Il gioco del Go si pratica in Cina da almeno 2.500 anni: su una tavola fittamente reticolata si scontrano due eserciti la cui vittoria dipende dalla occupazione del territorio attraverso un accerchiamento progressivo del nemico, identificato nei qi, le pietre pedine. La tavola, usualmente 19 x 19, può crescere a dismisura e l'impegno strategico richiede una capacità interpretativa e predittiva delle situazioni sull'intera scacchiera per predisporre le proprie mosse rispetto alle conseguenze che avranno poi, piuttosto che per quelle che hanno sùbito.
Comprendere il gioco è importante: il modo con cui noi passiamo il tempo «libero», giocando, esprime i tratti culturali salienti di un popolo e, spesso, ne svela le trame difficili da comprendere con altre logiche. Per la Cina, infatti, quanto accade in Myanmar è parte della partita di Go sullo scacchiere globale e solo in questa prospettiva è comprensibile: il silente movimento di truppe cinesi, i qi (pietre pedine), un paio di giorni addietro nei dintorni dei confini meridionali, è indicatore concreto -e minaccia - dell'accerchiamento che sta portando alla penetrazione verso Sud, verso l'oceano Indiano. Ma è anche un aspetto della partita globale che la Cina sta giocando dall'Africa all'Artico, financo allo spazio: ormai la tavola del Go si è estesa a tutte le dimensioni possibili e le pedine si dispongono secondo uno schema di confinamento del nemico in territori chiusi, percorrendo nuove linee della scacchiera.
Mi aspetto che, fra qualche anno, tanti - certamente troppi - con sorpresa si renderanno conto di trovarsi rinchiusi in ambiti di cui avranno perso il controllo dei confini, dove saranno liberi per concessione e non per vocazione. Se leggiamo in questa prospettiva il grande progetto cinese, comprendiamo meglio le articolate linee tracciate per terra e per mare dalla Belt and road initiative, la Nuova via della seta, che sta definendo la struttura che permette il movimento dei qi, delle pedine, nella manovra di accerchiamento.
Il colpo di stato in Myanmar, uno Stato debole, frammentato in 135 gruppi etnici, con una democrazia traballante rappresentata dall'icona di Aung San Suu Kyi, essa stessa incompresa e, pertanto, abbandonata, alla solitudine delle relazioni con il proprio esercito prepotente, da parte della cosiddetta comunità internazionale, è solo un tassello importate del gioco.
La grande regione meridionale cinese dello Yunnang è un punto di diffusione delle vie di penetrazione cinese sia verso la regione del Grande Mekong (corridoio economico Est-Ovest), sia verso l'India (corridoio economico Bangladesh-Cina-India-Myanmar), passando attraverso il Myanmar (corridoio economico Cina-Myanmar). Una troppo facile lettura spiega questa penetrazione con la necessità di accaparrarsi cibo ed energia per un gigante dall'appetito insaziabile. Ma questa insaziabilità è dovuta sia a una necessità fisiologica di risposta alla crescita interna, sia a una risposta politica di volontà di controllo esteso a livello globale.
Questa seconda prospettiva non giustifica più la lettura funzionale interna, la ricerca del granaio nelle proprie periferie: il risultato più significativo del corridoio economico Cina-Myanmar porta al controllo cinese di alcuni porti sull'oceano Indiano, per esempio nella zona di Kyaukphyu nello Stato di Rakhine, nella zona occidentale del Myanmar, affacciata sul Golfo del Bengala. Si tratta di una traccia nuova sulla tavola del Go, che renderà superflua quella tradizionale attraverso lo stretto di Malacca: un incubo per ogni giocatore, perché è un passaggio controllato facilmente da forze nemiche, il cui blocco al transito sarebbe catastrofico per l'impero cinese, sia economico sia politico. Il porto birmano, affidato alla Cina, è una scorciatoia strategica determinante per facilitare le connessioni con l'Africa (i nuovi porti da Gibuti alla Tanzania) ed è anche una nuova linea sotto proprio controllo su cui schierare i qi del Go, al contrario di quanto servirebbe per rendere altrettanto sicura la via marittima del Pacifico e degli stretti asiatici.
Non si può comprendere il Myanmar senza l'oceano Indiano e l'Africa orientale, illuminati dalla volontà di potenza della Cina. Così come non si può non essere preoccupati delle nuove tracce che vanno verso l'Artico e lo spazio, sempre in cerca di corridoi su cui disporre le pedine nella delicata ma continua manovra avvolgente di un grande giocatore di Go cinese. In sostanza, è urgente condividere le regole del Go per capire le mosse dell'avversario.
