2018-08-14
Erdogan sembra Mattarella: inchiesta sui troll anti presidente
Il governo turco ha rivelato di avere avviato un'indagine su 346 account, aperti su vari social network, che avrebbero «aiutato la speculazione contro il Paese». Un remake dei vivaci twittatori anti Quirinale.L'interesse dell'Italia è quello di contribuire a convincere il leader ad arrendersi. O collaborare alla destabilizzazione totale di Turchia e Iran per avere l'appoggio Usa.Lo speciale contiene due articoliRecep Tayyip Erdogan come Sergio Mattarella: il paragone vi sembra assurdo, se non addirittura irriverente? Mica tanto. Perché nel pomeriggio di ieri il governo turco ha rivelato di avere avviato un'inchiesta su 346 account, aperti su vari social network e probabilmente quasi sicuramente intestati a soggetti fittizi, che avrebbero «aiutato la speculazione contro il Paese» diffondendo «voci false e tendenziose» sulla crisi economico-finanziaria che sta facendo barcollare la lira e dall'inizio dell'anno le ha fatto perdere oltre il 40%. La storia non vi ricorda nulla? Ma sì, dai: social network, profili falsi, fake news, indagini… Proprio così: ad Ankara sta accadendo quasi esattamente quello che da una settimana, in Italia, agita i giornali e divide l'opinione pubblica. Là è stata appena avviata un'indagine su questi circa 400 «mestatori online» che vorrebbero condurre il Paese nel baratro finanziario; a Roma il 6 agosto la Procura ha annunciato l'esistenza di un'inchiesta su altrettanti profili Twitter, presumibilmente fittizi e creati da non meglio identificati «interessi russi», dai quali, nella notte tra il 27 e il 28 maggio, sono partiti insulti e inviti alle dimissioni nei confronti del presidente della Repubblica per la sua decisione di opporsi alla nomina di Paolo Savona come ministro dell'Economia. L'unica differenza sostanziale tra le due vicende è che a condurre l'inchiesta, ad Ankara, non è la magistratura ordinaria, bensì il ministero degli Interni. Però di questo, a dire il vero, nessuno si è sorpreso: da tempo è noto che, nella Turchia sotto il regime di Erdogan, le regole istituzionali sono allentate e la divisione dei poteri è sottoposta a qualche tensione «innovativa» rispetto alle tradizionali regole di Montesquieu. Quel che invece sorprende è la clamorosa, quasi straordinaria similitudine tra le due indagini: un parallelismo che in qualche modo rischia di trasformarsi anche in fonte d'imbarazzo per il Quirinale. Perché, a distanza di una sola settimana, la coincidenza è davvero clamorosa e non proprio edificante. A Roma la magistratura indaga qualche centinaio di vivaci twittatori anti-Mattarella per i due reati di «attentato alla libertà del presidente della Repubblica» e di «offesa all'onore e al prestigio del Capo dello Stato»: due reati per i quali, in base agli articoli 276 e 278 del Codice penale, gli indagati rischiano una pena edittale dell'ergastolo. Ad Ankara il governo (presumibilmente attraverso i suoi occhiuti servizi segreti) ha messo nel mirino questi 346 presunti cattivi utenti di Twitter, Facebook e perfino Whatsapp, ipotizzando un loro uso «antinazionale» e «terroristico» dei canali online con scopi speculativi: in termini di potenziale galera per gli imputati, il rischio è più o meno lo stesso. In Turchia, del resto, il tema del controllo dei social network è da tempo materia delicata. Soprattutto dopo il misterioso golpe del 2016, finito nel sangue e nelle purghe contro ogni opposizione, il presidente Erdogan ha vietato più volte l'accesso a Facebook, a Twitter e a Whatsapp. Di recente sono stati bloccati tutti gli account che avevano osato criticare il governo per l'ultima offensiva militare contro i curdi nel Nord della Siria, e in certi casi sono stati addirittura eseguiti arresti per «propaganda terroristica» condotta online.Ora, dopo il minaccioso annuncio del governo turco sulla nuova inchiesta anti-social network, si vedrà come si comporterà Erdogan: se farà annunci o proclami in prima persona, o se lascerà parlare soltanto le manette. In Italia, malgrado qualche garbata sollecitazione, dal 6 agosto il capo dello Stato non ha mai voluto intervenire per segnalare all'opinione pubblica la sua personale (e auspicabile) dissociazione dalla improvvisa (e improvvida) severità giudiziaria contro le voci critiche sui social network. I soliti maligni sostengono che Mattarella lo abbia fatto senza esporsi, attraverso un articolo pubblicato l'8 agosto sul Corriere e intitolato «Attacco web, il Colle e l'inchiesta: nessuna minaccia al dissenso». In mezza pagina di giornale, affidata al principe dei quirinalisti, Marzio Breda, si negava che il presidente «voglia far marcire in galera chiunque si pronunci criticamente su di lui» e si sottolineava che «dal Colle non sono partite denunce» e che «e da lassù non c'è dunque nulla da chiarire». Si smentiva, insomma, l'idea che Mattarella sia «uomo permaloso che, credendosi un semidio, voglia rianimare il reato di lesa maestà». Sarebbe, garantiva il Corriere, «una distorsione della realtà».Per carità, nessuno osa nemmeno ipotizzarlo: quello, semmai, sembra l'identikit di Erdogan.Maurizio Tortorella<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/erdogan-sembra-sergio-mattarella-inchiesta-sui-troll-anti-presidente-2595568435.