stato dell’Arizona ha infatti recentemente chiesto al massimo organo giudiziario statunitense di ripristinare una legge che vieta di praticare l’interruzione di gravidanza, se il suo unico motivo è la presenza di un feto con malformazioni. Tale norma era stata approvata ad aprile ma, a seguito del ricorso di due cliniche abortiste, si è ritrovata bloccata da una corte distrettuale dell’Arizona: un’ordinanza, questa, che è stata poi confermata da un tribunale d’appello. «Il diritto di praticare un aborto basato esclusivamente sui risultati dei test genetici è nuovo, senza alcuna base nel testo della Costituzione o nella storia e nelle tradizioni della nazione, e quindi non meritevole di un esame giudiziario approfondito», ha scritto, nella sua richiesta, Mark Brnovich, procuratore generale dell’Arizona. Non dimentichiamo infine che, a giugno, i supremi giudici dovranno pronunciarsi sulla legge del Mississippi che proibisce l’interruzione di gravidanza dopo le 15 settimane di gestazione.
In tutto questo, giovedì l’amministrazione Biden - per mezzo della Fda - ha abolito alcune restrizioni sull’ottenimento delle pillole abortive, consentendone l’invio per posta: a maggio, il presidente americano aveva d’altronde promesso un allentamento delle limitazioni sul mifepristone (steroide sintetico usato per l’interruzione di gravidanza). Secondo Nbc News, «la nuova regola potrebbe aiutare alcune donne a eludere le restrizioni sull’aborto in Stati come il Texas, dove i pazienti devono ritirare il farmaco di persona e non possono acquistarlo tramite appuntamenti di telemedicina». Svariate testate americane lasciano intendere che la mossa dell’amministrazione Biden sia da intendersi come una sorta di risposta indiretta alle varie leggi statali restrittive nei confronti dell’aborto: leggi che sono promosse da Stati a guida repubblicana.
Lo scontro in materia di interruzione di gravidanza si muove quindi su più piani. Senza ovviamente dimenticare quello religioso: l’altro ieri, la conferenza episcopale americana ha criticato la svolta della Fda. «La Fda dovrebbe agire per proteggere la vita e la salute di madri e bambini, piuttosto che soccombere semplicemente alla pressione dell’industria dell’aborto per allentare gli standard di sicurezza», ha dichiarato l’arcivescovo William E. Lori, presidente della commissione pro life della conferenza. Biden, secondo presidente cattolico della storia americana, rischia quindi di peggiorare i suoi già tumultuosi rapporti con l’episcopato d’oltreatlantico.
Continua a leggereRiduci
La legge sul fine vita, per la piega che sta prendendo il dibattito, potrebbe essere oggetto di revisioni in serie con l’obiettivo di scardinare una a una le restrizioni e arrivare a un quadro normativo in stile olandese.Mentre la Corte suprema boccia la richiesta di ricorso del fronte abortista contro i divieti in Texas, l’amministrazione degli Usa allenta alcuni parametri per la consegna a domicilio del farmaco. Una mossa che facilita l’aggiramento delle prescrizioni pro life.Lo speciale contiene due articoli.Pietro Dubolino, Presidente di sezione a riposo della Corte di cassazione. Tutto si può dire a sostegno della ritenuta necessità di una legge che riconosca e disciplini il diritto al suicidio assistito tranne che essa sia determinata (come invece da molti si vuole affermare) dalla esistenza di un preteso «vuoto normativo»: quello, cioè, creato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 242/2019, dichiarativa della parziale incostituzionalità dell’art. 580 del codice penale, nella parte in cui prevedeva come reato l’aiuto al suicidio, senza escludere il caso in cui l’aspirante suicida fosse «persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli». Risulta infatti chiaramente dalla motivazione di detta sentenza che la Corte costituzionale ha considerato superabili le ragioni per le quali, in precedenza, con l’ordinanza n. 207/2018, aveva ritenuto di non poter procedere alla declaratoria di incostituzionalità in assenza di un auspicato (ma poi mancato) intervento del legislatore che stabilisse, in particolare, da chi e come dovessero essere verificate le condizioni