Il mondo dopo l'assalto a Capitol Hill sarà diverso, come è già diverso dopo la pandemia. Come fu già diverso dopo l'11 Settembre, le Torri Gemelle. E questo perché gli Stati Uniti sono «l'Ammerica», quella strascicata nella pronuncia delle due emme degli immigrati: tutto quello che accade sul Nuovo Continente ha delle conseguenze nel Vecchio Mondo e non solo.
Per questo, dopo l'altra sera, sarà il caos soprattutto non in America - che riuscirà presto a ricomporsi - ma nel mondo globale dal quale essa sta cercando di liberarsi almeno in termini di responsabilità di guida.
Infatti, quanto accaduto sarà una vulnerabilità enorme per tutto il mondo.
Non solo quello democratico: si cominciano a sentire i risolini dei cinesi, risate secondo il loro standard, e dei miei altri interlocutori da Damasco a Mogadiscio, da Kabul a Tripoli quando si comincia a parlare di operazioni di supporto e sostegno alla democrazia locale: la retorica dell'intervento internazionale degli ultimi decenni, a guida Usa. Mi aspetto le facce che mi chiederanno «con che faccia?» si possono ancora raccontare queste fole.
Dopo l'altra sera avremo un'America con difficoltà enormi a spendersi quale paladino del diritto e della democrazia.
Mi immagino ora, quei tavoli di negoziazione, dove le immagini di Capitol Hill saranno consumate per quello che mostrano, per quello a cui assomigliano, prima ancora che per quello che sono. E così sarà in tanti tavoli simili, dove oramai un interlocutore che sembrava «inossidabile» mostra la ruggine che ha colpito tutti i sistemi democratici del mondo: ma il prestigio e l'affidabilità americana è stavolta rotolata giù dalla collina.
L'attacco a Capitol Hill si dispiegherà come un'ombra nera sulle possibilità di governo pacifico del mondo globale, in cui l'America era chiamata a svolgere un ruolo da pivot. Che oggi ha drammaticamente messo in crisi.
E tutto ciò non ha nulla a che fare con le vicende elettorali americane: è il risultato di un mondo sempre più radicalizzato al quale mancano leadership adeguate di governo e che, con questa esperienza, ha «finalmente» concluso la transizione avviata nel 1989, quando il crollo sovietico venne impropriamente vissuto come una vittoria americana. Dopo trent'anni i due blocchi mostrano di avere fallito nel tentativo di meritarsi l'egemonia globale, aprendo alla possibilità di un nuovo ordine multipolare e tutto da negoziare, e da meritare. Sarà dura.
L'America chiamata dal Vecchio Mondo (che non voleva comprendere quanto i cambiamenti fossero più radicali di quelli narrati dalla comoda e superata idea della «globalizzazione») a continuare a fare da regolatore politico del traffico ha fallito e Trump, paradossalmente, ha celebrato il fallimento nel tentativo di salvare gli Stati Uniti, togliendo loro dalle spalle il fardello di potenza globale.
Questo presidente ha portato a compimento il disfacimento avviato con entusiasmo dai suoi predecessori e, poi, ci ha messo tanto del suo: ha dimostrato il physique du rôle di quello che butta benzina sul cerino che gli hanno messo in mano, dando l'impressione di non volerlo spegnere ma neppure di tollerare di bruciarsi. E comunque, non poteva che andar male, perché gli americani non potevano togliersi addosso quello che il resto del mondo gli attribuiva, senza una discontinuità forte.
L'attacco a Capitol Hill ha prima creato un problema all'America alla quale, un po' salvificamente, avevamo affidato il governo del mondo, e conseguentemente a tutti noi: che saremo chiamati a rimboccarci le maniche.
Per fortuna che l'anno «bisesto» era quello passato.
- Il sultano di Ankara è impegnato a nascondere i disastri economici e sanitari turchi minacciando l'Europa e destabilizzando il Mediterraneo e il Caucaso. Ma per farlo, intesse relazioni pericolose con gli estremisti.
- Il sospetto che ci sia un centro di coordinamento dietro gli attacchi degli ultimi giorni a ridosso dell'inizio dei lockdown. Il totalitarismo folle dell'Isis ha solo cambiato pelle.
Lo speciale contiene due articoli.