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="sarebbe-meglio-la-caduta-del-rais" data-post-id="2595568435" data-published-at="1757784008" data-use-pagination="False"> Sarebbe meglio la caduta del Raìs L'America non ha ancora fatto un affondo contro il regime Erdogan, ma ha colto l'occasione di una crisi di fiducia autoindotta della lira (a causa della politicizzazione della Banca centrale e la familizzazione del ministero dell'Economia) che potrebbe farlo, segnalando un mancato sostegno finanziario. Questa posizione ha convinto il mercato finanziario non solo a fuggire dalla Turchia, ma a scontare un aumento della turbolenza geopolitica globale, cosa che poi ha orientato il flusso dei capitali verso il dollaro e nazioni con minor rischio sistemico, danneggiando i valori azionari e i titoli di debito dell'Italia perché classificata tra le nazioni a rischio. L'America ha un obiettivo dissuasivo: evitare che Ankara aderisca ad un'alleanza con Russia e Iran, nonché con la Cina, a ridosso dell'azione di sanzioni totali contro l'Iran stesso. Recep Erdogan sta tentando di usare la minaccia di cambio di schieramento per ottenere condizioni vantaggiose da parte di Donald Trump. Ma questi difficilmente le concederà oltre un dato limite. Pertanto c'è il rischio di una sfida. Il motivo per cui gli strateghi di Washington non possono mollare la presa sull'Iran, e di conseguenza sulla Turchia, è che la guerra contro Teheran è un episodio locale di quella contro la Cina, ma importante perché riguarda il controllo futuro dell'Asia centrale, area critica dove le zone di influenza americana e cinese troveranno confine, ciascuna guerreggiando in diversi modi per spostarlo il più possibile a proprio favore, fatto rilevantissimo perché ciò influenzerà la scelta dell'impero russo - che al momento sta a guardare e solo apparentemente e/o contingentemente è procinese - con chi stare. Semplificando, è in corso di formazione un nuovo mondo bipolare dove i due blocchi maggiori, America e Cina, competono per includere quelli minori, Russia e Ue, e il resto delle nazioni. In tale gioco la Cina è in vantaggio per motivi di scala del proprio mercato interno, che è un moltiplicatore dell'influenza esterna, e può usare la strategia dell'elefante: dominio lento grazie alla stazza. Ma ha un punto debole: per molto tempo ancora la sua economia dipenderà molto dall'export, restando vulnerabilissima a restrizioni commerciali, perché la trasformazione verso un modello trainato da investimenti e consumi interni richiede evoluzioni complesse del suo mercato interno. Per tale motivo la conduzione Trump sta rispondendo con la strategia del leopardo: soffocare l'economia cinese con sanzioni e abbattere i regimi che potrebbero affiancare la Cina, il più velocemente possibile, anche per convincere con bastone e carota l'Ue a restare nel perimetro statunitense e dissuadere la Russia a mettersi contro, concedendole lo status di impero autonomo, ma collaborativo. In tale contesto, sarebbe più salutare per Erdogan arrendersi e prendere almeno una posizione di neutralità collaborativa perché, appunto, difficilmente Washington potrebbe rinunciare ad abbatterlo e/o a sostenere, pur mossa solo di ultima istanza, un'insorgenza curda anche utile, oltre che a spaccare la Turchia, ad incuneare un nuovo Stato proamericano (e non ostile all'Arabia e a Israele) nei territori turco, siriano e iraniano. Non è chiaro se Erdogan abbia capito cosa ci sia in gioco. Da un lato, ha certamente colto la rilevanza geostrategica della Turchia. Dall'altro forse non ha capito quanto lo sia sul piano globale e conseguentemente il rischio di tirare troppo la corda. Su questo punto dovrebbe/potrebbe entrare in gioco l'Italia. Il suo interesse nazionale è che nel processo di formazione del nuovo sistema bipolare non ci siano turbolenze tali da farle soffrire (de)flussi di capitale alla ricerca di luoghi sicuri. Appunto, il mercato non considera l'Italia uno di questi per la bassa crescita combinata con l'alto debito e l'incapacità storica della politica di risolvere tale problema. Una più forte alleanza con l'America aiuta l'Italia, ma anche la mette in divergenza con il «sovranismo europeo» della Francia e il «neutralismo» della Germania, considerando il potere di ricatto che i due hanno su Roma. Pertanto l'Italia resta massimamente vulnerabile a turbolenze internazionali. Per ridurre tale vulnerabilità dovrà fare più crescita e ridurre il debito, ma ci vorranno tempo e probabilmente una nuova verifica politica interna per togliere dalla maggioranza la componente statalista-assistenzialista che tende a soffocare i potenziali di crescita stessa. Quindi è interesse vitale per Roma contribuire a convincere Erdogan ad arrendersi e a riprendere una posizione leale nella Nato per minimizzare la possibile turbolenza, togliendo una sponda all'Iran e facendo riflettere Mosca. Oppure contribuire alla destabilizzazione totale di Turchia e Iran per ottenere in cambio il sostegno del sistema finanziario statunitense, ma sarebbe migliore la prima opzione. Carlo Pelanda
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