per la non punibilità dell’aiuto al suicidio e le modalità con le quali l’aiuto sarebbe stato realizzato; esigenza, questa, alla quale la Corte ha invece ritenuto, alla fine, di poter provvedere direttamente stabilendo essa stessa che quelle condizioni e modalità siano «verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente». E poiché la questione sul tappeto era solo ed esclusivamente quella concernente la punibilità dell’aiuto al suicidio ne deriva che, risolta comunque la stessa nel modo che si è detto, non residuava alcun «vuoto normativo» che il legislatore potesse ritenersi tenuto a riempire.Le iniziative che al riguardo sono state intraprese e che sono sfociate nella formulazione della proposta di legge attualmente all’esame del Parlamento sono quindi da considerare come il frutto di scelte esclusivamente politiche. Vi è allora da chiedersi, a questo punto, che cosa vi sia all’origine di dette iniziative. E la risposta è molto semplice. Esse si basano, fondamentalmente, sul convincimento che ogni essere umano abbia non solo il diritto di disporre sempre e comunque della propria vita, senza incontrare ostacoli nell’ordinamento giuridico, ma anche quello di ottenere da quest’ultimo, quanto meno in presenza di determinate condizioni, l’aiuto in mancanza del quale l’atto dispositivo non potrebbe essere realizzato. Al momento, secondo la proposta di legge di cui si è detto, le condizioni richieste dovrebbero essere, congiuntamente, quelle che l’aspirante suicida: 1 sia affetto da patologia certificata come «irreversibile e con prognosi infausta» ovvero sia portatore di una «condizione clinica irreversibile» e da tali condizioni gli derivino «sofferenze fisiche e psicologiche» da lui percepite come «assolutamente intollerabili». 2 Sia «tenuto in vita da trattamenti sanitari di sostegno vitale la cui interruzione provocherebbe il decesso». Al che si è però obiettato, soprattutto da parte di Marco Cappato e altri esponenti dell’associazione Luca Coscioni (la stessa che - si noti - ha promosso il referendum per la depenalizzazione dell’omicidio del consenziente), che in questo modo sarebbero ingiustamente discriminati i malati non tenuti in vita da trattamenti di sostegno vitale tra cui, in particolare, i malati terminali di cancro, come pure quelli che, non avendo l’autonomia fisica, non possano soddisfare la condizione espressamente prevista dall’art. 1 della proposta in questione, e cioè quella che, trattandosi di suicidio e non, invece, di eutanasia, debba comunque essere l’interessato a porre fine, «volontariamente e autonomamente», alla propria vita. Si tratta di obiezioni che sarebbe assai pericoloso sottovalutare, dal momento che hanno una loro logica, in quanto basate sullo stesso presupposto sul quale, come si è visto, si fonda la proposta di legge in questione; quello, cioè, che debba comunque essere introdotto nell’ordinamento giuridico il diritto al suicidio assistito, potendo variare soltanto il criterio di determinazione dei limiti entro i quali esso debba essere riconosciuto. E trattandosi del riconoscimento di un diritto (cosa ben diversa dalla individuazione dei casi di non punibilità per una condotta altrimenti costituente reato), è molto facile che ogni limitazione corra il rischio di essere considerata, non senza una qualche ragione, come ingiustamente discriminatoria nei confronti dei soggetti che ne subiscono le conseguenze. Di qui la possibilità, tutt’altro che remota, che, già durante l’iter parlamentare attualmente in corso ovvero per successivi interventi del legislatore o della Corte costituzionale, si assista a progressive attenuazioni delle suddette limitazioni, fino ad una loro pressoché totale eliminazione; ciò in linea, del resto, con quanto già avvenuto, com’è noto, in altri Paesi tra i quali, in particolare, l’Olanda, nella quale il diritto alla «dolce morte» è stato via via ampliato fino a renderne possibile l’esercizio da parte (o «in favore») di soggetti di ogni età che siano gravati da sofferenze fisiche o psichiche che siano riconosciute (sulla base di criteri non di rado assai discutibili) come «insopportabili». Questa deriva, spesso