L'economia turca continua a soffrire: ieri è stata sfondata la barriera delle 10 lire turche per un euro (contro il dollaro la lira turca ha perso circa il 30% nel solo 2020). E neppure la situazione sanitaria lascia ben sperare visto il silenzio imposto dal governo sui numeri reali dei contagiati e dei morti del coronavirus (come denunciato da alcuni esponenti dell'oppositore come Murat Emir, dirigente del Partito popolare repubblicano): una censura che ha portato in cima alle tendenze dei social media l'hashthag vaksayisikac, cioè «Qual è il numero di casi».
Davanti ai problemi interni, il presidente Recep Tayyip Erdogan, 66 anni di cui 17 alla guida del Paese (prima come primo ministro, poi dal 2014 come capo di Stato), sembra deciso a rispondere rilanciando un'agenda espansionistica e neo-ottomana. Buona sia per sedare le mire nazionalistiche sia per lasciare in secondo piano le controversie interne. Che, si badi bene, non si limitano alle questioni economiche e sociali: esiste, infatti, un tema di repressione del dissenso. Basti pensare alla situazione dei curdi.
Funzionale ai progetti di Erdogan, rafforzata internamente dal repulisti seguito al tentativo di golpe del 2016 e dal referendum dell'anno successivo, è stata la sfida con il presidente francese Emmanuel Macron sulla libertà di espressione. In particolare sulle vignette del giornale satirico francese Charlie Hebdo, già finito nel gennaio del 2015 nel mirino del terrorismo islamista. Dopo la decapitazione (due settimane fa a Parigi per mano del diciottenne ceceno con status di rifugiato Abdoullah Anzorov) del professor Samuel Paty reo di aver mostrato in classe quelle vignette, lo scontro tra i due leader si è esacerbato. Macron ha pronunciato un duro discorso in televisivo annunciando che non avrebbe tollerato il «separatismo» delle comunità islamiche più estreme preparando un giro di vite sui gruppi legati alle potenze straniere che ha portato, tra le prime mosse, al bando del gruppo ultranazionalista turco dei Lupi grigi. Erdogan, che per anni ha chiuso un occhio davanti ai miliziani dello Stato islamico, al traffico illegale di carburante siriano e al denaro trasferito in Turchia dagli apparati finanziari del Califfato, ha colto la palla al balzo per proclamarsi paladino dei musulmani. Di tutti i musulmani del mondo.
Il «sultano» è stato pronto a sfruttare il fatto di essere un grande finanziatore di molti luoghi di culto islamici in Francia, Paese che ospita 5,72 milioni di musulmani e in cui 73 tra moschee e scuole coraniche sono state chiuse soltanto nel 2020 per estremismo. Poi ha reagito sostenendo che «in Europa c'è un clima di islamofobia» e che «la Francia e l'Europa non meritano politici come Macron e quelli che condividono la sua mentalità, che non fanno altro che seminare odio». Che «vorrebbero rilanciare le crociate», ha aggiunto.
All'appello revanscista islamista si è aggiunto poi l'invito al boicottaggio dei prodotti francesi, che ha incassato l'appoggio di molti Paesi del Golfo e tanto di manifestazioni nelle piazze con bandiere francesi date alle fiamme (l'Arabia Saudita, sfidata da Erdogan, per la leadership del mondo sunnita, si è schierata sul fronte opposto invitando a non comprare prodotti turchi).
Gli appelli del «sultano» sembrano essere risuonati come un chiamata alle armi per l'estremismo jihadista, a giudicare dall'attentato della scorsa settima nella cattedrale di Notre Dame di Nizza, in Francia (un attentatore con legami con lo Stato islamico ha ucciso tre persone) e da quello di lunedì sera a Vienna.
Da mesi analisti e diplomatici ragionano sulla possibilità di cacciare dalla Nato la Turchia, a cui già l'Unione europea (sottoposta al ricatto dei migranti da Erdogan) ha di fatto negato l'adesione continuando a rinviare i negoziati ormai da anni.
L'Alleanza atlantica e Ankara sono sempre più distanti, non soltanto sul piano ideologico: alcuni giorni fa l'esercito turco ha testato sul Mar Nero il sistema di difesa aereo russo S-400. È soltanto l'ultima di molte tensioni con gli Stati Uniti che hanno di fatto portato fuori la Turchia dal programma F-35 e fatto sì che Washington rafforzasse l'asse con la Grecia.
Non è l'unico motivo di preoccupazione dell'Occidente proveniente da Ankara. Dal sostegno alla Fratellanza musulmana (anche nel dossier caldo, in particolare per l'Italia, della Libia), alle mire sul Mediterraneo orientale con la dottrina «Patria blu» che teorizza un'ampia visione marittima. Dal rapporto con la Russia fino al feeling con l'Iran (che pur essendo un Paese a maggioranza sciita rappresenta un importate alleato per Ankara in chiave anti Arabia Saudita).
