Toscana, Umbria e Lazio: sono tre le regioni in cui l’affascinante popolo etrusco proliferò, lasciandoci testimonianze di inestimabile valore. Ecco un viaggio, conciso e ricco allo stesso tempo, attraverso 4 delle 12 città etrusche: Chiusi, Veio, Tarquinia e Vulci.
Toscana, Umbria e Lazio: sono tre le regioni in cui l’affascinante popolo etrusco proliferò, lasciandoci testimonianze di inestimabile valore. Ecco un viaggio, conciso e ricco allo stesso tempo, attraverso 4 delle 12 città etrusche: Chiusi, Veio, Tarquinia e Vulci.Lo speciale contiene un articolo e quattro approfondimenti.Che fossero di origine autoctona, turca o addirittura svizzero-austriaca (queste le tre ipotesi più accreditate), poco importa: il mistero che circonda la cultura degli Etruschi fa sì che un viaggio tra città e borghi da essi fondati abbia un sapore particolare, fatto più di domande che di risposte certe.Una delle poche cose che sappiamo è che fondamentale fu il contatto con i Fenici e soprattutto con i Greci. Gli Etruschi, infatti, costituirono 12 città-Stato sul modello delle poleis greche e oggi possiamo ammirarle in tutta la loro bellezza, per quanto modificata dal passare dei secoli: Populonia, Tarquinia, Arezzo, Cerveteri, Chiusi, Vulci, Roselle, Veio, Orvieto, Perugia, Vetulonia e Volterra.Volendo seguire come cani da tartufo le tracce di questo popolo, potremmo anche spingerci in Emilia Romagna e persino sulle coste corse, perché gli Etruschi, per via dei loro mercati fiorenti, ebbero rapporti anche al di fuori dei confini della penisola italica.In effetti, pur non affacciando direttamente sul mare – posizionate com’erano nell’entroterra e solitamente in cima a delle alture - alcune di queste città erano dotate di porti efficientissimi. Oggi stupisce sapere che località vacanziere come Ladispoli – conosciuta per le spiagge, i locali e i ristoranti – fossero porti etruschi.Visitare l’Etruria significa scoprire zone dalle grandi bellezze storico-naturalistiche, alcune delle quali ancora poco conosciute, borghi dai colori scuri dovuti alla presenza del tufo, necropoli praticamente intatte, opere d’arte disseminate tra musei e parchi archeologici.Ciò che non possiamo vedere, purtroppo, sono i templi, simili a quelli greci ma – purtroppo per noi – costruiti in legno e, perciò, non sopravvissuti. In alcuni casi, come per esempio a Veio, sono rimasti i basamenti in pietra: il resto venne devastato dai Romani, che conquistarono l’Etruria come sapevano fare loro, cioè tramite razzie e incendi.Quello che possiamo ancora osservare, almeno in larga parte, sono le mura ciclopiche. A Fiesole (FI), per esempio, sono ancora visibili, anche grazie al fatto che i Romani le rafforzarono e ampliarono a loro uso e consumo. Altre mura ciclopiche di origine etrusca si trovano a Cortona (AR), anche se della struttura difensiva originaria rimane poco: troppe le modifiche prima romane e poi medievali/medicee. Altre rimanenze etrusche sono le porte d’ingresso alle città, come quella di Volterra (Porta all’Arco). Nella loro semplicità, sono ancora in grado di colpire il visitatore: non bisogna essere grandi amanti della storia per rendersi conto della preziosità di queste testimonianze, nonché della maestria architettonica e ingegneristica di un popolo vissuto tra il IX e il I secolo a.C.I siti meglio conservati sono comunque le necropoli, questo anche grazie al culto dei morti. Gli Etruschi, infatti, credevano fortemente nell’aldilà. Tantissime le suppellettili e gli arredi arrivati fino a noi, che ci parlano sia delle loro credenze che della loro arte. Il monumento più rappresentativo di ciò è sicuramente il Sarcofago degli Sposi, conservato nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, a Roma.Alcune necropoli sono così ben conservate da essere diventate patrimonio Unesco. Si pensi a Tarquinia e Cerveteri. Si tratta di due vere e proprie cittadelle, con tanto di strade, trincee e persino piazze. Per noi hanno il valore di due immense enciclopedie: essendoci rimasto poco di questo popolo, tutto ciò che è contenuto all’interno delle necropoli ha lo stesso peso delle testimonianze scritte, se non di più. Anche i dipinti parietali sono come testimoni sopravvissuti all’oblio del tempo, istantanee di vita quotidiana che ci parlano direttamente dai muri delle città mortuarie.Quelle che seguono sono solo 4 delle 12 città etrusche. Molto ci sarebbe ancora da dire, ma per un viaggio conciso e ricco allo stesso tempo abbiamo dovuto fare una piccola selezione tra quelle che amiamo di più.<div class="rebellt-item col2" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/etruschi-2657378811.