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2021-10-02
Verso il voto: Sala spera nel primo turno, Calenda insegue Gualtieri
Dall'alto: Sala e Bernardo, Michetti e Calenda (Ansa)
Sala pensa di farcela al primo turno, ma sottovaluta le risorse di Bernardo
di Giorgio Gandola
Fosse stato per lui avrebbe inaugurato anche il Castello Sforzesco. Qualche giornale o sito disposto a scrivere che nel Cinquecento Giuseppe Sala era già qui, a Milano si trova facilmente. Dopo un'estate trascorsa a tagliare nastri su buchi cementificati con panchine già devastate (piazze tattiche) e praticelli con piantine asfittiche (biblioteche verdi), il sindaco della svolta Vanity di Milano - quella in cui non contano i fatti ma le definizioni - aspira a una rielezione al primo turno.
Gli ultimi sondaggi prima del silenzio lo davano in vantaggio (46% a 38%) sul pediatra Luca Bernardo scelto tardivamente dal centrodestra, quindi il rischio di altri cinque anni di nulla «spiegato bene» è concreto. Una contraddizione evidente è il festival green di Greta Thunberg, con la sinistra ecologista che finge di non conoscere il dato allarmante divulgato da Life Metro Adapt: in centro città ci sono mediamente quattro gradi in più rispetto al clima dell'hinterland; gli elettori di Sala hanno le borracce griffate ma inquinano più degli altri. C'è un altro triste primato: la cintura urbana è la meno salubre d'Europa e nel 2020 la città metropolitana ha avuto 3.967 decessi evitabili se fossero stati rispettati gli standard dell'Oms sulla qualità dell'aria (fonte Lancet). Come cantava Giorgio Gaber, che abitava in via Pacini, «vogliamo farci ingannare dalla realtà?».
No, e allora via con la favola green, con le piste ciclabili disegnate sull'asfalto per finire nel nulla, con la metro 4 con sei anni di ritardo, con i Gay pride, con l'accoglienza dei clandestini abbandonati alla stazione Centrale o lasciati allo sbando nelle periferie che il sindaco non ha mai frequentato in cinque anni. Sono temi che mettono in imbarazzo la stessa sinistra, infatti l'omerico «greenwashing» (parlare dell'ambiente e del resto senza far nulla al riguardo) fa salire le quotazioni di outsider come Gabriele Mariani e Giorgio Goggi. Ambientalista duro e puro il primo, ex socialista lunare il secondo, che si presenta per scoperchiare gli antichi Navigli e rendere ancora più delirante il traffico.
La Milano di Sala è una fashion town prigioniera delle fashion week e dei vecchi slogan dove il Pd gestisce il potere con feroce occupazione di ogni spazio sociale e culturale. E in nome della comoda patente antifascista ha aumentato senza colpo ferire anche i biglietti della metro. Giuseppe Conte ha provato a inserire il Movimento 5 stelle nella foto, ha lanciato la candidata Layla Pavone ma ha ricevuto solo porte in faccia. Il sindaco è consapevole che i grillini a Milano fanno scappare i consensi, quindi li tiene a distanza in attesa di imbarcarli in giunta.
In questo scenario da paura una spallata di Bernardo sarebbe salutare, ma nessuno sa se il medico ha le spalle larghe per darla, anche perché il centrodestra non ha mai dato l'impressione di essere compatto. La Lega lo ha aiutato più di tutti. Forte nelle periferie, dove Matteo Salvini si è speso molto e Silvia Sardone è una macchina da voti, il Carroccio ha come capolista la presidente di Federfarma Annarosa Racca e punta sulla società civile; esempi significativi l'ex comandante dei vigili Antonio Barbato e il segretario del Centro aiuto alla vita Mangiagalli, Francesco Migliarese, che un mese fa ha smascherato la fiera dei bambini in arrivo nel 2022.
Fratelli d'Italia si presenta con una star come Vittorio Feltri capolista e con una schiera di volti nuovi, fra i quali spicca un altro giornalista, Stefano Passaquindici. Forza Italia conta sull'esperienza di Fabrizio De Pasquale, spina nel fianco della giunta in questi anni; i centristi di Milano Popolare guidati da Maurizio Lupi puntano su Matteo Forte e Stefania Bonacorsi. A destra la sorpresa potrebbe essere Gianluigi Paragone con la sua Italexit, mentre l'ondivago Gabriele Albertini ha annunciato che darà una mano al ballottaggio. Curioso l'ultimo appello di Sala agli elettori di centrodestra a favore del voto disgiunto. Risposta di Giorgia Meloni: «È lui disgiunto dai problemi dei milanesi». Però ha costruito il Castello Sforzesco.
Roma: verso lo spareggio Gualtieri-Michetti. Però occhio a Calenda
di Mauro Bazzucchi
Quella del 2021 passerà probabilmente alla storia come la campagna elettorale dei cinghiali che scorrazzano indisturbati per le vie della città. Purtroppo, si tratta solo di uno dei problemi e delle spie del degrado che Roma ha raggiunto negli ultimi anni, ai quali i quattro candidati maggiori e gli altri 18 (sic) stanno cercando di dare una risposta convincente a un elettorato che, per la verità, si sta mostrando piuttosto disilluso dalla piega che stanno prendendo gli eventi.
Ma andiamo per ordine nella rassegna dei principali pretendenti al Campidoglio, partendo dalla sindaca uscente Virginia Raggi, che ha condotto una campagna in salita, dovendo rivendicare per coerenza una serie di presunti successi della sua amministrazione, che però i romani faticano a riconoscere. Tra i risultati illustrati ai cittadini, la Raggi ha insistito sul ripristino della legalità, ricordando le demolizioni delle ville abusive del clan Casamonica e alcuni sgomberi e sostenendo di aver rifatto gran parte del manto stradale. Sui problemi più gravi, quali la raccolta dei rifiuti e i trasporti, le note dolenti: la prima cittadina non è andata oltre l'accusa di malgoverno alle amministrazioni precedenti.
Proprio queste, incarnate prevalentemente dal Pd (fatta eccezione per la parentesi Gianni Alemanno) propongono come candidato l'ex ministro dell'Economia del governo Conte bis, Roberto Gualtieri, sostenuto, oltre che dai dem, da una rosa di liste che spaziano a sinistra e che annoverano la formazione del ministro della Salute, Roberto Speranza, e di Pierluigi Bersani. Anche per Gualtieri non si è trattato di una campagna facile, persino verso una parte del proprio elettorato, ancora scottato dalla vicenda della defenestrazione dell'ex sindaco Ignazio Marino a colpi di firme dal notaio. Non a caso, Marino ha fatto capire di preferire una rielezione della Raggi piuttosto che una vittoria dei suoi pugnalatori. Quanto al programma, Gualtieri ha insistito sulle risorse messe del Pnrr, il cui ammontare rivendica come ex inquilino di via XX settembre. Il suo slogan è «La città dei 15 minuti», rivolto alla mobilità sostenibile, ma anche nel suo caso restano la «sofferenza» delle precedenti gestioni del Pd dei servizi essenziali della città.