descritta con la suggestiva immagine dello «slippery slope» (pendio scivoloso), potrebbe forse trovare un qualche ostacolo, nel nostro Paese (se non altro quando gli aspiranti suicidi siano persone non completamente incapaci di una qualsiasi attività), in una norma semidimenticata della Costituzione, quale è quella costituita dall’art. 4, secondo comma, per il quale: «Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società»; dovere, questo, al quale, evidentemente, chi volesse compiere una scelta suicidaria, mostrerebbe per ciò stesso di volersi sottrarre. Ma si tratta di un ostacolo sul quale chi fosse intenzionato ad opporsi alla suddetta deriva farebbe bene a fare troppo affidamento. Se è vero, infatti, che quella italiana passa per «la Costituzione più bella del mondo», è altrettanto vero che bellezza non equivale a forza. Ed il comune buon senso suggerisce che quando si abbia ragione di temere le azioni di soggetti malintenzionati, più che contare sulla protezione di qualcuno (bello o brutto che sia, ma non dotato della forza necessaria), si deve assolutamente evitare di accompagnarsi con loro o di incamminarsi sulle strade da essi frequentate. Quelli che, tra gli occasionali frequentatori dei banchi parlamentari posti tra il centro e la destra del presidente, abbiano orecchie per intendere, intendano.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/eutanasia-costituzione-aborto-2656065805.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="biden-rilancia-sull-aborto-pillole-per-posta" data-post-id="2656065805" data-published-at="1639833932" data-use-pagination="False"> Biden rilancia sull'aborto: pillole per posta Si arricchisce di un nuovo capitolo la vicenda della legge texana che vieta l’interruzione di gravidanza dopo le sei settimane di gestazione. Giovedì, la Corte suprema degli Stati Uniti ha respinto la richiesta, avanzata dal fronte ostile alla norma, di fare ricorso presso il giudice distrettuale Robert Pitman: un togato che - lo scorso ottobre - aveva emesso l’ordine di bloccare temporaneamente la legge in questione, venendo così incontro a un ricorso promosso dall’amministrazione Biden. La Corte suprema ha invece stabilito che i ricorrenti dovranno rivolgersi alla corte d’appello del quinto circuito: la corte, cioè, che aveva bocciato la sentenza di Pitman. I supremi giudici hanno quindi di fatto dato ragione ai funzionari del Texas, secondo cui la richiesta dei ricorrenti costituiva un’anomalia rispetto alla procedura ordinaria. Ricordiamo che, la scorsa settimana, i supremi giudici avevano concesso al fronte abortista di continuare il suo ricorso contro la legge, per quanto a determinate condizioni: esso potrà, cioè, intentare causa contro i funzionari statali addetti alle licenze mediche, ma non - come invece desiderato - contro i giudici, i cancellieri dei tribunali e contro lo stesso procuratore generale del Texas, Ken Paxton. In tutto questo, la Corte suprema ha anche lasciato per ora in vigore la legge texana. Da sottolineare è la particolarità tecnica di tale legge: essa infatti attribuisce il potere di denuncia per sue eventuali violazioni direttamente ai privati cittadini, anziché ai funzionari dello Stato. Si tratta di un escamotage, per cercare di aggirare due pronunciamenti della stessa Corte Suprema: Roe v Wade (la sentenza del 1973 che ha reso l’aborto una pratica costituzionalmente garantita) e Planned Parenthood v Casey (sentenza del 1992 che ha stabilito la liceità dell’interruzione di gravidanza entro le 24 settimane di gestazione). Finora le leggi statali restrittive nei confronti dell’aborto incaricavano i funzionari pubblici della loro applicazione e sono state bocciate perché considerate in contraddizione con le due suddette sentenze. È quindi chiaro che il Texas, puntando sui privati cittadini, sta cercando un modo per scongiurare una dichiarazione di incostituzionalità. Ma c’è un altro caso che la Corte suprema dovrà valutare. Lo Stato dell’Arizona ha infatti recentemente chiesto al massimo organo giudiziario statunitense di ripristinare una legge che vieta di praticare l’interruzione di gravidanza, se il suo unico motivo è la