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="chiusi" data-post-id="2657378811" data-published-at="1653401282" data-use-pagination="False"> Chiusi iStock Bandiera arancione del Touring Club Italiano, Chiusi è una cittadina del Senese, ubicata in posizione fortunatissima: si trova infatti in piena Valdichiana, a due passi dalla Val d’Orcia e, dotata di stazione ferroviaria, è il punto d’approdo dei turisti non automuniti che vogliono visitare questa zona del Senese.Passeggiando nel centro storico non si possono non notare le fortificazioni e Porta Lavinia, testimonianze vive della civiltà etrusca. Ma il centro storico val bene una visita anche per il bel Duomo, il Museo Nazionale d’Arte Medievale e Moderna (con opere di celeberrimi artisti, come il Vasari) e la medievale Chiesa di San Francesco.La parte più bella è sotterranea: nel sottosuolo si trova infatti una serie di stretti cunicoli scavati nel tufo dagli Etruschi, che ospitano cisterne, urne e tegole funerarie e persino un laghetto. Bellissimo anche il Labirinto di Porsenna, che si trova proprio sotto la cattedrale. È infatti dall’annesso museo che vi si accede. Qui si dice che venne sepolto il re etrusco Porsenna, ma fonti più pragmatiche lo descrivono come un sistema per l’approvvigionamento idrico della città etrusca.Assolutamente da non perdere il Museo Etrusco, molto ben organizzato (si può chiedere un tablet all’ingresso, che fornisce tutte le informazioni sui reperti qui esposti). È anche possibile pagare il biglietto per la visita cumulativa al museo e alle tombe etrusche, che si trovano poco oltre le mura cittadine.Gli amanti della natura potranno trovare ristoro al Lago di Chiusi. Protetto dal WWF, ospita specie ornitologiche quali l’airone rosso e il falco pescatore. Da esplorare o a piedi, in bicicletta o in barca.Dormire a ChiusiLa Piccola Locanda, Via Leonardo Da Vinci 26: affittacamere con ristorante al piano terra;Agriturismo Macciangrosso Casale Piccolomini, Località Macciangrosso: immerso nella natura e dotato di piscina.Mangiare a ChiusiLa Solita Zuppa, Via Porsenna 21: ristorante tipico, famoso per le zuppe;Il Grillo è Buoncantore, Piazza XX Settembre 10: prodotti a km 0 di ottima qualità;Ristorante Pape Nero, Piazza del Teatro 1: da provare i pici con sugo toscano. <div class="rebellt-item col2" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/etruschi-2657378811.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="veio" data-post-id="2657378811" data-published-at="1653401282" data-use-pagination="False"> Veio iStock Veio è un’altra perla forse poco conosciuta da chi non vive nei pressi di Roma. Si trova infatti vicino a Isola Farnese, a una quindicina di chilometri dalla capitale. Patria etrusca prima e romana poi, venne definitivamente abbandonata nel IV secolo a.C.Anche qui la natura abbonda: Veio è un’area naturale protetta ed è il quarto parco laziale per estensione, tanto da comprendere ben 9 comuni. Il monumento etrusco più importante è il Santuario di Portonaccio, dedicato alla dea Minerva; qui venne ritrovata la famosa statua in terracotta di Apollo, oggi conservata nel Museo Nazionale di Villa Giulia. Il santuario di Campetti, dedicato alla dea Veii, diede invece il nome alla città.A Veio si possono anche visitare le necropoli, all’interno delle quali spiccano le Tombe delle Anatre e dei Leoni Ruggenti, chiamate così per i dipinti che le decorano.Il Ponte Sodo, infine, è una galleria che serviva a far defluire il fiume Cremera durante le piene, a dimostrazione dell’abilità ingegneristica di questo popolo.E proprio l’acqua è l’elemento preponderante all’interno del Parco di Veio: la Mola di Isola Farnese è un vecchio mulino che funzionava grazie al Fosso Piordo, di cui ora possiamo ammirare la piccola ma suggestiva cascata. Dall’altro lato del ponte si trova una cascata “vera”, che cade da un’altezza di 10 metri.Per raggiungere Veio, bisogna prendere l’uscita Fiano Romano (A1) e la direzione Capena-Morlupo. Se si viene da sud, invece, le uscite possibili dal G.R.A. sono tre: Flaminia, Cassia Veientana o Cassia.Dormire B&B Parco di Veio, Via del Praticello Alto 40, Formello: gentilezza, tranquillità e colazione ottima;Antica Pietrata B&B, Via della Pietrara 4, Formello: bellissima location. Buono anche il ristorante.MangiareHostaria La Cerquetta, Via Enrico Bassano 54/56, Roma: famoso per la carne;Ara Bracis, Via Cassia 1837, Roma: anche qui è d’obbligo assaggiare la carne;Antico Mulino a Vejo, Via Riserva Campetti, Isola Farnese: location da sogno e cucina ricercata. <div class="rebellt-item col2" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/etruschi-2657378811.