Enrico Michetti è la carta che ha deciso di giocare (sotto la forte pressione di Giorgia Meloni) il centrodestra unito, che si è ritrovato ieri mattina con tutti i leader in periferia per la chiusura della campagna. Avvocato esperto in questioni amministrative e burocratiche e consulente di molte amministrazioni locali, Michetti è stato nella fase iniziale l'oggetto misterioso di questa campagna elettorale, non godendo di una fama pari agli altri candidati, pur avendo uno spazio fisso come «tribuno» in una nota emittente radiofonica locale. Tra i punti qualificanti del suo programma, la valorizzazione dell'identità e del marchio «Roma» per far decollare un settore turistico e ricettivo che, a dispetto del grande giro d'affari che muove, sfrutta solo una parte delle potenzialità. Quanto ai rifiuti, Michetti propone il pieno compimento della raccolta porta a porta, mentre un punto del programma in cui si è distinto rispetto agli altri è quello della mobilità: rivedrebbe il piano di piste ciclabili messo a punto dalla Raggi, ritenuto dannoso per la circolazione cittadina.
Infine, c'è Carlo Calenda, il candidato che prima di tutti gli altri aveva annunciato l'intenzione di voler scendere in campo: a sostegno della sua candidatura ci sono, oltre ovviamente ad Azione (formazione di cui è leader) i renziani di Italia viva. Calenda sostiene apertamente la necessità di costruire termovalorizzatori per chiudere e risolvere il ciclo dei rifiuti, ma la proposta che ha fatto più discutere è stata quella di «sfrattare» l'amministrazione dal Campidoglio, dove sarebbe sostituita da un unico grande «Museo di Roma», sul modello del Louvre parigino.
Torino: il produttore di Barolo sotto la Mole guida il riscatto della destra
di Francesco Bonazzi
Un imprenditore prestato al centrodestra può togliere Torino al centrosinistra, dopo l'incolore parentesi grillina. Paolo Damilano, 55 anni, produttore di Barolo e di acque minerali, cuneese, è dato in vantaggio in tutti i sondaggi, nonostante la rimonta di Stefano Lo Russo, 45 anni, segretario cittadino del Pd e professore di geologia al Politecnico. Molto staccata Valentina Sganga, 35 anni, capogruppo M5s in Consiglio comunale. Sparita la battaglia contro il famoso «sistema Torino», quello di un centrosinistra egemone che maneggiava banche, fondazioni e cultura con la benedizione della Fiat. Contro il «sistema», nel 2016, si batté e vinse Chiara Appendino. La quale, appena eletta, si è subito arruolata. Il suo gradimento è ai minimi e così è scappata a Roma. Ma i voti grillini saranno decisivi in caso di ballottaggio.
Damilano è partito per primo con la sua lista «Torino bellissima» e per mesi non ha avuto un avversario. Quando è arrivato Lo Russo, dopo primarie in cui hanno votato solo 12.000 torinesi, non è cambiato molto. Campagna elettorale concreta, molto incentrata su lavoro, ambiente e periferie, e toni morbidi come un flan di cardi. Il Pd sperava di agitare lo spauracchio «Torino in mano a Salvini e ai fascisti», ma il morbido dolcevita scuro di Damilano non spaventa nessuno.
Se vincerà, sarà la vittoria di un imprenditore scelto a suo tempo da Sergio Chiamparino per presiedere la Torino Film commission. E visto che Damilano ha anche rilevato due locali storici in centro, a sinistra lo dipingono come «il re degli aperitivi». Ma il problema è che va a sfidare il grigio Lo Russo nelle roccaforti cittadine del Pd, ovvero il centro storico, la Crocetta e la collina. Fuori di lì, dai bei musei e dai negozi eleganti, c'è una città che non vedrà la famosa «gigafactory» di Stellantis e cerca ancora un destino dopo la fuga degli Agnelli Elkann. Così va in scena una sfida elettorale che è un po' come il derby Toro-Juve che si gioca stasera: aperto solo perché non c'è più Cristiano Ronaldo e i migliori, come Dybala, Morata e Belotti, sono in infermeria. Peccato, perché per la prima volta perfino a Torino il sindaco potrebbe contare qualcosa.
Bologna: Una sfida impossibile nel fortino dei dem insidiato dai renziani
A Bologna sono otto i pretendenti alla carica di primo cittadino, pronti a succedere all'uscente Virginio Merola, il sindaco in quota Pd, al suo secondo mandato. La corsa per Palazzo d'Accursio in queste elezioni amministrative post pandemia si giocherà però tra Matteo Lepore, candidato del centrosinistra sostenuto dalla coalizione di Pd e M5s, e lo sfidante Fabio Battistini, candidato civico appoggiato da Lega, Fratelli d'Italia e Forza Italia, oltre ad alcune liste civiche. Anche a Bologna, come a Torino, l'area della sinistra è divisa con più candidati sindaco: Dora Palumbo per Sinistra unita, Marta Collot per Potere al popolo e Federico Bacchiocchi per il Partito comunista dei lavoratori. A loro si aggiungono Stefano Sermenghi sostenuto dalle liste Bfc e Italexit; Luca Labanti con Movimento 24 agosto; Andrea Tosatto con 3V liberta verità.
Lepore, assessore con delega alla cultura dell'uscente giunta Merola, viene dato dai sondaggi vincente al primo turno bissando il risultato ottenuto alle primarie di coalizione di giugno, quando sfiorò il 60% di voti contro l'avversaria renziana Isabella Conti (sindaca di San Lazzaro). Una vittoria che ha portato all'alleanza con il M5s all'interno di quel «campo largo» tanto declamato dal segretario del Pd, Enrico Letta, fatto dalla coalizione delle liste Europa Verde, Psi-Volt, Anche tu conti, Matteo Lepore sindaco e Coalizione civica.
Lepore vuole fare di Bologna «la città più progressista d'Italia»; Battistini, invece, proprietario di un'azienda che commercia componenti per il settore dell'industria, ha all'attivo diverse esperienze di volontariato, tra cui quella che lo ha visto presidente della fondazione Consulta delle associazioni familiari, e insieme «a tante persone libere e senza tessera in tasca» vuole far «muovere la città». Si candida con la lista civica «Bologna ci piace» ed è sostenuto dal centrodestra e dalla lista Popolo della famiglia. Gli elettori bolognesi sono chiamati a rinnovare anche i sei Consigli di quartiere. In ciascuno vengono eletti 15 consiglieri, quindi per 90 seggi sono in corsa 558 candidati: 329 uomini e 229 donne.
