2020-11-04
Erdogan, «cattivo maestro» islamico tra ansia di conquista e crisi interna
Recep Tayyip Erdogan (Ansa)
Il sultano di Ankara è impegnato a nascondere i disastri economici e sanitari turchi minacciando l'Europa e destabilizzando il Mediterraneo e il Caucaso. Ma per farlo, intesse relazioni pericolose con gli estremisti.Il sospetto che ci sia un centro di coordinamento dietro gli attacchi degli ultimi giorni a ridosso dell'inizio dei lockdown. Il totalitarismo folle dell'Isis ha solo cambiato pelle.Lo speciale contiene due articoli.L'economia turca continua a soffrire: ieri è stata sfondata la barriera delle 10 lire turche per un euro (contro il dollaro la lira turca ha perso circa il 30% nel solo 2020). E neppure la situazione sanitaria lascia ben sperare visto il silenzio imposto dal governo sui numeri reali dei contagiati e dei morti del coronavirus (come denunciato da alcuni esponenti dell'oppositore come Murat Emir, dirigente del Partito popolare repubblicano): una censura che ha portato in cima alle tendenze dei social media l'hashthag vaksayisikac, cioè «Qual è il numero di casi». Davanti ai problemi interni, il presidente Recep Tayyip Erdogan, 66 anni di cui 17 alla guida del Paese (prima come primo ministro, poi dal 2014 come capo di Stato), sembra deciso a rispondere rilanciando un'agenda espansionistica e neo-ottomana. Buona sia per sedare le mire nazionalistiche sia per lasciare in secondo piano le controversie interne. Che, si badi bene, non si limitano alle questioni economiche e sociali: esiste, infatti, un tema di repressione del dissenso. Basti pensare alla situazione dei curdi.Funzionale ai progetti di Erdogan, rafforzata internamente dal repulisti seguito al tentativo di golpe del 2016 e dal referendum dell'anno successivo, è stata la sfida con il presidente francese Emmanuel Macron sulla libertà di espressione. In particolare sulle vignette del giornale satirico francese Charlie Hebdo, già finito nel gennaio del 2015 nel mirino del terrorismo islamista. Dopo la decapitazione (due settimane fa a Parigi per mano del diciottenne ceceno con status di rifugiato Abdoullah Anzorov) del professor Samuel Paty reo di aver mostrato in classe quelle vignette, lo scontro tra i due leader si è esacerbato. Macron ha pronunciato un duro discorso in televisivo annunciando che non avrebbe tollerato il «separatismo» delle comunità islamiche più estreme preparando un giro di vite sui gruppi legati alle potenze straniere che ha portato, tra le prime mosse, al bando del gruppo ultranazionalista turco dei Lupi grigi. Erdogan, che per anni ha chiuso un occhio davanti ai miliziani dello Stato islamico, al traffico illegale di carburante siriano e al denaro trasferito in Turchia dagli apparati finanziari del Califfato, ha colto la palla al balzo per proclamarsi paladino dei musulmani. Di tutti i musulmani del mondo. Il «sultano» è stato pronto a sfruttare il fatto di essere un grande finanziatore di molti luoghi di culto islamici in Francia, Paese che ospita 5,72 milioni di musulmani e in cui 73 tra moschee e scuole coraniche sono state chiuse soltanto nel 2020 per estremismo. Poi ha reagito sostenendo che «in Europa c'è un clima di islamofobia» e che «la Francia e l'Europa non meritano politici come Macron e quelli che condividono la sua mentalità, che non fanno altro che seminare odio». Che «vorrebbero rilanciare le crociate», ha aggiunto.All'appello revanscista islamista si è aggiunto poi l'invito al boicottaggio dei prodotti francesi, che ha incassato l'appoggio di molti Paesi del Golfo e tanto di manifestazioni nelle piazze con bandiere francesi date alle fiamme (l'Arabia Saudita, sfidata da Erdogan, per la leadership del mondo sunnita, si è schierata sul fronte opposto invitando a non comprare prodotti turchi).Gli appelli del «sultano» sembrano essere risuonati come un chiamata alle armi per l'estremismo jihadista, a giudicare dall'attentato della scorsa settima nella cattedrale di Notre Dame di Nizza, in Francia (un attentatore con legami con lo Stato islamico ha ucciso tre persone) e da quello di lunedì sera a Vienna.Da mesi analisti e diplomatici ragionano sulla possibilità di cacciare dalla Nato la Turchia, a cui già l'Unione europea (sottoposta al ricatto dei migranti da Erdogan) ha di fatto negato l'adesione continuando a rinviare i negoziati ormai da anni. L'Alleanza atlantica e Ankara sono sempre più distanti, non soltanto sul piano ideologico: alcuni giorni fa l'esercito turco ha testato sul Mar Nero il sistema di difesa aereo russo S-400. È soltanto l'ultima di molte tensioni con gli Stati Uniti che hanno di fatto portato fuori la Turchia dal programma F-35 e fatto sì che Washington rafforzasse l'asse con la Grecia.Non è l'unico motivo di preoccupazione dell'Occidente proveniente da Ankara. Dal sostegno alla Fratellanza musulmana (anche nel dossier caldo, in particolare per l'Italia, della Libia), alle mire sul Mediterraneo orientale con la dottrina «Patria blu» che teorizza un'ampia visione marittima. Dal rapporto con la Russia fino