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="tarquinia" data-post-id="2657378811" data-published-at="1653401282" data-use-pagination="False"> Tarquinia iStock Tarquinia è una gran bella cittadina in provincia di Viterbo. Sono due i motivi che spingono a visitarla: gli Etruschi e il mare. La sua vicinanza a Roma, inoltre, la rende una meta particolarmente appetibile.Prima ancora di visitare la sua necropoli, è nel borgo che vanno ricercate le testimonianze della civiltà etrusca. A partire da Palazzo Vitelleschi, dove si trova il Museo Nazionale Etrusco di Tarquinia, il più importante d’Italia. Da non perdere i Cavalli Alati in terracotta, altorilievo che decorava l’Ara della Regina, tempio che si trovava sull’altura della Civita.Sicuramente è la necropoli di Monterozzi ad attirare la maggioranza dei visitatori: qui è possibile comprendere a fondo la cultura etrusca. Sono 200 le tombe dipinte, di cui le più famose sono quelle delle Leonesse, dei Leopardi, della Caccia e della Pesca e dei Giocolieri.La necropoli, così come il museo, è visitabile tutti i giorni ad eccezione del lunedì, dalle 9:00 alle 19:30. Il biglietto intero costa € 6,00, € 10,00 se si abbinano necropoli e museo. Infine, esiste un altro luogo di grande interesse archeologico: Porto Clementino, che è l’antico porto etrusco.Andare a Tarquinia significa anche visitare il bellissimo centro storico, caratterizzato da vicoli e monumenti medievali di indubbia bellezza, tra cui il Palazzo Comunale e il Duomo dei Santi Margherita e Martino. Per gli amanti della natura è d’obbligo un salto alla Riserva Naturale Saline di Tarquinia (luogo che ospita innumerevoli specie di uccelli), nonché al lido per un bagno ristoratore.Dormire a TarquiniaHotel Villa Tirreno, Via B. Croce 2: struttura a due passi dal centro storico, dotata anche di un buon ristorante;Villa Hotel Valle del Marta Resort, Via Aurelia Vecchia Km 93: hotel immerso nel verde e dotato di una spa.Mangiare a Tarquinia:Chicche e Pepe, Piazza Santo Stefano 11: consigliate le pappardelle al ragù di cinghiale;Ristorante Cavatappi, Via dei Granari 2: da provare la tagliata di cinta;Namo Ristobottega, Via Giovanni Battista Marzi 1: piatti tipici della zona, ma reinventati. <div class="rebellt-item col2" id="rebelltitem4" data-id="4" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/etruschi-2657378811.html?rebelltitem=4#rebelltitem4" data-basename="vulci" data-post-id="2657378811" data-published-at="1653401282" data-use-pagination="False"> Vulci iStock Non siamo né in un borgo né in una città, bensì in un’ex città-Stato, oggi parco archeologico: benvenuti a Vulci, nel Viterbese.La natura incontaminata si insinua tra i resti di questo Parco Naturalistico ed Archeologico, per accedere al quale vengono richiesti solo € 10,00. Una cifra irrisoria, se si considera l’importanza storica di questo sito.È possibile seguire due percorsi: breve (2 km) e lungo (4 km). Il secondo permette chiaramente di svolgere una visita più approfondita e, allo stesso tempo, di fare incetta di verde.La preziosità di Vulci consiste nell’unione tra cultura etrusca e cultura romana: nel 280 a.C., infatti, la città-Stato venne conquistata e lo dimostrano monumenti quali la domus, il foro e l’arco di Publius Sulpicius Mundus.La parte più importante è costituita dalle necropoli, all’interno delle quali sono state trovate pregevoli opere, alcune delle quali conservate oggi al Museo di Villa Giulia, a Roma.Lungo il percorso, ci si imbatte anche nell’Area Tradizioni Maremmane, dov’è possibile osservare i butteri (i “cowboy” della Maremma) al lavoro. Un altro luogo bellissimo del parco è il laghetto del Pellicone, dove sono anche stati girati diversi film, tra cui “Non ci resta che piangere”, con Roberto Benigni e Massimo Troisi. Poco oltre c’è la bellissima Valle delle Farfalle: qui sono state inserite delle piante nutrici, su cui le farfalle possono depositare le uova. Un’iniziativa lodevole, considerato il rischio di estinzione che stanno correndo questi meravigliosi insetti.La visita si conclude al Castello dell’Abbadia, il piccolo ma ricchissimo Museo Archeologico Nazionale di Vulci.DormireBorgo S. Maria di Vulci, Località Camposcala, SP 105, km 2.5 (Strada del Fiora 25): una casa di campagna dotata di tutti i comfort e vicina alle attrazioni principali della zona;Camere Montalto di Castro, Via Soldatelli 3: un bed & breakfast apprezzato per la sua posizione e i servizi.Mangiare a Vulci e dintorniRistorante Casale dell’Osteria: si trova proprio all’interno del parco. Ottimi i ravioloni maremmani e la faraona all’arancia;Ristorante Metrò, Via Eugenio Curiel 22: ottima la pizza fritta con i salumi;Casaletto Mengarelli: è l’altro ristorante del parco. Tra i piatti da provare le polpette alla ricotta.