Napoli: dietro Manfredi briga lo sceriffo
di Carlo Tarallo
A Napoli si sperimenta l'alleanza strutturale giallorossa: terminato il decennio targato Luigi De Magistris, Pd e M5s corrono uniti già al primo turno a sostegno del candidato a sindaco Gaetano Manfredi, ex ministro del secondo governo Conte. Manfredi spera di vincere al primo turno, e si affida a una mega coalizione di 13 liste, molte delle quali, direttamente o indirettamente, fanno riferimento al presidente della Regione, Vincenzo De Luca. L'incubo di Manfredi si chiama ballottaggio: il candidato giallorosso ha evitato accuratamente di presentarsi ai vari confronti tra i candidati a sindaco organizzati in queste settimane, e i suoi avversari puntano molto sul voto disgiunto, ovvero sulla possibilità che gli elettori votino per una delle liste che sostengono l'ex ministro ma poi scelgano un altro candidato a sindaco.
Per il centrodestra scende in campo il giudice Catello Maresca, sostenuto da otto liste: Forza Italia, Fratelli d'Italia, Cambiamo e cinque civiche. Manca all'appello la Lega, la cui lista civica di riferimento è stata bocciata dal Tar e dal Consiglio di Stato, stesso destino di altre tre civiche, due delle quali erano diretta espressione del candidato a sindaco. Nonostante questo intoppo, Maresca conta comunque di raggiungere il ballottaggio per poi giocarsela a viso aperto con Manfredi.
La sorpresa di questa tornata elettorale a Napoli è il ritorno in campo di Antonio Bassolino. L'ex ministro, ex sindaco ed ex presidente della Regione, ha messo in piedi una coalizione di cinque liste, ma scommette tutto sulla sua popolarità in città e sulla campagna porta a porta che lo ha visto tenere banco tra caseggiati, vicoli, mercati, piazze, piazzette e rioni. Bassolino è riuscito a tirare dalla sua parte molti esponenti del Pd napoletano, e ha già ricevuto l'endorsement di diversi esponenti storici della destra partenopea, che vedono in lui, più che in Maresca, la possibilità di sconfiggere la coalizione giallorossa di Manfredi.
In campo anche Alessandra Clemente, assessore di De Magistris, candidata dal sindaco uscente. La Clemente ha dalla sua parte tre liste. Si candida a sindaco per i dissidenti del M5s Matteo Brambilla, consigliere comunale uscente, che sta chiamando a raccolta i grillini «duri e puri» contrari all'alleanza con De Luca e il Pd. Completano il quadro altri due candidati a sindaco: Giovanni Moscarella e Rossella Solombrino.
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Milano: Bernardo, spinto dal centrodestra, ha frequentato quelle periferie che il manager ignora, impegnato a inaugurare piazzette e ciclabili. E il Pd sogna l'aiuto del M5s, che per ora è impresentabile. Roma: la Raggi sprofonda, l'ex Mef non scalda neanche i suoi. A lui e al «tribuno» scelto da Meloni fa concorrenza il capo di Azione.Le altre città al voto: Torino, Trieste, Bologna e Napoli.Lo speciale contiene sei articoli. Sala pensa di farcela al primo turno, ma sottovaluta le risorse di Bernardo di Giorgio Gandola Fosse stato per lui avrebbe inaugurato anche il Castello Sforzesco. Qualche giornale o sito disposto a scrivere che nel Cinquecento Giuseppe Sala era già qui, a Milano si trova facilmente. Dopo un'estate trascorsa a tagliare nastri su buchi cementificati con panchine già devastate (piazze tattiche) e praticelli con piantine asfittiche (biblioteche verdi), il sindaco della svolta Vanity di Milano - quella in cui non contano i fatti ma le definizioni - aspira a una rielezione al primo turno. Gli ultimi sondaggi prima del silenzio lo davano in vantaggio (46% a 38%) sul pediatra Luca Bernardo scelto tardivamente dal centrodestra, quindi il rischio di altri cinque anni di nulla «spiegato bene» è concreto. Una contraddizione evidente è il festival green di Greta Thunberg, con la sinistra ecologista che finge di non conoscere il dato allarmante divulgato da Life Metro Adapt: in centro città ci sono mediamente quattro gradi in più rispetto al clima dell'hinterland; gli elettori di Sala hanno le borracce griffate ma inquinano più degli altri. C'è un altro triste primato: la cintura urbana è la meno salubre d'Europa e nel 2020 la città metropolitana ha avuto 3.967 decessi evitabili se fossero stati rispettati gli standard dell'Oms sulla qualità dell'aria (fonte Lancet). Come cantava Giorgio Gaber, che abitava in via Pacini, «vogliamo farci ingannare dalla realtà?». No, e allora via con la favola green, con le piste ciclabili disegnate sull'asfalto per finire nel nulla, con la metro 4 con sei anni di ritardo, con i Gay pride, con l'accoglienza dei clandestini abbandonati alla stazione Centrale o lasciati allo sbando nelle periferie che il sindaco non ha mai frequentato in cinque anni. Sono temi che mettono in imbarazzo la stessa sinistra, infatti l'omerico «greenwashing» (parlare dell'ambiente e del resto senza far nulla al riguardo) fa salire le quotazioni di outsider come Gabriele Mariani e Giorgio Goggi. Ambientalista duro e puro il primo, ex socialista lunare il secondo, che si presenta per scoperchiare gli antichi Navigli e rendere ancora più delirante il traffico. La Milano di Sala è una fashion town prigioniera delle fashion week e dei vecchi slogan dove il Pd gestisce il potere con feroce occupazione di ogni spazio sociale e culturale. E in nome della comoda patente antifascista ha aumentato senza colpo ferire anche i biglietti della metro. Giuseppe Conte ha provato a inserire il Movimento 5 stelle nella foto, ha lanciato la candidata Layla Pavone ma ha ricevuto solo porte in faccia. Il sindaco è consapevole che i grillini a Milano fanno scappare i consensi, quindi li tiene a distanza in attesa di imbarcarli in giunta. In questo scenario da paura una spallata di Bernardo sarebbe salutare, ma nessuno sa se il medico ha le spalle larghe per darla, anche perché il centrodestra non ha mai dato l'impressione di essere compatto. La Lega lo ha aiutato più di tutti. Forte nelle periferie, dove Matteo Salvini si è speso molto e Silvia Sardone è una macchina da voti, il Carroccio ha come capolista la presidente di Federfarma Annarosa Racca e punta sulla società civile; esempi significativi l'ex comandante dei vigili Antonio Barbato e il segretario del Centro aiuto alla vita Mangiagalli, Francesco Migliarese, che un mese fa ha smascherato la fiera dei bambini in arrivo nel 2022. Fratelli d'Italia si presenta con una star come Vittorio Feltri capolista e con una schiera di volti nuovi, fra i quali spicca un altro giornalista, Stefano Passaquindici. Forza Italia conta sull'esperienza di Fabrizio De Pasquale, spina nel fianco della giunta in questi anni; i centristi di Milano Popolare guidati da Maurizio Lupi puntano su Matteo Forte e Stefania Bonacorsi. A destra la sorpresa potrebbe essere Gianluigi Paragone con la sua Italexit, mentre l'ondivago Gabriele Albertini ha annunciato che darà una mano al ballottaggio. Curioso l'ultimo appello di Sala agli elettori di centrodestra a favore del voto disgiunto. Risposta di Giorgia Meloni: «È lui disgiunto dai problemi dei milanesi». Però ha costruito il Castello Sforzesco. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/elezioni-milano-roma-2655207575.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="roma-verso-lo-spareggio-gualtieri-michetti-pero-occhio-a-calenda" data-post-id="2655207575" data-published-at="1633180088" data-use-pagination="False"> Roma: verso lo spareggio Gualtieri-Michetti. Però occhio a Calenda di Mauro Bazzucchi Quella del 2021 passerà probabilmente alla storia come la campagna elettorale dei cinghiali che scorrazzano indisturbati per le vie della città. Purtroppo, si tratta solo di uno dei problemi e delle spie del degrado che Roma ha raggiunto negli ultimi anni, ai quali i quattro candidati maggiori e gli altri 18 (sic) stanno cercando di dare una risposta convincente a un elettorato che, per la verità, si sta mostrando piuttosto disilluso dalla piega che stanno prendendo gli eventi. Ma andiamo per ordine nella rassegna dei principali pretendenti al Campidoglio, partendo dalla sindaca uscente Virginia Raggi, che ha condotto una campagna in salita, dovendo rivendicare per coerenza una serie di presunti successi della sua amministrazione, che però i romani faticano a riconoscere. Tra i risultati illustrati ai cittadini, la Raggi ha insistito sul ripristino della legalità, ricordando le demolizioni delle ville abusive del clan Casamonica e alcuni sgomberi e sostenendo di aver rifatto gran parte del manto stradale. Sui problemi più gravi, quali la raccolta dei rifiuti e i trasporti, le note dolenti: la prima cittadina non è andata oltre l'accusa di malgoverno alle amministrazioni precedenti. Proprio queste, incarnate prevalentemente dal Pd (fatta eccezione per la parentesi Gianni Alemanno) propongono come candidato l'ex ministro dell'Economia del governo Conte bis, Roberto Gualtieri, sostenuto, oltre che dai dem, da una rosa di liste che spaziano a sinistra e che annoverano la formazione del ministro della Salute, Roberto Speranza, e di Pierluigi Bersani. Anche per Gualtieri non si è trattato di una campagna facile, persino verso una parte del proprio elettorato, ancora scottato dalla vicenda della defenestrazione dell'ex sindaco Ignazio Marino a colpi di firme dal notaio. Non a caso, Marino ha fatto capire di preferire una rielezione della Raggi piuttosto che una vittoria dei suoi pugnalatori. Quanto al programma, Gualtieri ha insistito sulle risorse messe del Pnrr, il cui ammontare rivendica come ex inquilino di via XX settembre. Il suo slogan è «La città dei 15 minuti», rivolto alla mobilità sostenibile, ma anche nel suo caso restano la «sofferenza» delle precedenti gestioni del Pd dei servizi essenziali della città. Enrico Michetti è la carta che ha deciso di giocare (sotto la forte pressione di Giorgia Meloni) il centrodestra unito, che si è ritrovato ieri mattina con tutti i leader in periferia per la chiusura della campagna. Avvocato esperto in questioni amministrative e burocratiche e consulente di molte amministrazioni locali, Michetti è stato nella fase iniziale l'oggetto misterioso di questa campagna elettorale, non godendo di una fama pari agli altri candidati, pur avendo uno spazio fisso come «tribuno» in una nota emittente radiofonica locale. Tra i punti qualificanti del suo programma, la valorizzazione dell'identità e del marchio «Roma» per far decollare un settore turistico e ricettivo che, a dispetto del grande giro d'affari che muove, sfrutta solo una parte delle potenzialità. Quanto ai rifiuti, Michetti propone il pieno compimento della raccolta porta a porta, mentre un punto del programma in cui si è distinto rispetto agli altri è quello della mobilità: rivedrebbe il piano di piste ciclabili messo a punto dalla Raggi, ritenuto dannoso per la circolazione cittadina. Infine, c'è Carlo Calenda, il candidato che prima di tutti gli altri aveva annunciato l'intenzione di voler scendere in campo: a sostegno della sua candidatura ci sono, oltre ovviamente ad Azione (formazione di cui è leader) i renziani di Italia viva. Calenda sostiene apertamente la necessità di costruire termovalorizzatori per chiudere e risolvere il ciclo dei rifiuti, ma la proposta che ha fatto più discutere è stata quella di «sfrattare» l'amministrazione dal Campidoglio, dove sarebbe sostituita da un unico grande «Museo di Roma», sul modello del Louvre parigino. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/elezioni-milano-roma-2655207575.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="torino-il-produttore-di-barolo-sotto-la-mole-guida-il-riscatto-della-destra" data-post-id="2655207575" data-published-at="1633189953" data-use-pagination="False"> Torino: il produttore di Barolo sotto la Mole guida il riscatto della destra di Francesco Bonazzi Un imprenditore prestato al centrodestra può togliere Torino al centrosinistra, dopo l'incolore parentesi grillina. 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Campagna elettorale concreta, molto incentrata su lavoro, ambiente e periferie, e toni morbidi come un flan di cardi. Il Pd sperava di agitare lo spauracchio «Torino in mano a Salvini e ai fascisti», ma il morbido dolcevita scuro di Damilano non spaventa nessuno. Se vincerà, sarà la vittoria di un imprenditore scelto a suo tempo da Sergio Chiamparino per presiedere la Torino Film commission. E visto che Damilano ha anche rilevato due locali storici in centro, a sinistra lo dipingono come «il re degli aperitivi». Ma il problema è che va a sfidare il grigio Lo Russo nelle roccaforti cittadine del Pd, ovvero il centro storico, la Crocetta e la collina. Fuori di lì, dai bei musei e dai negozi eleganti, c'è una città che non vedrà la famosa «gigafactory» di Stellantis e cerca ancora un destino dopo la fuga degli Agnelli Elkann. Così va in scena una sfida elettorale che è un po' come il derby Toro-Juve che si gioca stasera: aperto solo perché non c'è più Cristiano Ronaldo e i migliori, come Dybala, Morata e Belotti, sono in infermeria. Peccato, perché per la prima volta perfino a Torino il sindaco potrebbe contare qualcosa. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem4" data-id="4" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/elezioni-milano-roma-2655207575.html?rebelltitem=4#rebelltitem4" data-basename="bologna-una-sfida-impossibile-nel-fortino-dei-dem-insidiato-dai-renziani" data-post-id="2655207575" data-published-at="1633189953" data-use-pagination="False"> Bologna: Una sfida impossibile nel fortino dei dem insidiato dai renziani A Bologna sono otto i pretendenti alla carica di primo cittadino, pronti a succedere all'uscente Virginio Merola, il sindaco in quota Pd, al suo secondo mandato. La corsa per Palazzo d'Accursio in queste elezioni amministrative post pandemia si giocherà però tra Matteo Lepore, candidato del centrosinistra sostenuto dalla coalizione di Pd e M5s, e lo sfidante Fabio Battistini, candidato civico appoggiato da Lega, Fratelli d'Italia e Forza Italia, oltre ad alcune liste civiche. Anche a Bologna, come a Torino, l'area della sinistra è divisa con più candidati sindaco: Dora Palumbo per Sinistra unita, Marta Collot per Potere al popolo e Federico Bacchiocchi per il Partito comunista dei lavoratori. A loro si aggiungono Stefano Sermenghi sostenuto dalle liste Bfc e Italexit; Luca Labanti con Movimento 24 agosto; Andrea Tosatto con 3V liberta verità. Lepore, assessore con delega alla cultura dell'uscente giunta Merola, viene dato dai sondaggi vincente al primo turno bissando il risultato ottenuto alle primarie di coalizione di giugno, quando sfiorò il 60% di voti contro l'avversaria renziana Isabella Conti (sindaca di San Lazzaro). Una vittoria che ha portato all'alleanza con il M5s all'interno di quel «campo largo» tanto declamato dal segretario del Pd, Enrico Letta, fatto dalla coalizione delle liste Europa Verde, Psi-Volt, Anche tu conti, Matteo Lepore sindaco e Coalizione civica. Lepore vuole fare di Bologna «la città più progressista d'Italia»; Battistini, invece, proprietario di un'azienda che commercia componenti per il settore dell'industria, ha all'attivo diverse esperienze di volontariato, tra cui quella che lo ha visto presidente della fondazione Consulta delle associazioni familiari, e insieme «a tante persone libere e senza tessera in tasca» vuole far «muovere la città». Si candida con la lista civica «Bologna ci piace» ed è sostenuto dal centrodestra e dalla lista Popolo della famiglia. Gli elettori bolognesi sono chiamati a rinnovare anche i sei Consigli di quartiere. In ciascuno vengono eletti 15 consiglieri, quindi per 90 seggi sono in corsa 558 candidati: 329 uomini e 229 donne. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem5" data-id="5" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/elezioni-milano-roma-2655207575.html?rebelltitem=5#rebelltitem5" data-basename="napoli-dietro-manfredi-briga-lo-sceriffo" data-post-id="2655207575" data-published-at="1633189953" data-use-pagination="False"> Napoli: dietro Manfredi briga lo sceriffo di Carlo TaralloA Napoli si sperimenta l'alleanza strutturale giallorossa: terminato il decennio targato Luigi De Magistris, Pd e M5s corrono uniti già al primo turno a sostegno del candidato a sindaco Gaetano Manfredi, ex ministro del secondo governo Conte. Manfredi spera di vincere al primo turno, e si affida a una mega coalizione di 13 liste, molte delle quali, direttamente o indirettamente, fanno riferimento al presidente della Regione, Vincenzo De Luca. L'incubo di Manfredi si chiama ballottaggio: il candidato giallorosso ha evitato accuratamente di presentarsi ai vari confronti tra i candidati a sindaco organizzati in queste settimane, e i suoi avversari puntano molto sul voto disgiunto, ovvero sulla possibilità che gli elettori votino per una delle liste che sostengono l'ex ministro ma poi scelgano un altro candidato a sindaco. Per il centrodestra scende in campo il giudice Catello Maresca, sostenuto da otto liste: Forza Italia, Fratelli d'Italia, Cambiamo e cinque civiche. Manca all'appello la Lega, la cui lista civica di riferimento è stata bocciata dal Tar e dal Consiglio di Stato, stesso destino di altre tre civiche, due delle quali erano diretta espressione del candidato a sindaco. Nonostante questo intoppo, Maresca conta comunque di raggiungere il ballottaggio per poi giocarsela a viso aperto con Manfredi. La sorpresa di questa tornata elettorale a Napoli è il ritorno in campo di Antonio Bassolino. L'ex ministro, ex sindaco ed ex presidente della Regione, ha messo in piedi una coalizione di cinque liste, ma scommette tutto sulla sua popolarità in città e sulla campagna porta a porta che lo ha visto tenere banco tra caseggiati, vicoli, mercati, piazze, piazzette e rioni. Bassolino è riuscito a tirare dalla sua parte molti esponenti del Pd napoletano, e ha già ricevuto l'endorsement di diversi esponenti storici della destra partenopea, che vedono in lui, più che in Maresca, la possibilità di sconfiggere la coalizione giallorossa di Manfredi. In campo anche Alessandra Clemente, assessore di De Magistris, candidata dal sindaco uscente. La Clemente ha dalla sua parte tre liste. Si candida a sindaco per i dissidenti del M5s Matteo Brambilla, consigliere comunale uscente, che sta chiamando a raccolta i grillini «duri e puri» contrari all'alleanza con De Luca e il Pd. Completano il quadro altri due candidati a sindaco: Giovanni Moscarella e Rossella Solombrino.
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Prima di essere lapidati da musicofili inflessibili o da fanatici ammiratori di Beethoven (lo siamo anche noi) lasciamo allo stesso Ludwig Vchean l’ultima parola sull’argomento: «Solo i puri di cuore», affermò il genio tedesco, «possono cucinare una buona zuppa». Capito? Il sommo compositore a tavola amava i piatti semplici e disprezzava quelli troppo complicati. Adorava la zuppa, soprattutto quella di pane e uova: era il suo piatto preferito insieme ai maccheroni con il formaggio. Era sordo, ma le papille gustative gli funzionavano alla grande.