al feeling con l'Iran (che pur essendo un Paese a maggioranza sciita rappresenta un importate alleato per Ankara in chiave anti Arabia Saudita).Infine, c'è la questione cinese. Se la Russia non si fa remore a intervenire in zone dove la situazione è a dir poco bollente (come la Siria, per esempio), la Cina si tiene ben distanze da scenari simili. E in questo senso il fatto che Erdogan scateni il caos nel Mediterraneo, nei Balcani e nel Caucaso rappresenta una sorta di garanzia per gli Stati Uniti. Recentemente Durmus Yilmaz, governatore della Banca centrale turca dal 2006 e 2011, ha sottolineato che la Turchia rischia di diventare «un Paese a prezzi stracciati» per gli investitori stranieri. In questo contesto economico-finanziario, ha spiegato ad Ahval, giornale anti Erdogan, «le nostre proprietà, le nostre aziende, i nostri beni» rischiano di finire in «mani straniere» a prezzi stracciati. Ecco, dunque, il rischio più recente che la Turchia può rappresentare per la Nato: l'essere un cavallo di Troia della Cina. E probabilmente questo rappresenta il punto di caduta anche per gli Stati Uniti.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/erdogan-cattivo-maestro-islamico-tra-ansia-di-conquista-e-crisi-interna-2648611885.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-scia-di-sangue-ha-una-regia-unica" data-post-id="2648611885" data-published-at="1604446712" data-use-pagination="False"> La scia di sangue ha una regia unica Dopo la lunga sequenza francese comincia quella austriaca. È legittimo farsi domande in un quadro di minaccia del terrorismo jihadista che appare poco chiaro, anzi più che poco chiaro adatto a una molteplicità di scenari tutti molto preoccupanti. Per ora Vienna non fa che rilanciare gli interrogativi già sorti con Parigi. Che cosa abbiamo tutti notato? Innanzitutto, che dopo mesi di silenzio il terrorismo jihadista ha ripreso quota in Europa con una serie di attacchi, in poco tempo, dalla Francia all'Austria. Questo a testimoniare come il disinteresse mediatico e la scarsa attenzione pubblica a un fenomeno non abbia a che fare con la minaccia concerta che esso porta. Queste sono settimane di una paura che si rinnova potenziata dalla paura della pandemia. Il tema della pandemia era già stato affrontato come possibile acceleratore di attentati terroristici ma così non è stato. La pandemia è la causa indiretta: è l'avvicinarsi dei lockdown locali che sembra accelerare gli attacchi: forse prima che si riduca troppo la circolazione delle persone e prima che i controlli sulla mobilità aumentino allora si colpisce avendo più carne sul fuoco e meno poliziotti nei dintorni. Ma se tutto questo fosse vero, allora si potrebbe pensare a una regia che ha previsto in questo tempo una sequenza di attacchi in diversi Paesi europei e, dunque, o non vuole perdere l'opportunità di rimandarli a chissà quando oppure di proposito usa l'ultima finestra pre-lockdown per agire. Dalla Francia a Vienna sembra cambiare la struttura organizzativa. Prima, attacchi solitari, motivati dalla offesa arrecata al Profeta dalle vignette di Charlie Hebdo. Poi, attacchi multipli, su target ebraico, che prevedono almeno un minimo di circuito coordinato a livello locale. Insomma, emergono assonane e dissonanze nella analisi di questo percorso di sangue che sono di massimo interesse per comprendere eventuali regie che «stanno dietro». È verosimile che il terrorismo islamista, ben sedimentato nelle società europee grazie alla capace propaganda di Daesh e il disinteresse dei governi locali, sortisca oggi, adesso, tutto insieme, un florilegio spontaneo spiegabile solo con i processi di imitazione che abbiamo ampiamente descritto negli anni passati? Sinceramente non mi soddisfa questa risposta in linea con il passato. Il contesto internazionale di queste settimane non è quello della nascita e vita e poi morte del Califfato. Ormai è altro: dove il terrorismo jihadista è un asset prezioso degli interessi statuali che combattono il conflitto ibrido in corso. E se dunque mettiamo insieme il necessario impasse politico in cui si trovano gli Usa pre-elettorali, i cinetismi in corso nel Mediterraneo orientale e nord Africa, fino al Sahel, e Armenia con ampio impiego di terroristi islamisti ormai mercenari al soldo di un rinnovato aspirante sultano ottomano. Allora arrivare a pensare a una regia che porti un attacco all'Europa, nella Francia più impegnata sul campo, a Vienna da sempre ultimo baluardo non è così distante dall'interpretare correttamente il modo di pensare avventuroso di un satrapo pazzo a Istanbul. Se non è così, ne sono felice.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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Il Comune di Merano rappresentato dal sindaco Katharina Zeller ha reso omaggio ai particolari meriti letterari e culturali della poetessa, saggista e traduttrice Mary de Rachewiltz, conferendole la cittadinanza onoraria di Merano. La cerimonia si e' svolta al Pavillon des Fleurs alla presenza della centenaria, figlia di Ezra Pound.