Infine, c'è la questione cinese. Se la Russia non si fa remore a intervenire in zone dove la situazione è a dir poco bollente (come la Siria, per esempio), la Cina si tiene ben distanze da scenari simili. E in questo senso il fatto che Erdogan scateni il caos nel Mediterraneo, nei Balcani e nel Caucaso rappresenta una sorta di garanzia per gli Stati Uniti. Recentemente Durmus Yilmaz, governatore della Banca centrale turca dal 2006 e 2011, ha sottolineato che la Turchia rischia di diventare «un Paese a prezzi stracciati» per gli investitori stranieri. In questo contesto economico-finanziario, ha spiegato ad Ahval, giornale anti Erdogan, «le nostre proprietà, le nostre aziende, i nostri beni» rischiano di finire in «mani straniere» a prezzi stracciati. Ecco, dunque, il rischio più recente che la Turchia può rappresentare per la Nato: l'essere un cavallo di Troia della Cina. E probabilmente questo rappresenta il punto di caduta anche per gli Stati Uniti.
La scia di sangue ha una regia unica
Dopo la lunga sequenza francese comincia quella austriaca. È legittimo farsi domande in un quadro di minaccia del terrorismo jihadista che appare poco chiaro, anzi più che poco chiaro adatto a una molteplicità di scenari tutti molto preoccupanti.
Per ora Vienna non fa che rilanciare gli interrogativi già sorti con Parigi. Che cosa abbiamo tutti notato? Innanzitutto, che dopo mesi di silenzio il terrorismo jihadista ha ripreso quota in Europa con una serie di attacchi, in poco tempo, dalla Francia all'Austria. Questo a testimoniare come il disinteresse mediatico e la scarsa attenzione pubblica a un fenomeno non abbia a che fare con la minaccia concerta che esso porta.
Queste sono settimane di una paura che si rinnova potenziata dalla paura della pandemia. Il tema della pandemia era già stato affrontato come possibile acceleratore di attentati terroristici ma così non è stato. La pandemia è la causa indiretta: è l'avvicinarsi dei lockdown locali che sembra accelerare gli attacchi: forse prima che si riduca troppo la circolazione delle persone e prima che i controlli sulla mobilità aumentino allora si colpisce avendo più carne sul fuoco e meno poliziotti nei dintorni. Ma se tutto questo fosse vero, allora si potrebbe pensare a una regia che ha previsto in questo tempo una sequenza di attacchi in diversi Paesi europei e, dunque, o non vuole perdere l'opportunità di rimandarli a chissà quando oppure di proposito usa l'ultima finestra pre-lockdown per agire.
Dalla Francia a Vienna sembra cambiare la struttura organizzativa. Prima, attacchi solitari, motivati dalla offesa arrecata al Profeta dalle vignette di Charlie Hebdo. Poi, attacchi multipli, su target ebraico, che prevedono almeno un minimo di circuito coordinato a livello locale.
Insomma, emergono assonane e dissonanze nella analisi di questo percorso di sangue che sono di massimo interesse per comprendere eventuali regie che «stanno dietro». È verosimile che il terrorismo islamista, ben sedimentato nelle società europee grazie alla capace propaganda di Daesh e il disinteresse dei governi locali, sortisca oggi, adesso, tutto insieme, un florilegio spontaneo spiegabile solo con i processi di imitazione che abbiamo ampiamente descritto negli anni passati? Sinceramente non mi soddisfa questa risposta in linea con il passato.
Il contesto internazionale di queste settimane non è quello della nascita e vita e poi morte del Califfato. Ormai è altro: dove il terrorismo jihadista è un asset prezioso degli interessi statuali che combattono il conflitto ibrido in corso. E se dunque mettiamo insieme il necessario impasse politico in cui si trovano gli Usa pre-elettorali, i cinetismi in corso nel Mediterraneo orientale e nord Africa, fino al Sahel, e Armenia con ampio impiego di terroristi islamisti ormai mercenari al soldo di un rinnovato aspirante sultano ottomano. Allora arrivare a pensare a una regia che porti un attacco all'Europa, nella Francia più impegnata sul campo, a Vienna da sempre ultimo baluardo non è così distante dall'interpretare correttamente il modo di pensare avventuroso di un satrapo pazzo a Istanbul. Se non è così, ne sono felice.