Una vera e propria zuppa di verdure musicale la serve al pubblico un gruppo austriaco formato da musicisti, designer, scenografi, autori. Si chiama The Vegetable Orchestra, che usa le verdure come strumenti musicali: una carota intagliata in una certa maniera diventa un flauto, la zucca uno strumento di percussione, le melanzane diventano dopo un sapiente lavoro di intaglio delle nacchere, le zucchine strumenti a fiato e così via. Con questi strumenti suonano pezzi di jazz o di dub, un genere musicale che deriva dal reggae giamaicano, e altra musica. Finito il concerto, dopo gli applausi del pubblico stupito da tanta musica «verde», i musicisti si trasformano in cuochi, gettano gli strumenti in pentoloni e preparano una bella zuppa per il pubblico dopo aver lavato gli strumenti, soprattutto quelli a fiato.
La zuppa vanta una storia vecchia come l’homo sapiens. Fu uno dei primi piatti elaborati dai nostri cavernicoli progenitori centinaia di migliaia di anni fa. Gli studiosi del periodo paleolitico ci documentano che la scoperta dell’acqua calda e il suo impiego per cuocere verdure e altri cibi avvenne nell’età della pietra antica, in incavi di roccia pieni d’acqua nella quale gli uomini primitivi tuffavano pietre roventi per farla bollire. Fu così che nacquero i primi minestroni. La parola «zuppa» arriverà molti millenni dopo, ma sempre in tempi molto antichi rispetto a noi, mutuata dal termine germanico suppa che definiva la fetta di pane inzuppata. Il pane era nell’antichità il cucchiaio dei poveri, le dita della mano la forchetta. La «posateria» delle classi più umili era tutta lì. Una sorta di brodaglia nera molto spartana chiamata melas zomos, nera zuppa, fatta con sangue di porco, budella e vino era la zuppa dei duri soldati di Sparta. A loro, che non cercavano mollezze, piaceva così, brutta da vedere ma semplice e nutriente, adatta a sostenere il fisico durante le campagne militari. Spostandoci in altre parti dell’antica penisola ellenica troviamo una cucina meno rigorosa, ma sempre con un menu nel quale zuppe e piatti brodosi a base di verdure, cereali, erbe spontanee e legumi vari, abbondavano.
Cotture e metodi a parte, quelle preparazioni sono le bis-bis-bisnonne delle zuppe che mangiamo noi oggi fatte, come allora, con cereali tipo orzo e farro, o con legumi, ceci, lenticchie, fave. Borlotti e cannellini erano al di là dell’Atlantico che aspettavano di essere scoperti. Il Phaseolus vulgaris arriverà dopo i viaggi di Colombo e degli altri viaggiatori su caravelle dirette verso il Nuovo mondo. Dalla Grecia a Roma le zuppe sostanzialmente non cambiano: erano piatti che facevano parte della dieta quotidiana dei Romani. Fonti di proteine e nutrienti, erano il comfort food delle classi plebee e dei contadini. Tra le altre zuppe, i legionari amavano quella fatta con pane, aglio, olio e aceto. Furono loro a introdurla in Spagna dove si evolverà fino a diventare il moderno gazpacho, zuppa fredda che si arricchì dal Cinquecento in poi con il pomodoro e i peperoni venuti dall’America.
Una zuppa leggendaria è la soupe à la pavoise, la zuppa pavese, che ha trovato posto nei libri di storia gastronomica dove si racconta di Francesco I di Valois, re di Francia sconfitto e fatto prigioniero dagli spagnoli di Carlo V nella battaglia di Pavia del 24 febbraio 1525. L’accasciato François du grand nez, come lo chiamavano i suoi sudditi per via del nasone che gli troneggiava sopra la bocca, fu portato dai nemici vincitori in un cascinale di campagna dove trovò ristoro e consolazione nella povera zuppa preparatogli dalla contadina del casolare che mise in una rozza scodella due croste di pane raffermo sopra le quali scocciò un uovo versando poi sul tutto il brodo bollente di erbe spontanee che gorgogliava quotidianamente nella marmitta sul camino. Francesco I, con il morale a terra per la sconfitta («Tutto è perduto fuorché l’onore»), apprezzò talmente quella zuppa villana che quando ritornò sul trono convocò i cuochi di corte insegnando loro la ricetta della zuppa pavese che fu perfezionata dagli chef i quali aggiunsero altri ingredienti ricchi elevandola da contadina che era ad aristocratica.
C’è da dire che la zuppa in Francia troverà il successo che merita grazie a una figura più leggendaria che reale, tale Monsieur Boulanger marchand de bouillon, mercante di brodo. Siamo a Parigi 25 anni prima della presa della Bastiglia e dello scoppio della rivoluzione. Il mitico Boulanger vende zuppe restaurateurs, restauratrici, che sistemano lo stomaco dei clienti cagionevoli rimettendoli in salute in un ambiente tutto sommato comodo con i tavoli accoglienti. Nasce da queste zuppe il restaurant, il ristorante che prende il nome dal ristoro, il conforto, che regalano le zuppe. Dando ragione in questo all’antico e saggio proverbio italiano regalatoci dalla civiltà contadina fin dal Medioevo: «Sette cose fa la zuppa: cava la fame e la sete tutta, empie il ventre, netta il dente, fa dormire, fa smaltire e la guancia fa arrossire».
Il più alto riconoscimento a questo piatto umile ma tanto utile alla sopravvivenza della povera umanità, lo firmano, tra gli altri, alcuni grandi artisti moderni: Paul Cézanne con la sua Natura morta con zuppiera (1884), Pablo Picasso che affronta il tema della povertà ne La zuppa, opera del periodo blu che mostra una vecchia paurosamente magra che porge una scodella di zuppa a una bambina, ma soprattutto Andy Warhol. Il re della Pop art che confessò di aver mangiato a pranzo per vent’anni i barattoloni di zuppa Campbell’s rivoluzionò i concetti di natura morta e di bellezza immortalando le stesse lattine zuppesche in una serie di opere seriali la più importante delle quali è la Campbell’s Soup Cans che presenta tutta la produzione di zuppe della Cambell’s: al pomodoro, agli asparagi, alla carne, al pollo, ai fagioli neri, e così via per 200 volte. Paradossalmente a dare importanza alla zuppa nell’arte sono stati anche le attiviste per il clima che il 28 gennaio dello scorso anno lanciarono la zuppa contro la Gioconda di Leonardo, ben protetta dal vetro antiguai, invocando un’agricoltura mondiale sana.