presenza di un feto con malformazioni. Tale norma era stata approvata ad aprile ma, a seguito del ricorso di due cliniche abortiste, si è ritrovata bloccata da una corte distrettuale dell’Arizona: un’ordinanza, questa, che è stata poi confermata da un tribunale d’appello. «Il diritto di praticare un aborto basato esclusivamente sui risultati dei test genetici è nuovo, senza alcuna base nel testo della Costituzione o nella storia e nelle tradizioni della nazione, e quindi non meritevole di un esame giudiziario approfondito», ha scritto, nella sua richiesta, Mark Brnovich, procuratore generale dell’Arizona. Non dimentichiamo infine che, a giugno, i supremi giudici dovranno pronunciarsi sulla legge del Mississippi che proibisce l’interruzione di gravidanza dopo le 15 settimane di gestazione. In tutto questo, giovedì l’amministrazione Biden - per mezzo della Fda - ha abolito alcune restrizioni sull’ottenimento delle pillole abortive, consentendone l’invio per posta: a maggio, il presidente americano aveva d’altronde promesso un allentamento delle limitazioni sul mifepristone (steroide sintetico usato per l’interruzione di gravidanza). Secondo Nbc News, «la nuova regola potrebbe aiutare alcune donne a eludere le restrizioni sull’aborto in Stati come il Texas, dove i pazienti devono ritirare il farmaco di persona e non possono acquistarlo tramite appuntamenti di telemedicina». Svariate testate americane lasciano intendere che la mossa dell’amministrazione Biden sia da intendersi come una sorta di risposta indiretta alle varie leggi statali restrittive nei confronti dell’aborto: leggi che sono promosse da Stati a guida repubblicana. Lo scontro in materia di interruzione di gravidanza si muove quindi su più piani. Senza ovviamente dimenticare quello religioso: l’altro ieri, la conferenza episcopale americana ha criticato la svolta della Fda. «La Fda dovrebbe agire per proteggere la vita e la salute di madri e bambini, piuttosto che soccombere semplicemente alla pressione dell’industria dell’aborto per allentare gli standard di sicurezza», ha dichiarato l’arcivescovo William E. Lori, presidente della commissione pro life della conferenza. Biden, secondo presidente cattolico della storia americana, rischia quindi di peggiorare i suoi già tumultuosi rapporti con l’episcopato d’oltreatlantico.
Getty Images
Nuove accuse tra Cambogia e Thailandia lungo il confine conteso. Phnom Penh denuncia bombardamenti con caccia F-16, Bangkok parla di attacchi notturni cambogiani. Oltre mezzo milione di sfollati mentre proseguono i negoziati.
La crisi tra Cambogia e Thailandia torna ad aggravarsi lungo il confine conteso. Phnom Penh accusa Bangkok di aver intensificato i bombardamenti con caccia F-16, mentre le autorità thailandesi parlano di attacchi cambogiani durante la notte. Le accuse incrociate arrivano mentre sono in corso negoziati per un cessate il fuoco e il numero degli sfollati supera il mezzo milione.
Secondo il ministero della Difesa cambogiano, l’aeronautica thailandese avrebbe impiegato caccia F-16, sganciando almeno quaranta bombe nell’area del villaggio di Chok Chey. L’episodio viene descritto come un’ulteriore escalation militare in una zona già colpita da ripetuti raid. La versione di Bangkok è opposta. I media thailandesi riferiscono che, durante la notte, le forze cambogiane avrebbero condotto attacchi massicci lungo il confine nella provincia sud-orientale di Sa Kaeo, provocando danni a diverse abitazioni civili.
Nel frattempo, le due parti hanno avviato un nuovo ciclo di colloqui, iniziato mercoledì e destinato a durare quattro giorni, con l’obiettivo dichiarato di porre fine ai combattimenti. L’incontro si svolge in territorio thailandese, presso un valico di frontiera nella provincia di Chanthaburi, secondo quanto riferito da funzionari di Phnom Penh. Sul piano diplomatico si registra anche un coinvolgimento diretto degli Stati Uniti. Il primo ministro cambogiano Hun Manet ha reso noto di aver avuto un colloquio telefonico con il segretario di Stato americano Marco Rubio, durante il quale si è discusso di «come garantire un cessate il fuoco lungo il confine tra Cambogia e Thailandia».