Il tocco è il copricapo che viene indossato insieme alla toga (Imagoeconomica)
La nuova legge sulla violenza sessuale poggia su presupposti inquietanti: anziché dimostrare gli abusi, sarà l’imputato in aula a dover certificare di aver ricevuto il consenso al rapporto. Muove tutto da un pregiudizio grave: ogni uomo è un molestatore.
Una legge non è mai tanto cattiva da non poter essere peggiorata in via interpretativa. Questo sembra essere il destino al quale, stando a taluni, autorevoli commenti comparsi sulla stampa, appare destinata la legge attualmente in discussione alla Camera dei deputati, recante quella che dovrebbe diventare la nuova formulazione del reato di violenza sessuale, previsto dall’articolo 609 bis del codice penale. Come già illustrato nel precedente articolo comparso sulla Verità del 18 novembre scorso, essa si differenzia dalla precedente formulazione essenzialmente per il fatto che viene ad essere definita e punita come violenza sessuale non più soltanto quella di chi, a fini sessuali, adoperi violenza, minaccia, inganno, o abusi della sua autorità o delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa (come stabilito dall’articolo 609 bis nel testo attualmente vigente), ma anche, ed in primo luogo, quella che consista soltanto nel compimento di atti sessuali «senza il consenso libero e attuale» del partner.
Tampone Covid (iStock)
Stefano Merler in commissione confessa di aver ricevuto dati sul Covid a dicembre del 2019: forse, ammette, serrando prima la Bergamasca avremmo evitato il lockdown nazionale. E incalzato da Claudio Borghi sulle previsioni errate dice: «Le mie erano stime, colpa della stampa».
Zero tituli. Forse proprio zero no, visto il «curriculum ragguardevole» evocato (per carità di patria) dall’onorevole Alberto Bagnai della Lega; ma uno dei piccoli-grandi dettagli usciti dall’audizione di Stefano Merler della Fondazione Bruno Kessler in commissione Covid è che questo custode dei big data, colui che in pandemia ha fornito ai governi di Giuseppe Conte e Mario Draghi le cosiddette «pezze d’appoggio» per poter chiudere il Paese e imporre le misure più draconiane di tutto l’emisfero occidentale, non era un clinico né un epidemiologo, né un accademico di ruolo.
La Marina colombiana ha cominciato il recupero del contenuto della stiva del galeone spagnolo «San José», affondato dagli inglesi nel 1708. Il tesoro sul fondo del mare è stimato in svariati miliardi di dollari, che il governo di Bogotà rivendica. Il video delle operazioni subacquee e la storia della nave.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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Manifestazione ex Ilva (Ansa)
Ok del cdm al decreto che autorizza la società siderurgica a usare i fondi del prestito: 108 milioni per la continuità degli impianti. Altri 20 a sostegno dei 1.550 che evitano la Cig. Lavoratori in protesta: blocchi e occupazioni. Il 28 novembre Adolfo Urso vede i sindacati.
Proteste, manifestazioni, occupazioni di fabbriche, blocchi stradali, annunci di scioperi. La questione ex Ilva surriscalda il primo freddo invernale. Da Genova a Taranto i sindacati dei metalmeccanici hanno organizzato sit-in per chiedere che il governo faccia qualcosa per evitare la chiusura della società. E il Consiglio dei ministri ha dato il via libera al nuovo decreto sull’acciaieria più martoriata d’Italia, che autorizza l’utilizzo dei 108 milioni di euro residui dall’ultimo prestito ponte e stanzia 20 milioni per il 2025 e il 2026.