È profondamente ingiusto nei confronti della zuppa il detto «Se non è zuppa è pan bagnato». Come sopra detto la zuppa è salvifica, ristoratrice, ristoro e medicina attraverso i secoli dell’umanità misera. E poi la famiglia zuppesca è molto varia. Oltre alla zuppa-madre ci sono la minestra, il minestrone, la crema, la vellutata, il passato. Non sono sinonimi, ogni piatto ha la sua caratteristica che riguarda gli ingredienti e le tecniche di preparazione per le quali rimandiamo ai libri di cucina.
Concludiamo con la mistica zen. Un allievo chiede al maestro: «Cosa devo fare per raggiungere l’Illuminazione?». Gli risponde il maestro: «Hai mangiato la zuppa?» «Sì». «Allora lava la scodella».
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Gabriele D'Annunzio (Ansa)
Il patrimonio mondiale dell’umanità rappresentato dalla cucina italiana sarà pure «immateriale», come da definizione Unesco, ma è fatto di carne, ossa, talento e creatività. È il risultato delle centinaia di migliaia di persone che, nel corso dei secoli e dei millenni, hanno affinato tecniche, scoperto ingredienti, assemblato gusti, allevato animali con amore e coltivato la terra con altrettanta dedizione. Insomma, dietro la cucina italiana ci sono... gli italiani.
Ed è a tutti questi peones e protagonisti della nostra storia che il riconoscimento va intestato. Ma anche a chi assapora le pietanze in un ristorante, in un bistrot o in un agriturismo. Alla fine, se ci si pensa, la cucina italiana siamo tutti noi: sono i grandi chef come le mamme o le nonne che si danno da fare tra le padelle della cucina. Sono i clienti dei ristoranti, gli amanti dei formaggi come dei salumi. Sono i giornalisti che fanno divulgazione, sono i fotografi che immortalano i piatti, sono gli scrittori che dedicano pagine e pagine delle loro opere ai manicaretti preferiti dal protagonista di questo o quel romanzo. Insomma, la cucina è cultura, identità, passato e anche futuro.
Giancarlo Saran, gastropenna di questo giornale, ha dato alle stampe Peccatori di gola 2 (Bolis edizioni, 18 euro, seguito del fortunato libro uscito nel 2024 vincitore del Premio selezione Bancarella cucina), volume contenente 13 ritratti di personaggi di spicco del mondo dell’italica buona tavola («Un viaggio curioso e goloso tra tavola e dintorni, con illustri personaggi del Novecento compresi alcuni insospettabili», sentenzia l’autore sulla quarta di copertina). Ci sono il «fotografo» Bob Noto e l’attore Ugo Tognazzi, l’imprenditore Giancarlo Ligabue e gli scrittori Gabriele D’Annunzio, Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. E poi ancora Lella Fabrizi (la sora Lella), Luciano Pavarotti, Pietro Marzotto, Gianni Frasi, Alfredo Beltrame, Giuseppe Maffioli, Pellegrino Artusi.
Un giro d’Italia culinario, quello di Saran, che testimonia come il riconoscimento Unesco potrebbe dare ulteriore valore al nostro made in Italy, con risvolti di vario tipo: rispetto dell’ambiente e delle nostre tradizioni, volano per l’economia e per il turismo, salvaguardia delle radici dal pericolo di una appiattente omologazione sociale e culturale. Sfogliando Peccatori 2, si può possono scovare, praticamente a ogni pagina, delle chicche. Tipo, la passione di D’Annunzio per le uova e la frittata. Scrive Saran: «D’Annunzio aveva un’esperienza indelebile legata alle frittate, che ebbe occasione di esercitare in diretta nelle giornate di vacanza a Francavilla con i suoi giovani compagni di ventura in cui, a rotazione, erano chiamati “l’uno a sfamare tutti gli altri”. Lasciamogli la cronaca in diretta. Chi meglio di lui. “In un pomeriggio di luglio ci attardavamo nella delizia del bagno quando mi fu rammentato, con le voci della fame, toccare a me le cura della cucina”. La affronta come si deve. “Non mancai di avvolgermi in una veste di lino rapita a Ebe”, la dea della giovinezza, “e di correre verso la vasta dimora costruita di tufo e adornata di maioliche paesane”. Non c’è storia: “Ruppi trentatré uova e, dopo averle sbattute, le agguagliai (mischiai) nella padella dal manico di ferro lungo come quello di una chitarra”. La notte è illuminata dal chiaro di luna che si riflette sulle onde, silenziose in attesa, e fu così che “adunai la sapienza e il misurato vigore... e diedi il colpo attentissimo a ricevere la frittata riversa”. Ma nulla da fare, questa, volando nel cielo non ricadde a terra, ovvero sulla padella. E qui avviene il miracolo laico. “Nel volgere gli occhi al cielo scorsi nel bagliore del novilunio la tunica e l’ala di un angelo”. Il finale conseguente. “L’angelo, nel passaggio, aveva colta la frittata in aria, l’aveva rapita, la sosteneva con le dita” con la missione imperativa di recarla ai Beati, “offerta di perfezione terrestre...”, di cui lui era stato (seppur involontario) protagonista. “Io mi vanto maestro insuperabile nell’arte della frittata per riconoscimento celestiale”.
La buona e sana cucina, dunque, ha come traino produttori e ristoratori «ma ancor più valore aggiunto deriva da degni ambasciatori e, con questo, i Peccatori di gola credo meritino piena assoluzione», conclude l’autore.
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Dal primo luglio 2026, in tutta l’Unione europea entrerà in vigore un contributo fisso di tre euro per ciascun prodotto acquistato su internet e spedito da Paesi extra-Ue, quando il valore della spedizione è inferiore a 150 euro. L’orientamento politico era stato definito già il mese scorso; la riunione di ieri del Consiglio Ecofin (12 dicembre) ne ha reso operativa l’applicazione, stabilendone i criteri.
Il prelievo di 3 euro si applicherà alle merci in ingresso nell’Unione europea per le quali i venditori extra-Ue risultano registrati allo sportello unico per le importazioni (Ioss) ai fini Iva. Secondo fonti di Bruxelles, questo perimetro copre «il 93% di tutti i flussi di e-commerce verso l’Ue».
In realtà, la misura non viene presentata direttamente come un’iniziativa mirata contro la Cina, anche se è dalla Repubblica Popolare che proviene la quota maggiore di pacchi. Una delle preoccupazioni tra i ministri è che parte della merce venga immessa nel mercato unico a prezzi artificialmente bassi, anche attraverso pratiche di sottovalutazione, per aggirare le tariffe che si applicano invece alle spedizioni oltre i 150 euro. La Commissione europea stima che nel 2024 il 91% delle spedizioni e-commerce sotto i 150 euro sia arrivato dalla Cina; inoltre, valutazioni Ue indicano che fino al 65% dei piccoli pacchi in ingresso potrebbe essere dichiarato a un valore inferiore al reale per evitare i dazi doganali.