Alla base delle tensioni c’è una disputa storica sulla delimitazione di circa 800 chilometri di confine, che affonda le radici nell’epoca coloniale. Il confronto armato si è riacceso con forza nel corso dell’anno. A luglio, cinque giorni di scontri avevano provocato circa 40 morti e costretto 300.000 persone ad abbandonare le proprie abitazioni, prima di una tregua che successivamente è fallita.
L’impatto umanitario resta pesante. Secondo le autorità cambogiane, oltre mezzo milione di persone è stato costretto a lasciare case e scuole nelle ultime due settimane di combattimenti. In una nota, il ministero dell’Interno di Phnom Penh ha parlato di 518.611 sfollati, denunciando che «oltre mezzo milione di cambogiani, tra cui donne e bambini, stanno soffrendo gravi difficoltà a causa dello sfollamento forzato dalle loro case e scuole per sfuggire al fuoco di artiglieria, ai razzi e agli attacchi aerei dei caccia F-16 thailandesi». In precedenza, Bangkok aveva indicato in circa 400.000 il numero degli sfollati sul proprio territorio. Il portavoce del ministero della Difesa thailandese, Surasant Kongsiri, ha affermato che il numero di persone accolte nei rifugi è in diminuzione, pur restando superiore alle 200.000 unità. Kongsiri ha inoltre invitato gli abitanti dei villaggi a rientrare con cautela, avvertendo che «potrebbero esserci ancora mine o bombe pericolose». Dal punto di vista militare, Phnom Penh ha sottolineato come le forze thailandesi abbiano continuato le operazioni dall’alba del 21 dicembre, segnalando combattimenti anche nei pressi del tempio khmer di Preah Vihear, risalente a 900 anni fa. La Cambogia ha inoltre ricordato il divario di risorse tra i due eserciti, a vantaggio di Bangkok. Secondo i dati ufficiali, il bilancio complessivo degli scontri è salito ad almeno 41 morti, di cui 22 thailandesi e 19 cambogiani. Le ostilità più recenti sono riprese il 12 dicembre, mentre una precedente ondata di violenze, a luglio, aveva causato 43 vittime in pochi giorni.
La crisi è ora all’attenzione dell’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico. I ministri degli Esteri dell’Asean, compresi quelli di Thailandia e Cambogia, si riuniscono il 22 dicembre a Kuala Lumpur per discutere del conflitto. Entrambi i governi hanno espresso l’auspicio che l’incontro contribuisca a ridurre le tensioni. La portavoce del ministero degli Esteri thailandese, Maratee Nalita Andamo, ha definito il vertice «un’importante opportunità per entrambe le parti». Bangkok ha tuttavia ribadito alcune condizioni preliminari, chiedendo a Phnom Penh di annunciare per prima un cessate il fuoco e di cooperare nelle operazioni di sminamento lungo il confine. In un comunicato, il governo thailandese ha precisato che un accordo potrà essere raggiunto «solo se basato principalmente su una valutazione della situazione sul campo da parte dell’esercito thailandese».
Continua a leggereRiduci
L’obiettivo è evitare la delocalizzazione della produzione e contrastare l’effetto dei costi energetici elevati sulla competitività europea. La misura riguarda principalmente i settori dell’acciaio, della chimica e dell’automotive, fortemente influenzati dalle bollette elettriche, che in Germania risultano quasi tre volte superiori rispetto agli Stati Uniti. Le autorità tedesche hanno già avviato le trattative con la Commissione Europea per ottenere la compatibilità con le norme sugli aiuti di Stato. Per la Slovacchia, strettamente integrata nelle filiere tedesche, la mossa può rappresentare una sfida competitiva: se le imprese tedesche recuperano tranquillità sui costi dell’energia, le aziende slovacche del comparto manifatturiero esportatrici potrebbero trovarsi a dover far fronte a maggiori pressioni sui costi. Lo stesso potrebbe accadere in Italia.
