
Non si torna indietro: la Casa Bianca faticherà a porsi potenza pacificatrice globale. Il mondo dopo l'assalto a Capitol Hill sarà diverso, come è già diverso dopo la pandemia. Come fu già diverso dopo l'11 Settembre, le Torri Gemelle. E questo perché gli Stati Uniti sono «l'Ammerica», quella strascicata nella pronuncia delle due emme degli immigrati: tutto quello che accade sul Nuovo Continente ha delle conseguenze nel Vecchio Mondo e non solo. Per questo, dopo l'altra sera, sarà il caos soprattutto non in America - che riuscirà presto a ricomporsi - ma nel mondo globale dal quale essa sta cercando di liberarsi almeno in termini di responsabilità di guida. Infatti, quanto accaduto sarà una vulnerabilità enorme per tutto il mondo. Non solo quello democratico: si cominciano a sentire i risolini dei cinesi, risate secondo il loro standard, e dei miei altri interlocutori da Damasco a Mogadiscio, da Kabul a Tripoli quando si comincia a parlare di operazioni di supporto e sostegno alla democrazia locale: la retorica dell'intervento internazionale degli ultimi decenni, a guida Usa. Mi aspetto le facce che mi chiederanno «con che faccia?» si possono ancora raccontare queste fole. Dopo l'altra sera avremo un'America con difficoltà enormi a spendersi quale paladino del diritto e della democrazia. Mi immagino ora, quei tavoli di negoziazione, dove le immagini di Capitol Hill saranno consumate per quello che mostrano, per quello a cui assomigliano, prima ancora che per quello che sono. E così sarà in tanti tavoli simili, dove oramai un interlocutore che sembrava «inossidabile» mostra la ruggine che ha colpito tutti i sistemi democratici del mondo: ma il prestigio e l'affidabilità americana è stavolta rotolata giù dalla collina. L'attacco a Capitol Hill si dispiegherà come un'ombra nera sulle possibilità di governo pacifico del mondo globale, in cui l'America era chiamata a svolgere un ruolo da pivot. Che oggi ha drammaticamente messo in crisi. E tutto ciò non ha nulla a che fare con le vicende elettorali americane: è il risultato di un mondo sempre più radicalizzato al quale mancano leadership adeguate di governo e che, con questa esperienza, ha «finalmente» concluso la transizione avviata nel 1989, quando il crollo sovietico venne impropriamente vissuto come una vittoria americana. Dopo trent'anni i due blocchi mostrano di avere fallito nel tentativo di meritarsi l'egemonia globale, aprendo alla possibilità di un nuovo ordine multipolare e tutto da negoziare, e da meritare. Sarà dura. L'America chiamata dal Vecchio Mondo (che non voleva comprendere quanto i cambiamenti fossero più radicali di quelli narrati dalla comoda e superata idea della «globalizzazione») a continuare a fare da regolatore politico del traffico ha fallito e Trump, paradossalmente, ha celebrato il fallimento nel tentativo di salvare gli Stati Uniti, togliendo loro dalle spalle il fardello di potenza globale. Questo presidente ha portato a compimento il disfacimento avviato con entusiasmo dai suoi predecessori e, poi, ci ha messo tanto del suo: ha dimostrato il physique du rôle di quello che butta benzina sul cerino che gli hanno messo in mano, dando l'impressione di non volerlo spegnere ma neppure di tollerare di bruciarsi. E comunque, non poteva che andar male, perché gli americani non potevano togliersi addosso quello che il resto del mondo gli attribuiva, senza una discontinuità forte. L'attacco a Capitol Hill ha prima creato un problema all'America alla quale, un po' salvificamente, avevamo affidato il governo del mondo, e conseguentemente a tutti noi: che saremo chiamati a rimboccarci le maniche. Per fortuna che l'anno «bisesto» era quello passato.
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