«La decisione sui dazi doganali per i piccoli pacchi in arrivo nell’Ue è importante per garantire una concorrenza leale ai nostri confini nell’era odierna dell’e-commerce», ha detto il commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič. Secondo il politico slovacco, «con la rapida espansione dell’e-commerce, il mondo sta cambiando rapidamente e abbiamo bisogno degli strumenti giusti per stare al passo».
La decisione finale da parte di Bruxelles arriva dopo un iter normativo lungo cinque anni. La Commissione europea aveva messo sul tavolo, nel maggio 2023, la cancellazione dell’esenzione dai dazi doganali per i pacchi con valore inferiore a 150 euro, inserendola nel pacchetto di riforma doganale. Nella versione originaria, l’entrata in vigore era prevista non prima della metà del 2028. Successivamente, il Consiglio ha formalizzato l’abolizione dell’esenzione il 13 novembre 2025, chiedendo però di anticipare l’applicazione già al 2026.
C’è poi un secondo balzello messo a punto dall’esecutivo Meloni. Si tratta di un emendamento che prevede l’introduzione di un contributo fisso di due euro per ogni pacco spedito con valore dichiarato fino a 150 euro.
La misura, però, non sarebbe limitata ai soli invii provenienti da Paesi extra-Ue. Rispetto alle ipotesi circolate in precedenza, l’impostazione è stata ampliata: se approvata, la tassa finirebbe per applicarsi a tutte le spedizioni di piccoli pacchi, indipendentemente dall’origine, quindi anche a quelle spedite dall’Italia. In origine, l’idea sembrava mirata soprattutto a intercettare le micro-spedizioni generate da piattaforme come Shein o Temu. Il punto, però, è che colpire esclusivamente i pacchi extra-europei avrebbe reso la misura assimilabile a un dazio, materia che rientra nella competenza dell’Unione europea e non dei singoli Stati membri. Per evitare questo profilo di incompatibilità, l’emendamento alla manovra 2026 ha quindi «generalizzato» il prelievo, estendendolo all’intero perimetro delle spedizioni. L’effetto pratico è evidente: la tassa non impatterebbe solo sulle piattaforme asiatiche, ma anche sugli acquisti effettuati su Amazon, eBay e, in generale, su qualsiasi negozio online che spedisca pacchi entro quella soglia di valore dichiarato.
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Ansa
Insomma: il vento è cambiato. E non spinge più la solita, ingombrante, vela francese che negli ultimi anni si era abituata a intendere l’Italia come un’estensione naturale della Rive Gauche.
E invece no. Il pendolo torna indietro. E con esso tornano anche ricordi e fantasie: Piersilvio Berlusconi sogna la Francia. Non quella dei consessi istituzionali, ma quella di quando suo padre, l’unico che sia riuscito a esportare il varietà italiano oltre le Alpi, provò l’avventura di La Cinq.
Una televisione talmente avanti che il presidente socialista François Mitterrand, per non farla andare troppo lontano, decise di spegnerla. Letteralmente.
Erano gli anni in cui gli italiani facevano shopping nella grandeur: Gianni Agnelli prese una quota di Danone e Raul Gardini mise le mani sul più grande zuccherificio francese, giusto per far capire che il gusto per il raffinato non ci era mai mancato. Oggi al massimo compriamo qualche croissant a prezzo pieno.
Dunque, Berlusconi – quello junior, stavolta – può dirlo senza arrossire: «La Francia sarebbe un sogno». Si guarda intorno, valuta, misura il terreno: Tf1 e M6.
La prima, dice, «ha una storia imprenditoriale solida»: niente da dire, anche le fortezze hanno i loro punti deboli. Con la seconda, «una finta opportunità». Tradotto: l’affare che non c’è, ma che ti fa perdere lo stesso due settimane di telefonate.
Il vero punto, però, è che mentre noi guardiamo a Parigi, Parigi si deve rassegnare. Lo dimostra il clamoroso stop di Crédit Agricole su Bpm, piantato lì come un cartello stradale: «Fine delle ambizioni». Con Bank of America che conferma la raccomandazione «Buy» su Mps e alza il target price a 11 euro. E non c’è solo questo. Natixis ha dovuto rinunciare alla cassaforte di Generali dov’è conservata buona parte del risparmio degli italiani. Vivendi si è ritirata. Tim è tornata italiana.
Il pendolo, dicevamo, ha cambiato asse. E spinge ben più a Ovest. Certo Parigi rimane il più importante investitore estero in Italia. Ma il vento della geopolitica e cambiato. Il nuovo asse si snoda tra Washington e Roma Gli americani non stanno bussando alla porta: sono già entrati.
E non con due spicci.
Ieri le due sigle più «Miami style» che potessero atterrare nel dossier Ilva – Bedrock Industries e Flacks Group – hanno presentato le loro offerte. Americani entrambi. Dall’odore ancora fresco di oceano, baseball e investimenti senza fronzoli.
E non è un caso isolato.
In Italia operano oltre 2.700 imprese a partecipazione statunitense, che generano 400.000 posti di lavoro. Non esattamente compratori di souvenir. Sono radicati nei capannoni, nella logistica, nelle tecnologie, nei servizi, nella manifattura. Un pezzo intero di economia reale. Poi c’è il capitolo dei giganti della finanza globale: BlackRock, Vanguard, i soliti nomi che quando entrano in una stanza fanno più rumore del tuono. Hanno fiutato l’aria e annusato l’Italia come fosse un tartufo bianco d’Alba: raro, caro e conveniente.
Gli incontri istituzionali degli ultimi anni parlano chiaro: data center, infrastrutture, digitalizzazione, energia.
Gli americani non si accontentano. Puntano al core del futuro: tecnologia, energia, scienza della vita, space economy, agritech.
Dopo l’investimento di Kkr nella rete fissa Telecom - uno dei deal più massicci degli ultimi quindici anni - la direzione è segnata: Washington ha scoperto che l’Italia rende.
A ottobre 2025 la grande conferma: missione economica a Washington, con una pioggia di annunci per oltre 4 miliardi di euro di nuovi investimenti. Non bonus, non promesse, ma progetti veri: space economy, sostenibilità, energia, life sciences, agri-tech, turism. Tutti settori dove l’Italia è più forte di quanto creda, e più sottovalutata di quanto dovrebbe.
A questo punto il pendolo ha parlato: gli americani investono, i francesi frenano.
E chissà che, alla fine, non si chiuda il cerchio: gli Usa tornano in Italia come investitori netti, e Berlusconi torna in Francia come ai tempi dell’avventura di La Cinq.
Magari senza che un nuovo Mitterrand tolga la spina.
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