Prima della Germania il Regno Unito, dove un “price cap” è stato stabilito nel 2019 dall’allora governo May. Dal gennaio 2019 l’Ofgem (l’equivalente della nostra Arera) applica un tetto alla spesa massima dei consumatori di trimestre in trimestre. Ma attenzione: non a tutti i clienti, bensì solo ai sottoscrittori delle “standard variable tariffs”, cioè delle tariffe a prezzo variabile molto basilari, dedicate ai clienti meno abituati a cercare tariffe sul mercato libero, e per questo da anni con lo stesso operatore che a volte approfitta di questo immobilismo applicando prezzi piuttosto elevati.
Continua a leggereRiduci
Donald Trump con il Segretario alla Guerra degli Stati Uniti Pete Hegseth (Getty Images)
«Stasera, su mia indicazione in qualità di Comandante in Capo, gli Stati Uniti hanno sferrato un attacco potente e letale contro la feccia terroristica dell’Isis nel nord-ovest della Nigeria, che ha preso di mira e ucciso brutalmente, principalmente cristiani innocenti, a livelli che non si vedevano da molti anni, persino da secoli», ha scritto il presidente.
L’intervento militare arriva dopo settimane di tensioni tra Washington e Abuja. Trump aveva più volte accusato il governo nigeriano di non riuscire a fermare le violenze contro le comunità cristiane, annunciando già il mese scorso di aver ordinato al Pentagono di predisporre una possibile azione armata. In parallelo, il Dipartimento di Stato aveva comunicato restrizioni sui visti per cittadini nigeriani e familiari coinvolti in uccisioni di massa e persecuzioni religiose. Gli Stati Uniti hanno inoltre inserito la Nigeria tra i «Paesi di particolare preoccupazione» ai sensi dell’International Religious Freedom Act.
Nel suo messaggio, Trump ha rivendicato la continuità tra gli avvertimenti lanciati in precedenza e l’azione militare appena condotta: «Avevo già avvertito questi terroristi che se non avessero smesso di massacrare i cristiani, avrebbero pagato un prezzo altissimo, e stasera è successo». Il presidente ha quindi elogiato l’operato delle forze armate: «Il Dipartimento della Guerra ha eseguito numerosi attacchi perfetti, come solo gli Stati Uniti sono in grado di fare. Sotto la mia guida, il nostro Paese non permetterà al terrorismo islamico radicale di prosperare. Che Dio benedica le nostre forze armate e Buon Natale a tutti, compresi i terroristi morti, che saranno molti di più se continueranno a massacrare i cristiani».
La conferma dell’operazione è arrivata anche dal Comando militare statunitense per l’Africa (Africom), che ha spiegato come l’attacco sia stato condotto su richiesta delle autorità nigeriane e abbia portato all’uccisione di diversi terroristi dell’Isis. «Gli attacchi letali contro l’Isis dimostrano la forza del nostro esercito e il nostro impegno nell’eliminare le minacce terroristiche contro gli americani, in patria e all’estero», ha comunicato Africom. Sulla stessa linea il capo del Pentagono, Pete Hegseth, che ha ricordato come la posizione del presidente fosse stata chiarita già nelle settimane precedenti: «Il presidente era stato chiaro il mese scorso: l’uccisione di cristiani innocenti in Nigeria (e altrove) deve finire. Il Dipartimento della Guerra è sempre pronto, come ha scoperto l’Isis stasera, a Natale. Seguiranno altre notizie», aggiungendo di essere «grato per il sostegno e la cooperazione del governo nigeriano».
Da Abuja è arrivata una conferma ufficiale dei raid. In una nota, il ministero degli Affari Esteri della Repubblica Federale della Nigeria ha dichiarato che «le autorità nigeriane continuano a collaborare in modo strutturato con i partner internazionali, compresi gli Stati Uniti, nella lotta contro la minaccia persistente del terrorismo e dell’estremismo violento». La cooperazione, prosegue il comunicato, ha portato «a attacchi mirati contro obiettivi terroristici in Nigeria mediante raid aerei nel nord-ovest del Paese». Il ministero ha inoltre precisato che, «in linea con la prassi internazionale consolidata e gli accordi bilaterali, tale cooperazione comprende lo scambio di informazioni, il coordinamento strategico e altre forme di sostegno conformi al diritto internazionale, il reciproco rispetto della sovranità e gli impegni condivisi in materia di sicurezza regionale e globale».
Continua a leggereRiduci